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giovedì 28 aprile 2016

ECCE HOMO - Ferruccio Bravi

In occasione del Natale di Roma, abbiamo commemorato quella solenne data augurandoci che fosse di nuovo fonte d'ispirazione per una ritrovata Concordia Nazionale sotto il segno unificatore dell'Urbe Eterna. Cosa che non potrà mai essere il 25 aprile, data che individua altresì la profonda spaccatura interna creatasi con la guerra e, una volta definita la sconfitta, la progressiva perdita di sovranità dell'Italia. Perché non dobbiamo dimenticarci, mai, di averla persa la guerra. Ed è proprio da questa mistificazione della sconfitta che sono nati i peggiori mostri della nostra più recente storia.
Episodio tragico e orribile seguente al 25 aprile, è senz'ombra di dubbio la morte di Mussolini. S'illudono coloro che vedono in quell'esecuzione la fine dei massacri, l'ultimo necessario sacrificio che avrebbe placato la sete di vendetta. La fine di Mussolini non fu che uno della lunga serie di omicidi e altrettanto efferati crimini protratti dalle bande partigiane comuniste fino al 1948 inoltrato. Il più eclatante e famoso certo, ma non l'ultimo. E come in tutto il resoconto che fin qui c'è stato proposto da certi storici riguardo la Resistenza, anche intorno alla morte di Mussolini non mancano contraddizioni e lacune. Con uno scritto inedito, ma redatto già alcuni anni orsono, il nostro fondatore Ferruccio Bravi ha cercato di far luce sulla cortina di nebbia formatasi intorno a quei concitati giorni, svelandone incongruenze e manipolazioni. Lo presentiamo qui oggi con l'obbiettivo di ridare la giusta dignità ad un uomo su cui in tanti hanno cercato di scaricare le proprie colpe per ripulirsi la coscienza. Ma il fango gettato in settant'anni, si sta inesorabilmente seccando e mano a mano che si sgretola lascia trasparire la verità, quella verità che prima o poi trova sempre la strada per affermarsi. È giunta l'ora che gli Italiani facciano i conti con una realtà ben diversa da quella che ci hanno presentato e si sveglino dal lungo torpore che li ha avviluppati. In questo 28 aprile 2016, il nostro è un piccolo squillo di tromba che si unisce al coro di quanti ancora credono nell'Italia e ritengono necessario guardare al passato con occhi scevri da pregiudizi, perché solo così potremo ridestare le coscienze e sperare che il nostro futuro sia diverso da quello che si sta amaramente prospettando all'orizzonte.


Sandro Righini




Ecce homo


estratto da:
Le Piaghe d’Italia, bricciche di cronaca (1987 -2016)
Inedito di Ferruccio Bravi


I «CROCIFISSO DUE VOLTE

«Un uomo, no, non si era mai veduto
nei secoli, due volte crocifisso.
…E lui, vinto, sereni
e miti sguardi, non sdegnosi e inquieti
presso a morte volgeva…».
Ezra Pound

