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venerdì 10 febbraio 2017

IL LUME DEI RICORDI - Maria Cipriano




Nel caos di questi tempi tristi e decadenti, caos creato ad arte, perché nella confusione e nella zizzania è molto più facile comandare e raggiungere certi fini, fra le mete niente affatto secondarie perseguite dalla regia o dalle regie che da decenni sovrintendono all'andamento della politica e dell'economia, c'è anche quella di dividere l'Italia. Dividere, come capisce anche un bambino, significa indebolire, significa sostanzialmente togliere di mezzo una compagine che fino a pochi anni fa era la quinta potenza mondiale del pianeta, e la cui vitalità economica, anche dopo la sconfitta del '45, sbalordì lo stesso Kissinger - segretario di stato americano durante le presidenze Nixon e Ford -, il quale testualmente dichiarò che mai avrebbe immaginato l'Italia si sarebbe rialzata in tal modo da una disfatta come quella subita nel secondo conflitto mondiale. Allo stesso modo si espresse l'imperatore Francesco Giuseppe all'indomani della conclusione del Risorgimento, quando, quasi preconizzando la sconfitta austriaca del 1918, definì l'Italia una nazione risorta a impensata floridezza, una nascente potenza che costituiva per l'Austria una spina nel fianco e una minaccia permanente.
Per chi conosce a fondo la storia della nostra nazione, ciò non costituisce una novità: noi ci siamo sempre rialzati, infatti, da ogni tipo di sciagura, anche se hanno sempre cercato di tarparci le ali, conquistarci, invaderci, sgraffignare la roba nostra, impadronirsi delle nostre ricchezze, impedirci di emergere, avanzare diritti inesistenti sui nostri territori, etc., e spesso ci sono riusciti, ma senza mai arrivare alla definitiva conclusione, come dimostra il fatto che siamo ancora qui “vivi e implacabili”, per usare un'espressione Dannunziana. Che questa smania di umiliarci e schiacciarci sia dovuta al fatto di essere noi teoricamente i discendenti dei Romani, è molto probabile, anzi è provato da numerosi fatti che non starò a elencare, e attorno a cui perfino Shakespeare scrisse una notevole tragedia, significativa anche se poco conosciuta: il Tito Andronìco. La tragedia che parla di Roma e dei suoi discendenti. La “tragedia della vendetta”, come fu chiamata, per la terribile vendetta di sangue che il Padre Romano, a sorpresa, segretamente ha congegnato contro i nemici esterni e interni della nazione che lo credono uscito di scena e non più in grado di nuocere, e ne vengono invece malamente travolti e annientati alla fine dei tempi, dalle cui rovine rinasce l'Impero.
Pur riconoscendo l'ammirazione e l'amicizia sincera manifestata nei secoli da tanti stranieri che si sono dimostrati amanti e cultori dell'Italia e della sua civiltà e hanno fatto del bene al nostro Paese, purtroppo la realtà generale è questa: l'Italia ha sempre costituito un bersaglio, una mira, una spina nel fianco e comunque un pericolo per la geopolitica. E' questa la ragione sostanziale del notevole ritardo con cui si compì il suo Risorgimento: nonché dell'immensa fatica e del sangue che costò. Purtroppo oggi siamo costretti a convivere nostro malgrado con una truppa di persone che crede e vuol credere che il Risorgimento sia stato opera di pochi, e questi pochi l'abbiano realizzato male, peggio, commettendo delitti e massacri indicibili nel mezzogiorno d'Italia, refrattario e anzi avverso all'Unità della nazione. Faccio solo due piccoli esempi. Uno dei menestrelli attuali delle bellezze del Regno delle due Sicilie, destinatario pure di un premio giornalistico, dichiarò in un'intervista che il meridione diede alla causa italiana 44 volontari (sic!!). Facendo un balzo di centinaia di chilometri, tra lo sparuto gruppuscolo di triestini indipendentisti, nostalgici dell'Austria e filoslavi che attualmente galleggia a pelo delle acque anti-italiane, è ormai una regola dire che l'irredentismo Triestino riguardò solo poche migliaia di persone, la restante parte della città (240.000 persone) essendone completamente estranea. Ciò è smentito da una serie di fatti eclatanti (primo fra tutti le oceaniche accoglienze all'esercito italiano nel 1918), fatti tra i quali basterebbe annoverare questo: in occasione della tragica morte dell'imperatrice Elisabetta (la celebre Sissi) nel 1898, la notizia fu accolta nella città di Trieste nella pressoché totale indifferenza, suscitando le ire delle autorità austriache. Viceversa, quando morì il Re Vittorio Emanuele II vent'anni prima, nel 1878, la città si vestì a lutto, i negozi chiusero, una gran folla partecipò alla Messa di suffragio, seguendo poi il console d'Italia commendator Bruno fin davanti alla sede del consolato ove inscenò una manifestazione patriottica che finì col solito intervento della Polizia (uno dei tanti) .
