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sabato 17 settembre 2016

"Se non ci conoscete..." Intervista a Giacinto Reale

PREMESSA

A distanza di quasi un secolo, perché tornare a parlare di squadrismo? Che senso ha interrogarsi su fatti e personaggi di un'epoca così “lontana”? Quasi nessun altro movimento come il Fascismo continua a far discutere e scatenare dibattiti. Tanto più il fenomeno squadrista, che del Fascismo rappresentò al meglio la sua anima movimentista – secondo una famosa definizione defeliciana, oggi discutibile, ma pur sempre significativa – e che ancora spaventa. Spesso e volentieri lo si sbandiera come nefasto spauracchio ogni qual volta s'infiammano oltre il dovuto i toni polemici o scaturisce un'isolata scintilla di violenza nel piatto scenario della politica odierna. Forse, come recitava la canzone di una storica formazione di rock identitario,


perché lo squadrista rappresenta il simbolo
Di tutto, dico bene tutto, quello che loro non potranno mai essere
Di tutto ciò che non potranno mai avere!
L'arroganza pura e semplice non erudita e falsamente coraggiosa
La comprensione di se stessi e l'accettazione della propria condizione
Il tutto misto alla volontà di inserirsi in modo organico, disinteressato
L'accettazione di un sistema gerarchico e naturale, ma non definitivo ne totale!
Le diverse gerarchie, diverse a seconda delle capacità, il coraggio fisico, fisico
Il coraggio di cercare di trovare lo scontro, il gusto dei pochi contro i tanti!”


E proprio di questo “gusto dei pochi contro i tanti” abbiamo parlato con Giacinto Reale, autore di un libro - “Se non ci conoscete. Racconti squadristi” edito da AGA Editrice in questo 2016 – composto da cinque racconti, che dalle campagne emiliane, attraverso piazza San Sepolcro e Fiume, ci conducono fino ai drammatici giorni della R.S.I. Con Giacinto, infaticabile ricercatore storico del periodo squadrista e repubblicano, abbiamo cercato di ricostruire, in modo articolato e diffuso, quell'atmosfera e quella tensione così ben descritta da quei versi poc'anzi citati. In quest'epoca di lamentele e sproloqui da social network, in cui molti giovani si perdono tra le maglie del virtuale, riscoprire il coraggio e la fiamma ideale che animava i giovani squadristi, i legionari fiumani o i ragazzi di Salò, può aiutarci non solo a riprendere contatto con la realtà, ma a ricordare come, in certi frangenti storici, minoranze determinate e ben preparate possano incidere sul corso della storia. Non è mai detta l'ultima parola. D'altronde anche una piccola scintilla può scatenare un incendio. Nostro intento non è fare nostalgismo spicciolo, ma ridestare la memoria, ultimo baluardo a difesa della nostra Nazione, ispirandoci a coloro che lottarono, patirono e morirono per ciò in cui credevano. Ed erano Italiani tali e quali a noi.
Francesco Preziuso


INTERVISTA A GIACINTO REALE





1) Il suo primo racconto è ambientato nelle campagne emiliane. Il Fascismo nasce sicuramente cittadino, ma si fa grande e cresce nel mondo rurale. Dove possiamo individuare l'origine di questo suo rapido espandersi fra i ceti contadini?


Ci sono vari fattori che vanno considerati: la stanchezza di molti settori del mondo contadino (non solo piccoli proprietari, ma anche semplici rurali non “leghisti”) dopo un biennio di violenze sovversive; la delusione per la sopravvenuta consapevolezza, da un certo punto in poi, dell’incapacità socialista a realizzare la parola d’ordine circolata nelle trincee “La terra a chi la lavora”; la capacità dei primi sindacalisti fascisti (tutti di provata esperienza) e l’efficacia delle loro iniziative (Farinacci realizzò nel Cremonese un “lodo” giudicato più avanzato – a favore dei contadini - delle richieste “rosse”, mentre nel Senese e altrove non mancarono occupazioni “fasciste” di terre lasciate incolte da proprietari irresponsabili); l’esistenza – normalmente sottovalutata - tra le masse delle campagne che avevano costituito il nerbo delle “nobili fanterie” in guerra, anche di un legittimo sentimento di orgoglio, per quanto fatto al fronte, contro l’anti-reducismo socialista (nel Mezzogiorno molte delle prime occupazioni di terre furono fatte da ex combattenti guidati dai loro Ufficiali e dietro il tricolore).
Sono questi: “I fascisti di campagna, solidi, membruti e tarchiati, bronzei in faccia e adusti, dai pugni poderosi, bitorzoluti e callosi, in cima a certe braccia nerborute come piazze d’armi.....nelle loro camicie di cotonina grezza e rozza, con certe morti secche da metter davvero paura” così come con affetto li ricorderà Gallian.


2) Vogliamo ricordare alcuni dei principali attori di questo “squadrismo rurale”?