oggi è una mesta ricorrenza per l’Italia, precipitata da cinquant’anni in un abisso da dove non c’è modo di risalire. Ogni italiano che dalla disfatta del ’45 non abbia ricavato miserabile profitto maledice quel giorno. Anche a non provare nostalgia di tutto ciò che allora allietava la nostra giovinezza, anche ad essere spietati nella condanna del Capro Espiatorio di errori non tutti suoi e forse inevitabili, questo è un giorno di lutto per la Patria comune.
Per rendersene conto – e soprattutto a disinganno della gioventù disinformata – può bastare una riflessione obiettiva sul tramonto del diffamato Ventennio. Il 25 luglio aveva rivelato i limiti e le tare del primo Fascismo che dopo un avvento atipico ebbe un consenso di popolo unico nella nostra storia. Un consenso motivato non soltanto dal buon governo, da grandiose opere pubbliche e opere assistenziali sane ed efficienti, ma anche dall’ignavia della massa che finché tutto va bene trova giusto e comodo rinunciare all'esercizio di un ruolo politico e alla cosiddetta (illusoria) par-tecipazione. Come in ogni sistema in ascesa, gli opportunisti avevano invaso in breve ampi spazi dell’area di Regime, soverchiando ed emarginando i fedelissimi che approvavano acriticamente quanto diceva e faceva «il Duce che ha sempre ragion1.
L'ingenuità e l'inesperienza impedivano a questi fideisti di giudicare obiettivamente la situazione e opporsi ai maneggi degli infidi che spadroneggiavano, Duce tollerante, ai vertici di governo e di partito: vani fanatici che si fecero parte diligente nello sconsiderato intervento del 1940, ma quando la guerra volse al peggio rovesciarono Mussolini e si arrogarono il diritto di decidere sul futuro dell'Italia.
Fra costoro che per eccesso di zelo determinarono la crisi che ad un tempo travolse Fascismo e Italia emergono il ministro degli esteri Ciano il quale – malgrado riserve e remore del suocero Mussolini – aveva firmato il Patto d'Acciaio con Hitler, Grandi che manteneva stretti i vincoli fra Palazzo Venezia e Quirinale, Bottai mistico integralista che aveva imposto l'insegnamento della Dottrina del Fascismo nelle scuole. Questi ed altri congiurati di mediocre livello – per quanto ben al disopra della classe politica antifascista per intelletto e capacità – avevano sbagliato tutto.
Se lo scopo del colpo di stato del 25 luglio era quello di predisporre l'uscita dell'Italia dal conflitto col minor danno possibile, fu madornale errore l'aver estromesso Mussolini, l'unico qualificato a chiedere e ottenere da Hitler la libertà d'azione necessaria per trattare una pace separata, l'unico nostro rappresentante di statura internazionale che avrebbe potuto condurre trattative con gli Alleati. Nella circostanza i congiurati fascisti furono comunque così malaccorti da farsi spiazzare da un mediocre generale e da un monarca di statura esigua – non solo fisica, ma soprattutto morale – che a loro volta gestirono nel modo peggiore l'uscita dell'Italia dalla guerra.
Al 25 luglio seguì l’8 settembre e a questa vergognosa data la frattura materiale e morale dell’Italia alla mercé di nemici vecchi e nuovi. Tralasciando la breve stagione della Repubblica Sociale Italiana e del Regno del Sud governato da Badoglio per mandato dei liberatori, si arriva al sacro macello delle radiose giornate” partigiane, che hanno diviso in due l’Italia, e allo scempio di Piazzale Loreto.
Dice il Pound: Mai si era veduto nei secoli un Uomo due volte crocifisso”. Due volte sole? Mi pare che da cinquant’anni in qua il Colpevole sia crocifisso tutti i giorni, come il Cristo da certi cristiani (i quali, tuttavia, del loro Cristo dicono bene, perché perdona tutto e tutti, perfino le loro malefatte e loro stessi che non la perdonano a nessuno).
Di Mussolini ogni atto scompare sotto valanghe di menzogne. I fascisti reagiscono con l’affermare che è retaggio regale di chi è onesto e compie azioni eccellenti, essere vittima di calunnia infame. Diciamo pure, generalizzando, che il linciaggio morale non risparmia nessuno, a cominciare dai migliori.
Vedi Garibaldi. La calunnia guelfa lo ha sommerso in una favolistica infame QUANTO quella anti-mussoliniana. A sentire i clericali l’Eroe dei Due Mondi, che pure non disdegnava l’amicizia di onesti frati, «voleva appiccare l’ultimo re con le budella dell’ultimo pret. Similmente il giovane Mussolini avrebbe lasciato il segno nel mio Trentino non solo con le puntate de L’amante del Cardinale – romanzo che narra i documentati sollazzi di un illustre principe vescovo tridentino – ma con plateali attacchi alla religione cattolica e al clero che fanno ancora fremere i precordi dei miei timorati compaesani 2.
La favolistica anti-garibaldina trova riscontri in quella anti-mussoliniana anche nella pretesa fuga dell’eroe nizzardo da Milano. Il clero propalò la diceria dun tesoro che egli, lasciando Roma nel ’49, aveva portato con sé e nascosto non lontano dalla fattoria alle Mandriole dove si era rifugiato con Anita moribonda 3. La fandonia del Tesoro del Duce non è altrettanto semplice e lineare, è anzi molteplice e variegata, come del resto le cangianti versioni della sua fuga, tali che, raccolte in volume, ne risulterebbe un matto-ne più corposo e indigesto di un’annata di atti parlamentari 4. Inversamente proporzionata alla mole è la smentita, asciutta e concisa. Se è vero – come è manifesto alla luce del sole – che Mussolini disprezzò sempre il danaro è assurdo parlare di Tesoro del Duce; se invece per oziosa ipotesi fosse esistito, il tesoro avrebbe avuto ugual sorte del Tesoro di Dongo. La verità riposa in fondo a un mare di bugie ed è nota solo a certi guerriglieri rossi ricchi e quartati.