Dunque: Risorgimento è una parola solenne e sacra finita in bocca a gente dozzinale che si autodefinisce storica e di storico non ha nulla, a meno di non voler degradare la Storia, che è una Scienza, a livello di gossip, di passaparola, di letture superficiali e inconsistenti, e, addirittura, di plateali bugie.
Poiché la divisione dell'Italia non è andata a segno quando si pensava che la Lega Nord ci sarebbe riuscita nei lontani anni ottanta, ecco che le basse forze della discordia sono tornate all'attacco, stavolta armate di nostalgie neoborboniche, asburgiche e papaline, sbandierando assurdi primati, genocidi inesistenti, spoliazioni mai avvenute, e non importa se mentono sapendo di mentire poiché il loro scopo non è quello di cercare la presunta verità storica, ma semplicemente di spargere inimicizia, sospetto, avversione e malumore in una nazione che, pur riemersa materialmente dalla sconfitta del '45, dal punto di vista spirituale è da allora priva di una vera guida, lasciata a sé stessa e ai suoi instabili umori, che sappiamo quali sono attualmente, alle prese con una crisi economica che non ha mai fine e con disgrazie che si succedono una dopo l'altra, magari richiamate dalle stupidaggini, dagli spropositi e dalle follie cui assistiamo ogni giorno, muti e impotenti spettatori di fronte agli argini infranti dell'intelligenza e del buon senso.
Le calunnie sul Risorgimento costituiscono uno dei punti, e il più cruciale, ove si addensano e si arruffano le aggressioni contro l'identità nazionale. Mettendo in forse l'unità della nazione, mettendo in dubbio la sua stessa legittimità, irridendo e gettando fango sul processo che ha portato a quel traguardo, sminuendolo e inquinandolo di bugie, dicendo che Garibaldi era un sanguinario e Cialdini un macellaio, ecco che i satrapi furbi dell'antiRisorgimento eccitano un certo popolino, ansioso di sentirsi assolvere dalle colpe del presente scaricando sul passato le frustrazioni, le delusioni, le rabbie e le insoddisfazioni la cui causa non ha niente a che vedere con coloro che fecero il Risorgimento. Tra l'altro, se Cialdini fosse stato un macellaio, non avrebbe certo impedito che il fanatico generale borbonico Fergola che aveva resistito otto mesi nella cittadella di Messina con i suoi, fosse linciato dalla folla dei messinesi infuriati.
Volendo stilare la squallida classifica dei venditori di fumo antirisorgimentale, ve ne sono alcuni che hanno raggiunto un'impensata notorietà, non certo per meriti storici, ma perché i media ne hanno creato un caso, e si sa che il parco buoi è ciò che consente di prosperare a tutto il meccanismo propagandistico-pubblicitario che fa capo alla televisione e ai principali quotidiani, dove, dietro la facciata ufficiale dell'Unità d'Italia, celebrata più a parole che a fatti, alligna indisturbata una ben più corposa congrega di detrattori, infangatori e mentitori. Di più, in quest'epoca infelice, l'ignoranza è il valore maggiormente condiviso, assieme alla volgarità, alla finzione, alla superficialità e al sensazionalismo, e di conseguenza le pindariche bordate dell'artiglieria antirisorgimentale vanno a segno con sorprendente facilità.