Protagonisti dello squadrismo “di campagna” furono, come accennato, ex sindacalisti delle Camere del Lavoro anarco-socialiste, con l’appoggio dell’elemento “politico” del fascismo: Grandi, Balbo, Chiurco, Farinacci in particolare. Con essi, però, un gran numero di lavoratori non destinati a passare alla storia: non a caso il primo sindacato fascista nacque il 28 febbraio del ’21 a S Bartolomeo in Bosco ad opera di un contadino, Alfredo Giovanni Volta, del quale poco sappiamo, se non che, con i suoi familiari era stato “boicottato per quattro generazioni di seguito”.



I Selvaggi di Colle Val d'Elsa, tipico esempio di "squadrismo rurale"




3) Con il secondo racconto facciamo un passo indietro, precisamente al 23 marzo del 1919, data di fondazione del primo Fascio di Combattimento. Il movimento nasce per mano di una minoranza composita di reduci, arditi, sindacalisti-rivoluzionari. Lo sbilanciamento numerico rispetto all'avversario socialista era più che evidente. Eppure le vittorie sul campo si susseguono a ritmo vertiginoso. Dove stava la superiorità degli squadristi?


Il motivo del successo fascista in “pochi contro molti” sul terreno dell’azione di piazza va ricercato innanzitutto nella diversa caratura dei protagonisti: i primi squadristi erano, infatti, in gran parte ex Arditi o valorosi combattenti (si parlò di “Partito delle medaglie d’oro”), con i quali entrarono in gara di emulazione i giovanissimi, che spesso la guerra non avevano fatto.
Né va sottovalutato lo spirito che li animava, con punte di “misticismo eroico”, come fu detto, sconosciuto all’altra parte, più volgarmente materialista. Si aggiunga l’adozione di tecniche di azione (velocità, sorpresa, spostamenti rapidi, capacità di realizzare grossi concentramenti ove necessario) nuove nel campo della lotta politica, ma che anch’esse rappresentavano un retaggio della guerra “specialissima” condotta dai Reparti d’Assalto.


4) Col terzo racconto veniamo catapultati nell'impresa di Fiume. Impresa che suscitò entusiasmo nella base squadrista, di contro all'atteggiamento più tiepido ed attendista di Mussolini e dei quadri dirigenti del giovane movimento. Questa discrepanza inficiò forse il contributo del fascismo all'impresa fiumana?


In realtà, Mussolini, che era politico di finissimo intuito ed intelligenza, aveva capito che, aldilà del pur importante significato simbolico, l’esperienza fiumana non avrebbe potuto, in quel momento, portare a frutti concreti. Non credo, però che il suo appoggio sia stato “tiepido”: durante l’occupazione della città promosse raccolte di fondi, partenza di uomini, manifestazioni di sostegno e quant’altro: a Natale del ’20 fu proprio il suo realismo politico a fargli capire che bisognava accontentarsi di quanto ottenuto a Rapallo e rimandare al dopo (come infatti fece) il successivo passo dell’annessione.





5) Da Fiume si passa poi alla R.S.I., capo e coda del fascismo. Come mai non ha ambientato uno dei suoi racconti negli anni del regime vincente? Per una sorta di “romanticismo letterario” in cui gli scontri impari del principio e la lotta disperata di fronte alla certezza della sconfitta donavano miglior materiale di scrittura? Oppure perché ritiene che con l'avvento del fascismo al potere lo spirito squadrista andò lentamente spegnendosi?


Direi per ambedue i motivi: è indubbio che l’esperienza della vigilia e quella dell’epilogo –pur diverse tra loro- sono più funzionali alla scrittura di un racconto, per quel tanto di “avventuroso” che contengono. La differenza sostanziale è che la prima si svolse all’insegna dell’ottimismo e della speranza di vittoria, distinguendosi per una violenza che spesso sconfinava nella burla (“quasi goliardica” ha detto qualcuno), mentre all’epoca della RSI dominò un senso di triste tramonto, perché nessuno si illudeva veramente su un capovolgimento delle sorti della guerra, e la violenza dovette spesso adeguarsi alle forme estreme imposte da un nemico crudele e spietato.


6) Attori delle origini furono i figli della Grande Guerra; quelli della R.S.I i giovani cresciuti sotto l'egida del fascismo. Potrebbe individuare somiglianze e differenze tra i due protagonisti?


In effetti, sono più le somiglianze che le differenze: i primi erano cresciuti in un clima fatto di ricordi risorgimentali e con l’aspirazione di completare l’opera di Mazzini e Garibaldi; i secondi, educati all’idea di una ritrovata grandezza dell’Italia e di una nuova razza di Italiani, ritennero di correre al combattimento per dimostrare quanto fondate fossero le aspirazioni fasciste (nei fatti, però, piegate dalla dura legge dell’ “oro contro il sangue”) e quanto valesse quel nuovo tipo di Italiano, fedele alla parola data all’Alleato e pronto a morire per la sua idea.