Quanto gli antifascisti da allora in poi hanno riferito sulla fine di Mussolini sprofonda nella contraddizione e nell’assurdo.
Il castello di falsità ha cominciato a sgretolarsi già nel '55 quando furono pubblicate le memorie di un agente dei servizi segreti germanici addetto alla persona del Duce 5.
L’agente avrebbe assolto il delicato compito – non si sa bene se di proteggerlo o piuttosto di spiarne i movimenti, passo per passo e ora per ora – con teutonica meticolosità dall'autunno '43 al momento della cattura. Nelle sue memorie riferisce che, accingendosi il comando della colonna che risaliva la Valtellina a consegnare i fascisti della colonna stessa ai partigiani, Mussolini respinse recisamente ogni sotterfugio suggerito dal suo protettore: «Resterò qui sull'autoblinda fino all'ultimo. Non mi arrenderò mai ai partigiani. Sarebbe una soluzione indegna di me. Mi vergognerei sempre di dire che sono sfuggito ai partigiani travestendomi da tedesco. Preferisco combattere». Parole testuali, inequivocabili, che già da sole rivelano un clima ben diverso da quello mefitico artefatto dai logografi marxisti, a cominciare proprio dai molteplici assurdi travestimenti 6.
Fra le versioni non infamanti, più o meno coerenti ma lacunose, l’unica per ora interamente accettabile è quella ricostruita al vaglio degli elementi attendibili da Luigi Imperatore nel modo che segue.
Mussolini lasciando Milano per la Valtellina, sciolse i suoi dal giuramento. La "bella morte" sarebbe stata scelta per libera decisione individuale.
Prese la via di Como non per riparare in Svizzera: Como era prescelta come pre-campo e d’altronde la strada di Lecco stava per essere tagliata dalle unità nemiche avanzanti da sud-est. La colonna italiana era inserita in quella tedesca in ritirata. Mussolini «fu esplicitamente arrestato dai tedeschi alle ore 15 circa del 27 aprile 1945 fra Musso e Dongo per essere consegnato ai comandi partigiani»: un tradimento perpetrato da Wolff in combutta con Himmler per i loro loschi fini 7.
Tramite i partigiani, Mussolini doveva essere consegnato agli "Alleati" quale quale merce di scambio. «Il Duce era ancora una grossa carta da giocare nella ribollente situazione italiana ed europea ed è logico che gli "Alleati" volessero catturarlo prima che altri potessero strumentalizzarl. 8
Il Reichsführer delle SS Wolff e Himmler cooperarono alla cattura: a Morbegno emissari tedeschi, "alleati" e partigiani avrebbero concertato la consegna a Dongo, di comune accordo.
Tutti erano interessati all'eliminazione di Mussolini: un regolare processo contro un imputato in condizione di ritorcere le accuse contro i suoi accusatori avrebbe avuto effetti clamorosi; quanti in Italia e fuori avevano approvata e fiancheggiata fino al 25 luglio del '43, o almeno fino al 10 giugno del '40, la politica di Mussolini avrebbero perduto la faccia.
Primo fra i tanti: Churchill 9. «I comunisti italiani vollero precedere tutti nell'uccidere Mussolini, temendo più degli altri l'effetto d'una sua sopravvivenza. Essi furono in questo modo solo il crudele strument dei moltissimi che a loro discarico volevano eliminarlo; anche gli americani che apparentemente non avevano interesse. Si afferma anzi che volessero salvare il Duce e sottoporlo ad un processo che avesse almeno una parvenza di legalità, ma l'affermazione è puramente gratuita: conosciamo bene i ‘liberatori' dalla forca facile (da Norimberga all’assassinio di Osama Bin La-den) i quali finché possono scaricano sui luridi complici stranieri il compito di assassinare gli avversari. (i quindici partigiani che straziarono Mussolini, Claretta 10 e altri diciassette in tutto indossavano l’uniforme americana con ottimo equipaggiamento. 11 I sinistri personaggi in maschera entrati nella storia patria col grimaldello comunista, altro non furono che vili esecutori materiali di un sottile cinico disegno, tipicamente Made in Usa: uccidendo Mussolini i comunisti si assumevano la responsabilità del delitto e gli yankees (già in clima di guerra fredda) potevano «speculare sull'anti-comunismo dei fascisti italiani che, allora, erano accreditati dun grande peso, anche numeric.
Pertini, Longo e altri scellerati non furono i veri mandanti del crimine ma, da squallidi e ignari fantocci manovrati dall'occupante, ne trassero occasione per soddisfare la loro brama di protagonismo e per accanirsi vigliaccamente su un avversario inerme 12.
In questa ricostruzione plausibile per dati non controversi correttamente utilizzati più d’un'illazione colma i vuoti. Essa non è ancora la verità, ma alla verità molto si avvicina. Per intanto è l'unica accettabile, sia pure con molte riserve; ma dobbiamo accontentarci, perché la manipolazione e la distruzione delle prove precludono ogni certezza assoluta su ciò che accadde realmente dalla mattina del 27 aprile all'alba livida e sanguigna del giorno dopo 13.