Costituisce dunque un fenomeno sociologico - altro non saprei come definirlo - il fatto che un tal numero di gente creda alle balle del primo venuto, eppure è così: nel terzo millennio, nell'era dei telescopi orbitali a infrarossi che indagano le profondità dello spazio, una miriade di gente in Italia ha creduto a bocca aperta (senza discutere, senza svolgere indagini, senza documentarsi, senza leggere, senza chiedere a qualcuno che magari ne sa di più, senza nemmeno porsi un interrogativo e un dubbio personale), ha creduto semplicemente, sull'onda dell'emotività e quindi dell'irrazionalità, a cose a cui evidentemente voleva credere e aveva bisogno di credere per autoassolversi, consolarsi e dar sfogo alle proprie personali frustrazioni. Così abbiamo appreso da una sorta di negromante-indovino, il quale è certamente dotato di poteri paranormali e chiaroveggenti che gli consentono di scandagliare la complessa trama del Risorgimento, e invece mancano a professori, storici e ricercatori che vi hanno dedicato anni e anni di studio, abbiamo appreso che i “piemontesi”, nazisti ante-litteram, tanto per cominciare invasero il meridione contro la sua volontà, e, volendo a tutti i costi unire l'Italia onde appropriarsi dei soldi e dell'oro meridionale, massacrarono, deportarono, rapinarono, stuprarono, facendo digerire a forza, a furia di schioppettate e cannonate, la loro brutale conquista a un popolo tranquillo e pacifico che non voleva saperne, e che dunque si ritrovò qual vittima sacrificale di una tale mastodontica violenza, che cagionò nientepopodimeno un milione di vittime (poco più poco meno, fate voi....).
Ma non si pensi che io, in quest'articolo, intenda confutare una per una codeste balordaggini, perché l'ho fatto già in tanti altri miei articoli e continuerò a farlo, di volta in volta affrontando con la dovuta razionalità i punti ai quali i vari infangatori si aggrappano, anche perché ho la presunzione di credere che chi mi legge sia a un livello culturale e intellettuale ben diverso. No, io voglio richiamare ancora una volta l'attenzione e la vigilanza su questi oracoli dell'antiRisorgimento - in specie quelli aureolati dalla fama, ridenti sotto i riflettori -, quelli che dicono che sanno e hanno scoperto cose indicibili nascoste dai perfidi piemontesi, invitando a osservare la loro fisiognomica e, soprattutto, il preoccupante fenomeno di abbacinamento delle folle (una volta si chiamava abuso della credulità popolare e costituiva un reato) di cui sono causa volontaria e premeditata: un fenomeno che genera sgomento e soprattutto induce al pessimismo circa l'avvenire della nostra nazione. Un pessimismo giustificato, che spiega, tra l'altro, come mai in Italia, invece di un partito nazionalista-sovranista come in tutti gli altri paesi d'Europa, vi sia solo una montagna di chiacchiere inconcludenti e di personaggi che non sarebbero in grado di guidare una squadra di pallavolo, figuriamoci una nazione.
In questo quadro desolante, il paragone con coloro che fecero il Risorgimento e combatterono la Grande Guerra mette purtroppo in luce un esercito d'incapaci, d'incompetenti e d'indolenti, non sufficientemente controbilanciati da coloro che invece sanno fare il proprio lavoro e hanno voglia di fare, cioè gli italiani grazie ai quali la nazione va avanti. Ma per fare andare avanti una nazione non basta la materia, ci vuole anche lo spirito. Il giorno del ricordo - fissato dalla legge n. 92 del 30 marzo 2004, al 10 febbraio di ogni anno - dovrebbe essere una delle occasioni in cui viene fuori l'anima concorde di una nazione. Il giorno del ricordo dovrebbe essere, appunto, il giorno dello spirito, in cui ci si sofferma a pensare e si porge grato omaggio ai connazionali che hanno dato la vita per questa nazione o comunque hanno pagato a caro prezzo il proprio essere italiani. Il giorno del ricordo dovrebbe essere insomma un giorno dedicato alla Patria, assieme al 4 novembre, data della Vittoria nella Grande Guerra contro l'impero asburgico, che da molti anni ormai non si festeggia più e comunque è stata mascherata da una diversa espressione che nasconde il vero significato di quella solenne ricorrenza, e al 17 marzo, data della proclamazione del Regno d'Italia, che si è festeggiato - chissà perché - una sola volta. Cose da matti, verrebbe da dire, in una nazione normale. Ma l'Italia non è un paese normale: è un paese malato, abitato in una certa percentuale da gente che pesca nel torbido, che rema contro, che irride alla propria stessa identità, una sorta di canzonatori disfattisti, di maniaci della sconfitta, di sciacalli che si compiacciono delle disfatte e ci girano costantemente attorno, di individui obliqui che prediligono sempre qualche altro paese e popolo, o, peggio, rimpiangono la trista epoca pre-unitaria, o, peggio ancora, sono tarlati dal sordido proposito di dividere in qualche modo la nazione, non importa se a Trieste o in Alto Adige o in Sicilia o dovunque fosse. Questi seminatori di zizzania che allignano e prosperano nei vari sottoboschi, spuntano come i funghi ora qui ora là, e starci dietro è quasi impossibile, perché, pur accomunati da un medesimo sciagurato velleitarismo distruttivo, mescolato a pulsioni psicologiche fatte di rancore, invidia e ignoranza, prendono direzioni e assumono colorazioni diverse. E proprio il giorno del ricordo offre lo spunto per riflettere su questa realtà con cui dobbiamo fare i conti e alla quale bisogna tener testa, perché, nella debolezza e nel lassismo del governo che pensa ad altro, da essa sorge un grave pericolo: quello di ribaltare i fatti, di ammorzare il lume dei ricordi, non solo il ricordo degli Istriani, Fiumani e Dalmati, ma tutto l'incalcolabile patrimonio di ricordi che costituisce il bagaglio storico insostituibile dell'Italia. Esso non è stato tramandato nella giusta maniera, non è stato conservato con quella gelosia e quella cura che sarebbero state necessarie, non è stato protetto e difeso abbastanza, non è stato abbastanza studiato e spiegato, se oggi assistiamo a simili aggressioni. O forse l'Italia del dopoguerra, con il suo complesso di colpa antifascista, è la principale responsabile di questa grave lacuna. Proprio riguardo al giorno del ricordo e alle contestazioni a cui è fatto segno (il che lo accomuna al Risorgimento e alla Grande Guerra, del pari bersagli fissi dei contestatori di professione), le responsabilità di questa repubblica non sono piccole. Il colpevole silenzio steso sulle drammatiche vicende dei connazionali dell'Adriatico orientale di cui molti italiani ignoravano perfino l'esistenza, è stato troppo lungo e troppo pesante perché basti una commemorazione annuale a diradarlo. In altre parole il giorno del ricordo, di per sé giustissimo, non basta a colmare la grande lacuna, non basta a tener acceso il lume dei ricordi, non basta a compensare moralmente tante sofferenze. Inoltre, la storia di quelle regioni che a noi appaiono lontane e ormai perse irrimediabilmente, non è chiara nemmeno oggi, anzi risulta ulteriormente intricata e confusa da tesi contrapposte che si urtano tra loro, e, non di rado, invece di chiarire, complicano ancor più la questione, cosicché, accanto ai “negazionisti” e “riduzionisti”, si è affermata una posizione mediana ufficiale, sostenuta dal Governo, secondo cui, pur riconoscendo pieno valore storico al dramma degli Istriani, Fiumani e Dalmati, si tende a controbilanciare questo dramma con i gravi torti di cui l'Italia si sarebbe resa responsabile verso gli slavi: i quali gravi torti commessi dagli italiani, in particolare dai fascisti durante l'occupazione della Jugoslavia, uniti a quelli commessi dal Regno d'Italia quando, dopo la Vittoria del 1918, occupò territori abitati anche da gente slava, autorizzerebbero a dedurne una specie di “patta”, cioè una situazione di parità in cui i torti commessi da una parte e dall'altra, messi sul piatto della bilancia, infine si equivarrebbero. Da qui le iniziative conciliatrici dell'ex Presidente Napolitano, le celebrazioni di una ritrovata amicizia con sloveni e croati, la deposizione di corone da ambo le parti, l'istituzione di una commissione bilaterale di storici che, con animo sereno, ristabilisca la verità delle due parti in conflitto, la concessione delle doppie scritte nelle pressoché inesistenti provincie di Trieste e Gorizia che possano fare il paio con quelle di Slovenia e Croazia, al fine d'inaugurare finalmente una nuova era di collaborazione e di pace nel quadro di questa meravigliosa Europa.