7) I suoi racconti si svolgono tutti nel nord Italia. Ma c'è stato, seppure in minor misura, anche uno squadrismo meridionale. Viste le sue origini pugliesi, può raccontarci qualcosa delle camice nere nel sud Italia?


Certamente. Vi fu uno squadrismo meridionale, i cui esponenti di spicco furono Padovani in Campania e Caradonna in Puglia (senza dimenticare Starace, che era leccese, e, se pur fuori zona, fu uno dei protagonisti di quella stagione). Non mancarono gli episodi cruenti (nel Foggiano principalmente) e le prove di forza (l’attacco alla Camera del Lavoro di Bari), contro un avversario che era guidato da uomini del calibro di Di Vittorio e Di Vagno. Voglio ricordare, infine, che in Sicilia, un giovane squadrista, Mariano De Caro, il quale si era opposto alla mafia di Misilmeri, venne ucciso a colpi di lupara, sì che possiamo definirlo la prima vittima politica di questo fenomeno delinquenziale.

8) Se immaginiamo il fascismo come un cerchio in cui il punto di partenza – squadrismo – e la fine – volontarismo repubblichino – vengono a coincidere, emerge l'immagine di un percorso concluso. Lei che ha vissuto in prima linea gli anni '60, ha percepito una continuità ideale tra il vecchio e il nuovo o c'è stata la percezione di una frattura?


La mia passione per quel momento della storia del fascismo che fu lo squadrismo nasce, in effetti, dalla convinzione che atmosfere e comportamenti della vigilia si riproposero –scendendo di livello, evidentemente- nel periodo che va dalla vigilia del ’68 alla metà degli anni settanta, che ho vissuto con tanti miei coetanei: l’orgoglio di essere pochi contro molti, isolati a scuola e tra gli amici (e, spesso, anche in famiglia), la nascita di una “controsocietà” fatta di vita in comune spesso h24 e di vincoli camerateschi che non di rado ancora perdurano, ad oltre 50 anni di distanza.
Tutto cominciò, tanti anni fa, con la lettura dell’Introduzione di Pavolini al libro di Frullini “Squadrismo fiorentino”: “Certi giorni di marciapiede e di attesa, di gita e di rissa, i quali, nonostante il loro aspetto secondario e svagato furono tra quelli che più hanno contato nella nostra vita, più a fondo ci si sono impressi dentro”. Ecco, a me, 50 anni dopo, era capitato lo stesso


9) Cosa pensa e spera che possa donare il suo prezioso lavoro di rivisitazione delle origini del fascismo alle future generazioni?


Spero che la lettura dei racconti, nei quali, sia pure con una narrazione di fantasia, ho curato nei minimi dettagli l’aderenza alla realtà storica dei tempi, incuriosisca i lettori fino ad avviare un percorso di ricerca che consenta lo svelamento delle tante bugie che su quel periodo storico (fondamentale, perché non solo –come scrisse De Felice- “il vero fascismo è lo squadrismo”, ma perché senza di esso non ci sarebbe stato tutto il resto) si continuano a dire.
Per citarne solo una: non è vero che l’azione squadrista provocò, per la sua efferatezza e crudeltà (cui avrebbe corrisposto la inoffensiva mitezza degli avversari), un numero enorme di vittime. Per quanto riguarda i sovversivi, se, in assenza di dati statistici ufficiali, prendiamo per buoni quelli verificati da Salvemini, possiamo parlare di 428 morti, mentre, quelli di parte fascista furono stimati, alla fine del 1923, in una relazione delle Autorità di PS al Governo, in 433.
Quindi, qualcuno di più in questa macabra contabilità; il dato e ancora più rilevante se si considerano i numeri “di partenza” (4.000 voti fascisti a Milano contro 1.835.000 socialisti in tutta Italia), Credo, quindi, non sia azzardato affermare che il maggiore tributo di sangue fu pagato, allora - come nei “totali” riferiti alla RSI -, dai mussoliniani.


10) Un'ultima domanda, che è poi una nostra curiosità. Sarebbe possibile, secondo lei, una trasposizione cinematografica dei suoi racconti? Pensa che un giorno sarà fattibile un esperimento del genere?


Mi pare che i racconti si prestino, per la loro stessa struttura e “ritmo” ad una trasposizione cinematografica... che, però non avranno. Le cronache ci parlano delle fortissime difficoltà incontrate da registi che provano a fare film sulla storia delle foibe o su aspetti controversi della storia resistenziale. Gli alti costi e le necessarie competenze tecniche rendono per ora questo settore impermeabile ad ogni tentativo di ricerca della verità, più dell’editoria, dove, invece, le iniziative “non conformi” sono molte, e spesso di ottimo spessore.







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