1. L'epiclesi Duce fu coniata dal socialista Olindo Vernotti dieci anni prima della marcia su Roma.

2. È Sacra Scrittura, per i fedelini della mia valle, la sfida del compagno Benito al Padreterno ad ogni apertura di comizio: da truculento tribuno socialista, Mussolini concedeva all’Onnipotente dieci minuti per fulminarlo con un colpo apoplettico. Scaduto il tempo – narrano i santocchi – quel sacrilego estraeva dal panciotto el pataclón (il cipollone alla catena) e fra le risa sguaiate della piazza annunciava: «I dieci minuti son passati, il Padreterno non s’è fatto vivo, segno è che non esiste. E adesso parliamo di cose serie». E riprendeva a tuonare contro i capitalisti e la Curia che era dalla parte degli sfruttatori e si arricchiva alle spalle dei poveri contadini.
O quantum mutatus ab illo, il personaggio, una ventina d’anni dopo nel concetto della Chiesa! Definito dal Pontefice Uomo della Provvidenza, benedetto dal clero che esaltava ogni sua impresa di guerra come una crociata, lapidi nelle chiese che non vi dico. Cito appena l’epigrafe apposta nel Duomo di Milano dal fascistissimo cardinale Schuster: «Gesù Re dei Popoli, dona lunghi anni all’Italia e al Duce…». La preghiera del beatificando presule non è stata esaudita da un Padreterno che nella circostanza, tardivo ma inesorabile come lo Jahvè giudaico, parve vendicarsi dell’antica offesa. L’inopportuna lapide è stata rimossa dallo stesso Schuster che dopo l’assassinio di Mussolini l’ha sostituita con un'altra in cui si inneggia alla «liberazione dai tiranni in fug. I fascisti restati cattolici si consolano comunque, di questa e d’altre maramalderie clericali, con la conversione del loro Duce, germogliata in trincea dopo Caporetto e maturata negli ultimi mesi della RSI secondo la sospetta testimonianza di Padre Eusebio. In argomento: v. il capitolo seguente.
3. Tanto fu radicata la calunnia, che fin verso la fine del secolo i contadini delle paludi di Comacchio continuarono a cercare il «tesoro di Garibald. Fra le tante, si raccontava pure che Garibaldi nel Sud America rubava cavalli e per punizione gli mozzarono le orecchie; e da allora, si asseriva, portò i capelli lunghi per nascondere l'umiliante mutilazione.