Può darsi. Può darsi che sia giusto e che sia vero. Oppure no. Potrebbe trattarsi semplicemente di una soluzione di comodo, comoda soprattutto per la Slovenia e la Croazia odierne, le quali hanno ricevuto i maggiori vantaggi, anche in termini d'immagine, da questa facile parificazione delle colpe e pacificazione più apparente che reale. Le doppie scritte nelle esili provincie di Trieste e Gorizia costituiscono infatti un indubbio colpo messo a segno da una minoranza slovena d'importazione, agguerrita, tracotante e fagocitata dalle formazioni di sinistra che gli italiani allegramente continuano a mandare nelle amministrazioni locali, dando così la stura alle esaltate forme di esterofilìa che le contraddistinguono, di cui quella a favore degli slavi è una delle più eccitate ed eccitabili, smaniosi come sono, questi comunisti falliti, di prendere le parti dello straniero di turno, in tal caso dei poveri slavi perseguitati e vessati dal Fascismo e, perfino, dal Regno d'Italia uscito vincitore dalla Guerra nel 1918 e quindi nel suo pieno diritto di dar seguito a quella Vittoria annettendo i territori ex austriaci, i quali poi altro non erano che i territori appartenuti stabilmente alla Serenissima fin dal XV° secolo, ragion per cui potremmo dire che l'Italia si riprese semplicemente il maltolto, e anzi non lo riprese neanche tutto. E anche i territori che non appartenevano alla Serenissima come Trieste, Gorizia e Fiume, e perfino Ragusa di Dalmazia, avevano comunque conservato l'italianità, il che è la riprova che essa era forte e radicata indipendentemente dalla Serenissima e dal suo pur potente influsso: era presente a prescindere da Venezia, e dunque preesistente. Non solo, ma permeata di forti elementi di Romanità, i quali risultavano del tutto estranei e anzi invisi agli slavi immessi in terre che non erano loro e a cui non potevano sentirsi tradizionalmente legati dal legame con Roma che invece riguardava tutti i legittimi abitanti dell'Adriatico Orientale, passati poi sotto Bisanzio, la seconda Roma. Fra le innumerevoli aggressioni subite dagli italiani per mano slava, infatti, non di rado si annoverano vandalismi nei confronti dei reperti Romani, veri e propri segnacoli identitari dei legittimi abitanti di quelle terre, come accadde quando il prete sloveno don Urban Golmajer distrusse tutte le lapidi Romane degli scavi antichi di Rozzo (un paesino nel centro dell'Istria), destando l'indignazione di Theodor Mommsen, lo storico tedesco autore della famosa Storia di Roma in cinque volumi.
Fu pertanto durante il periodo della dominazione austriaca, iniziato nel 1797, a parte la breve parentesi francese, che gli slavi di cui si parla, cioè quelli reclamanti a gran voce il possesso delle terre italiane, furono immessi nei confini delle terre irredente, e il fatto che originariamente fossero giunti in quelle contrade a seguito delle ultime invasioni barbariche del VII° e VIII° secolo, non significa assolutamente nulla, perché altrimenti l'Italia non sarebbe più Italia e non esisterebbero più italiani, bensì solo Goti, Eruli, Unni, Longobardi, etc. Gli slavi giunsero sì in antica data in quelle contrade, ma non riuscirono a conquistarle affatto, tanto più che non possedevano neanche la decima parte della forza militare dei Goti e dei Franchi né la loro levatura e le loro ambizioni di diventare Romani o, meglio, di sostituirsi ai Romani. In ogni modo, si tratta di vicende sepolte nella notte dei tempi che non possono fare da piedistallo per alcuna rivendicazione in tempi moderni, anche perché non sono collegate tra loro con continuità. In altre parole, gli slavi reclamanti il possesso dell'Istria e della Dalmazia nel XIX° secolo non hanno niente a che vedere con gli slavi che giunsero dodici secoli prima, sennò tutto l'Adriatico orientale, a partire addirittura dalla Carniola, sarebbe stato da un bel pezzo compattamente slavo e il problema delle “terre irredente italiane” non si sarebbe mai posto, così come non si pose per le terre che, dal V° secolo in poi, furono effettivamente conquistate dai barbari che vi fondarono un loro stabile e duraturo Regno (come i Franchi nella Gallia, per esempio). Ci fu un regno di Croazia nel Basso Medio Evo che arrivò a lambire Zara, ma esso era così irrisorio, effimero e territorialmente esiguo che le cronache storiche relative alle lunghe e importanti guerre combattute da Venezia nei secoli, non lo citano neanche come comprimario, figuriamoci come protagonista, cosicché non è possibile attribuirgli a posteriori l'importanza che non aveva, praticamente pari a zero. Molte delle sue importanti guerre, Venezia le combatté invece contro l'Austria, che facilmente sottomise il Regno di Croazia già sottomesso all'Ungheria, ma giammai riuscì a sottomettere Venezia, con cui dovette scendere a patti e compromessi, non di rado umilianti, fissando confini e rispettive zone d'influenza che i Veneziani puntigliosamente fissavano con lunghe ed estenuanti trattative. Al contrario, gli slavi come Stato non costituivano nessun problema per la Serenissima (tantomeno un problema militare) semplicemente perché non c'erano, ed essa poté dedicarsi alla propria espansione in terraferma e sul mare senza che nessun “esercito slavo inesistente” venisse a contrastarla (l'inarrestabile espansione di Venezia fu fermata solo da una potente coalizione europea capeggiata dal Papa ai primi del '500), espansione che contemplava il possesso di tutto il confine nord-orientale dall'Isonzo fino a Cattaro, sottomettendovi le popolazioni, quali che fossero, slave o non slave.
