I sentimenti della Vedova
di
Ferruccio Bravi
Come il Martire, la vedova Ernesta Bittanti anteponeva l’Italia alla passione
politica. Ricordo che,
una
decina d’anni prima della mia breve disputa
con la figlia Livia, mi aveva inviato poche righe per ringraziarmi di averla divertita con certi epigrammi
vignettati che avevo diffuso a Trento in occasione della prematura erezione
dello sconcio suppositorio ivi innalzato al ‘trentino prestato all’Italia’.
Aveva apprezzato la vignetta in cui Dante, “l’eterno esule”, scendeva
crucciato con una valigetta ventiquattrore dal piedistallo del suo
Monumento brontolando un’invettiva contro i trentini: «Se preferite a me il
democristiano / faccio fagotto
e me ne vo’
a Bolzano ».
In particolare
le
era
piaciuta la ‘sfumatura lirica’
d’una quartina su ‘el ròcol del pôr Cesar’1:
Quando imbruna, sul Doss Trento
scende un angelo dal cielo
e, pietoso, stende un velo
sopra l’altro monumento.
Nel breve scritto della Vedova traspariva
grande attaccamento alla memoria di Cesare e sublime amor di Patria. Dalla
voragine cartacea che lo ha inghiottito irrimediabilmente è emerso però un
testo di valore storico: il testo d’una lettera datata Laurana,
Capodanno 1921,
sei giorni
dopo
il
Natale di Sangue.
Ernesta era lì, ad una ventina di chilometri da Fiume, dove fra i legionari si
trovava il giovanissimo Gigino, il figlio che il Martire avrebbe voluto al suo fianco
«presso la
Vetta d’Italia » se il germanesimo prostrato avesse rialzato il capo.
Affranta per la tragedia della Città Olocausta, così scriveva fra
l’altro alla sua cara amica fiumana, Gigetta Gigante, sorella
del podestà Riccardo:
«…Io da qui ho assistito alla tragedia.
Lei che sa con quante lagrime io avessi in precedenza pianto su questi eventi –
non so
se più tragici in sé o deprecabili nelle loro
remote cause – immagina come l’angoscia mia fosse straziante. Né il mio cuore
di donna sia meno straziato del mio cuore di cittadina, che tra quelle mura ove
si abbatteva il cannone e crepitavano le mitragliatrici c’era mio figlio.
L’angoscia di Fiume, l’angoscia
d’Italia l’ho sentita tutta nel mio cuore. Ma quanto più si soffre,
più s’ama. E mi sembra di amare Fiume di sentire il palpito dell’Adriatico assai più di prima.
Spero e
credo che
anche in loro, Fiumani, il dolore per la grave offesa offuscherà la visione
dell’Italia, realtà superiore e sopravvivente ad ogni governo, non
troncherà l’indomito amore
con cui essi l’hanno invocata,
non diminuirà la forza
di resistenza ora più che mai necessaria.
All’indomani della vittoria di Vittorio
Veneto fu l’ebrezza, fu l’improvviso mancare della necessità dello sforzo,
fu l’affacciarsi di enormi problemi di ricostruzione,
che fecero immemori i più dell’esistenza di un antico nemico interno e
disaccorti delle sue insidie. Da quel giorno si iniziò la lotta che ha
culminato nella tragedia di Fiume. Ebbene io mi augurò che il dolore recente
faccia più saggi della gioia di allora. Che, vincendo i tumultuosi
sentimen-ti dell’ora, l’animo dei fiumani riabbia quella calma coraggiosa
che è essenzialmente necessaria alla calma visione delle necessità presenti e
future, onde non vada totalmente smarrito il frutto di due anni di splendente
eroismo. Con essa soltanto e con tenace paziente resistenza, l’animo dei
fiumani, così temprato dalla lotta, saprà vincere le innumerevoli insidie, che
certo in quest’ora si avvolgeranno intorno a loro… » 2.
Diagnosi ineccepibile del male, in questa
lucida esternazione; ma nessuna terapia vi è esplicitamente accennata. Qualche
anno dopo quel buio 1921 un compagno di Battisti, da cui certi socialisti non
hanno appreso nulla, diraderà le nubi addensate su quella «realtà superiore e sopravvivente ad ogni
governo »
che si chiama
ITALIA, fissandone saldamente
i limiti al «Brennero e al
Quarnaro »
come era nei voti del Martire
trentino.
1 Definizione,
più affettuosa che irriverente, affibbiata dai trentini al Mausoleo di Cesare
Battisti che per la sua forma richiama l’immagine del roccolo da uccellagione.
2 da
«la
Voce di Fiume », marzo 1991, n° 3, pg.
5.
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