4. “I giorni dell'odio” di autore obiettivo e documentato che ricostruisce gli ultimi tre giorni di vita del Dittatore, riferisce la dichiarazione d’un brigadiere dei Carabinieri secondo il quale nel "bottino di Mussolini" «c'era qualcosa come undici miliardi di lire di allora» e «diversi sacchetti pieni di sterline d'oro» veduti da lui stesso. Si vociferava anche di un commissario di P. S. sparito nel nulla quando era sulle tracce del Tesoro del Duce e del Tesoro di Dongo. Fra i quotidiani d’epoca che si scapricciavano in argomento la sparò più grossa di tutti "la Voce" del 1° maggio ’45: «Al momento della cattura Mussolini indossava l'uniforme della milizia e le sue tasche erano gonfie di lingotti d'oro e di sterline inglesi». Notare che questo foglio marxista di Napoli, non essendo ancora propalata l'impostura del cappotto tedesco, afferma che «Mussolini indossava l'uniforme della milizia». Il particolare dei lingotti è un hapax suggerito dalla tradizione di Cola di Rienzo in fuga, carico di preziosi e finito anche lui appeso per i piedi. L'articolista ci deve tuttora una spiegazione: dato il peso specifico dell'oro, come si fa a scappare con le «tasche gonfie di lingotti»? – Imperatore Luigi, “I giorni dell'odio - Italia 1945”, Roma (Ciarrapico) 1975.
Quanto alla pletora di fantasiose versioni giornalistiche sulla fuga del Dittatore attingo alcuni dati dall’opera precitata. Salto a pié pari, per brevità, le storiellerie de "l'Unità" da allora ad oggi da essa stessa contraddette (servizio del 29 aprile 1945 e successivi di Audisio 28 novembre 1945 e 11 dicembre 1945). Il giornale del PCI si stampava allora – per compiacente concessione dei padrini pescecani che finanziavano la resistenza – nella stessa sede del "Corriere della Sera", per cui, a proteggerne la primogenitura, il servizio fu composto in segreto. Altri quotidiani si scapricciarono con notizie, di cui «non si sa se stigmatizzare la gratuità dell'invenzione o la bestiale leggerezza dei giudizi». Così Imperatore nel pubblicarne un campionario: «Mussolini è stato catturato a Pallanza sulla riva occidentale del lago di Como. [...] Al momento del suo arresto, operato come è noto dalla Guardia di Finanza, l'ex duce avrebbe improvvisato un tentativo di negare le proprie generalità; ma il gesto puerile appoggiato dalla esibizione di un passaporto falso, dice la levatura morale e lo smarrimento dell'uomo». ("Risorgimento", 27-28 IV '45). «Mussolini lascia Milano a bordo d'una macchina rossa che si allontana dalla città sparando sulla folla» (notizia de "l’Avanti!" del 28 IV '45, ripresa da "il Giornale").
Uno stralcio dell'analisi storica di Imperatore è stato pubblicato da "l'Ultima Crociata", xlvi/4 (Rimini, aprile 1996), 5-8.

5. Le Memorie dell’agente, Otto Kisnatt del Reichssicherheits Zentralamt, furono pubblicate a puntate da "Epoca" (20 XI-4 XII '55).

6. Secondo i 'testimoni oculari', al momento della cattura, Mussolini era coricato o in piedi, indossava un soprabito nocciola o grigio o di pelle color ruggine, un impermeabile marrone, una mantellina di colore imprecisato, un pastrano tedesco dell'esercito o dell'aviazione, un berretto della GNR, un elmetto della Wehrmacht, o un casco da lavoratore. In ogni versione vi sono particolari differenti, osserva Imperatore (cit., passim) il quale per deduzione sostiene, che Mussolini da Milano fino al momento della cattura ha sempre indossato l'uniforme di caporale d'onore della Milizia, un cappotto di pelle marrone, una bustina con visiera mobile e osserva che l'occasione di fotografare il preteso travestimento di Mussolini «nessuno se lo sarebbe fatto sfuggire»; e che nella macabra scena di Piazzale Loreto sul corpo martoriato gettarono di tutto (gagliardetti, simboli e indumenti fascisti stracciati, insanguinati e infangati) ma a nessuno venne a mente di gettargli addosso un cappotto e un elmetto della Wehrmacht come sarebbe stato logico da parte di chi sapeva del 'travestimento', ghiotto dettaglio da dare in pasto alla folla imbestialita.
Nondimeno un certo ten. Birzer (altro angelo custode del Duce), in un tardivo rapporto steso nel '50 a richiesta dell’infame comandante delle SS, Wolff (viscido badogliardo tedesco in combutta coi partigiani, per cui vedi nota seguente), afferma che Mussolini mise l'elmetto tedesco e lasciò il berretto nell'autoblinda di Pavolini; mentre sta di fatto che Mussolini a Dongo aveva ancora in testa il berretto che non avrebbe potuto recuperare dall'autoblinda frattanto colpita e abbandonata sul ciglio della strada. – Imperatore, cit.