A questo proposito, alcuni storici, per non parlare della gente comune che identifica Venezia con le commedie di Goldoni e le maschere del Carnevale, sembrano dimenticare che la leggendaria città lagunare non fu soltanto una grande potenza commerciale, ma anche una potenza militare di primaria grandezza che nel combattere le guerre non andava per il sottile e picchiava sodo quando si trattava di acquisire territori e sottomettere popolazioni che poi regolarmente integrava, alla maniera Romana. Non a caso gli slavi nati e cresciuti sotto Venezia divennero fedelissimi sudditi del Doge, divennero gli slavi-veneti che parlavano il veneto da mar, volevano morire per la Serenissima e sognavano il suo ritorno quando questa decadde sotto la spinta delle nuove idee portate dai francesi. Dunque, non potevano certo esser loro a reclamare, solo pochi anni dopo, l'unione dell'Istria e della Dalmazia a Zagabria, scacciandone gli italiani, ossia i Veneti stessi. Di conseguenza costituisce un mito della storiografia jugoslava la continuità della presenza slava in quei territori passati a Bisanzio dopo la caduta di Roma, territori nei quali subentrò la potenza di Venezia che li contese all'Austria, al Regno d'Ungheria, ai pirati slavi (i narentani prima, e gli uscocchi poi) che furono annientati, ai Saraceni e ai Turchi che furono respinti, non certo al Regno di Croazia, il quale non vi ebbe che una parte irrilevante. Al contrario, l'illustre funzione di guardiana, protettrice e benefattrice, fu l'aureola che circondò Venezia in tutte quelle terre adriatiche che richiesero spesso il suo aiuto e vissero felicemente per secoli sotto la sua egida. Nei testi scolastici jugoslavi, invece, Venezia viene presentata come l'occupante illegittimo delle terre adriatiche abitate continuativamente dagli slavi fin dal VII° secolo! Un occupante che portò in quelle terre gli italiani che non c'erano, inserendoli arbitrariamente tra gli slavi a far loro da padroni. Ebbene tutto ciò è completamente falso, ma il bello è che in molti ci credono, anche al di fuori della Jugoslavia e delle sue leggende, e allora dovrebbero spiegare dov'erano questi slavi che abitavano quelle terre fin dal VII° secolo, prima che ci arrivassero i Veneziani invasori, i quali rappresentavano il continuum con Bisanzio e non certo un punto di rottura con la Storia precedente, e comunque non trovarono nessun regno degli slavi, bensì invece trovarono gli abitanti autoctoni (mescolati alle etnìe più varie) i quali non si reputavano affatto slavi e tantomeno croati, e designavano se stessi semplicemente con riferimento alle rispettive città di appartenenza (Zara, Spalato, Sebenico, etc.), esattamente come avveniva nell'Italia Comunale. Perfino i Ragusei, che si mantennero indipendenti da Venezia (anche se sempre in contatto con essa), non si reputavano slavi, pur conoscendo la lingua dei vicini serbi. Le zone dalmate dell'interno, ben poco popolate, erano abitate dai morlacchi e dai cici, che non si reputavano affatto slavi, ma addirittura discendenti degli antichi Illiri. Non dico che non vi fosse neanche uno slavo, ma certo non in misura sufficiente da poter dire che quelle terre erano slave. Anche nel ripopolamento delle contrade svuotate dalla peste o da altre calamità, Venezia fece affluire etnìe miste (anche dall'Italia), e non solo slave, e non certo a casaccio: si trattava in genere di famiglie selezionate tra gente la più varia, che aveva voglia di lavorare, integrarsi, obbedire alla legge e seguire la santa religione, cattolica o ortodossa. Ciò avvenne per esempio a Parenzo, una cittadina costiera dell'Istria occidentale, ripopolata fra il '500 e il '600. Ma non risulta che Parenzo si sia mai proclamata slava. Anzi: addirittura adesso c'è il 12% di italiani.
A riprova che quelle terre furono italiane, esse vissero l'età Comunale e il Rinascimento, con intensissimi rapporti e scambi con la madrepatria. Vissero e condivisero poi il Risorgimento fin dai suoi albori, cioè dalla Carboneria e società segrete minori affini a questa. Dov'erano dunque i fantomatici slavi e croati che avrebbero abitato senza interruzione quei luoghi fin dai remoti tempi delle invasioni barbariche? Semplicemente non c'erano. D'altra parte la stessa architettura lo attesta senza ombra di dubbio: essa è un'architettura chiaramente italiana. E infatti col termine “croati”, usato pochissimo in tutto l'Adriatico orientale, s'intendevano i croati dell'interno, sottomessi all'Ungheria e poi all'Austria, i quali avevano una lingua, molto simile al serbo, che non veniva usata nella vita pubblica. Il primo discorso in croato davanti al Parlamento risale al 1843. Dunque non si capisce che ruolo i croati potessero avere in Istria, Fiume e Dalmazia. Il loro ruolo venne costruito artificiosamente nel XIX° secolo, sorgendo dal panslavismo e dalle proprie stesse mire fagocitate dall'Austria, a cui tornò di estremo giovamento suscitare la croatizzazione (e in misura minore la slovenizzazione) per togliere di mezzo gli ingombranti italiani da tutta la fascia territoriale che dall'Isonzo scendeva fino a Cattaro, estremo lembo meridionale della Dalmazia.
Dalla caduta della Serenissima (1797) alla proclamazione del Regno d'Italia (1861) trascorsero alcuni decenni che furono sufficienti all'Austria per causare all'odiata nazione italiana rinascente, che costituiva una minaccia al suo dominio, quei danni irreparabili che vanno sotto il nome di sostituzione etnica, cui qualcuno ha aggiunto il termine terrorismo di Stato, con riferimento alle aggressioni continue, violente e non violente (si può dire giornaliere), comprensive anche di brogli elettorali, falsificazioni di censimenti e cambio forzato dei nomi e dei cognomi, cui gli italiani del confine orientale furono sottoposti per spingerli ad andarsene o slavizzarsi. All'ombra della sua potenza politica e militare, l'Austria poté agire del tutto indisturbata, e toglierla definitivamente di mezzo è stata un'impresa titanica e l'atto più salutare e meritorio di tutto il Risorgimento italiano.
Come sappiamo, prima che l'Italia in lotta per la sua riunificazione potesse tornare a riaffacciarsi in quelle desiate contrade Romane, Bizantine e Veneziane, ci vollero guerre e insurrezioni (le 101 battaglie che hanno fatto l'Unità d'Italia di cui parla lo storico Andrea Frediani nel suo libro omonimo), fino al finale e più terribile confronto con l'impero asburgico: la guerra '15-'18. Fu grazie a quella Vittoria che il Regno d'Italia entrò nell'Adriatico orientale per riprendersi ciò che era suo e vendicare Venezia, punto di riferimento nevralgico di tutto il Risorgimento. Dopo decenni di persecuzioni, processi, cannoneggiamenti di città, arresti, interrogatori, torture, rapine, saccheggi, confische di beni, deportazioni, fughe ed espatri volontari e coatti di decine e decine di migliaia di italiani nei “felici” territori occupati dagli austriaci coadiuvati dai loro vassalli croati, sloveni e anche serbi, la Vittoria gloriosa del 4 novembre 1918 spalancò finalmente ai connazionali di Trieste, di Gorizia, dell'Istria, di Fiume e di Dalmazia le porte dell'agognata riunione alla madrepatria. Ma non era ancora finita. Altro sangue, altre sofferenze, altri soprusi e altre infamie si preparavano. Gli alleati stessi con cui l'Italia aveva combattuto la Grande Guerra, entrandovi in un momento in cui le sorti dell'Intesa erano tutt'altro che favorevoli, si misero contro di noi e presero le parti degli jugoslavi al fine di escluderci dall'Adriatico orientale e dai Balcani. Mille altre violenze, angherie, vessazioni si compirono, fino alla tragedia finale delle foibe e dell'esodo. E ancora continuano, perché ci sono voluti ben 60 anni di lotte (!) per aprire, nel 2012, un piccolo asilo italiano a Zara, e una truppaglia di esagitati tuttora nega, ridimensiona e irride alle foibe e all'esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati, chiamando in causa il solito Fascismo e addirittura il Regno d'Italia, accusati di aver compiuto una “bonifica etnica” a danno degli slavi abitanti nei territori annessi all'Italia dopo il 1918, con l'impedire loro l'uso della lingua e cambiar loro forzatamente i cognomi. A queste facili accuse continuamente proferite dagli slavofili di casa nostra e dai loro amici d'oltre confine, potremmo rispondere semplicemente col detto “chi la fa l'aspetti”, ma ancor meglio entrando nel merito di quei provvedimenti, il che nuocerebbe proprio agli accusatori, le cui urla contro l'imperialismo italiano-fascista non hanno scatenato quell'ambaradan che si proponevano. Infatti, la legge n. 114 del 28 marzo 1991 per la restituzione dei cognomi italianizzati dal fascismo ha destato tiepide reazioni da parte dei pretesi danneggiati, e dunque si è risolta in una bolla di sapone. Nè poteva essere altrimenti, dal momento che spesso si trattò di un'italianizzazione volontaria più che forzata, e in molti casi non si realizzò affatto, com'è stato più volte spiegato anche dal defunto professor Tomaz, esule istriano, animatore di tanti dibattiti e conferenze storiche sull'Istria e la Dalmazia. Il quale conservò tranquillamente il suo cognome “straniero”.
E concludiamo appellandoci perlomeno alla logica: cosa c'entra comunque il Fascismo con tutto ciò che abbiamo narrato fin qui? Dov'era il Fascismo su cui si riversano le colpe e le responsabilità delle violenze slave che per decenni impunemente si consumarono contro di noi decenni prima che il Fascismo nascesse? Esso è assunto disonestamente come alibi perché oggi torna comodo parificare, conciliare e pacificare le due parti in conflitto con “animo equo e sereno”, secondo i ben noti intendimenti dei nostri governanti attuali. Ma la verità, come abbiamo spiegato, è un'altra.
Non lasciamoci dunque fuorviare e intimidire da questi spaventapasseri che agitano il Fascismo come colpevole quando migliaia di croati e sloveni fuggirono anch'essi assieme agli esodati italiani e altrettanti cercarono di farlo ma non riuscirono perché furono sterminati prima dai titini. E pronunciamo i limpidi nomi italiani di Istria, Fiume e Dalmazia più spesso che possiamo. Impariamo i nomi italiani delle centinaia di paesi e città di quei luoghi così cari che devono vivere e rivivere per sempre nei nostri cuori, e ripetiamoli come in una preghiera, graziandoli di una fantastica resurrezione. Ciò ci consola e ci fa sognare, è di buon auspicio, e par quasi che faccia risorgere i cari fratelli dalle cupe voragini in cui è stata inghiottita la loro vita sacrificata alla Patria. Non lasciamo che i buchi neri della Storia la rapiscano, non lasciamo che nelle foibe sia inghiottito anche lo spirito oltre al corpo dei nostri sfortunati connazionali.
Il Risorgimento non finì con la presa di Roma, ma continuò ancora per molto tempo nelle terre irredente, nel cuore fedele e appassionato di quelle genti che per anni sperarono in uno sbarco di Garibaldi. Egli era sbarcato in Sicilia: perchè non poteva sbarcare anche in Istria e Dalmazia? Dai cupi antri delle foibe, perciò, e da mille altri luoghi di sofferenza ingiusta e inumana, esce il grido dei nostri morti che ci dicono che il Risorgimento continua ancora.

Maria Cipriano