7. Himmler aveva fatto aggregare alla colonna tedesca un contingente di finti genieri al comando di un non meglio identificato Fallmeyer allo scopo di reprimere una possibile reazione dei fascisti all'arresto del Duce. E in effetti il tentativo di opposizione dei fascisti (poco più di una ventina, soverchiati da centinaia di tedeschi) fu subito stroncato, stando alla testimonianza di Kisnatt. Vi fu una sparatoria, Pavolini restò ferito, la sua autoblinda fu colpita e rovesciata sul margine della strada. – Ibidem.

8. Alla consegna si era impegnato il CLN, obbligato alle decisioni degli "Al-leati" che lo finanziavano con ben 160 milioni al mese in lire di allora. – Mario Bordogna: “Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas. Dall'8 settembre 1943 al 26 aprile 1945”, Milano (Mursia) 1995, 208-209.

9. De Felice (intervistato di Pasquale Chessa, in “Rosso e nero”, Milano, Baldini & Castoldi, 1995) avanza l'ipotesi, abbastanza logica e credibile, secondo la quale il Duce fu soppresso, in quanto scomodo testimone, da un agente dei servizi segreti britannici che si sarebbe impadronito del compromettente carteggio Mussolini-Churchill. Da Annibale a Ceausescu (il secondo pure assassinato in circostanze non chiarite e diffamato dopo morto) la storia è piena di personaggi scomodi eliminati senza processo.

10. Claretta non si trovava con Benito – il quale da diverso tempo la evitava, non proprio per riguardo alla sua Rachele che non meritava tanta infedeltà, ma per l’aperta supina adesione di lei al nazismo – bensì col fratello a Cadenabbia nella Villa "Buona Ventura" e raggiunse, con lui, la colonna dopo Como. Mussolini venne a saperlo solo dopo la partenza da Menaggio. Dopo essere stata prelevata dall'albergo di Dongo in cui era trattenuta fu portata sul luogo dell'esecuzione e uccisa con il Duce per simulare un tentativo di fuga. Di qui la romantica versione accolta anche dai fascisti: «Volle seguirlo fino in fondo, rimanendo fedele al suo fianco quale gesto supremo di amore. E quando il capo della RSI fu crivellato di colpi essa stessa colpita a morte si abbatté riversa ai suoi piedi». – Imperatore, cit.

11. «Se si collega questo fatto con il famoso lasciapassare firmato dall'agente del FBI Daddario, si incrina decisamente l'opinion testé accennata. – Imperatore, cit.

12. Il 25 aprile '45 Pertini e compagni avevano costituito un "Comitato insurrezionale" comunista a tutti gli effetti e, secondo Italo Pietra comandante partigiano dell'Oltrepò pavese, avevano deciso di fucilare Mussolini senza processo. Tale comitato «non avendo alcun "potere costituito" contro il quale insorgere in armi, indicò come "nemico", primario quanto generico, i "fascisti" che dovevano essere tutti ammazzati senza processo perché..."fuori legge"». – Borghese p. Bordogna, cit., 208-209.
Anche Graziani doveva essere immediatamente fucilato per ordine di Pertini il quale, sul periodico "Rinascita" del PCI (aprile 1955), si rammaricò che fosse sfuggito al plotone d'esecuzione.

13. Sulle ultime ore di Mussolini l'autore de “I giorni dell'odio” dà la seguente versione: «Disceso dal camion fu accompagnato al Municipio di Dongo. Fra le ore 16.30 e le 18.30 Mussolini rimase rinchiuso nel Municipio, da dove fu trasferito nella casermetta della Guardia di Finanza di Germàsino, poiché l'accordo fra tedeschi e clnai prevedeva appunto che fosse la Guardia di Finanza a tenere prigioniero Mussolini. Alle 19 del 27 aprile Mussolini, a cui era stata concessa la compagnia di Porta federale di Como, giunse a Germàsino dove fu accolto dal brig. Giorgio Buffelli con grande ostentazione di cortesia. Gli fu preparata una branda nell'unica cella della piccola caserma: Mussolini rimase in assoluto silenzio prigioniero in questa caserma fino all'una del giorno 28 cioè praticamente per sei ore. All'una, inaspettatamente,"Pedro" e Moretti rilevano Mussolini da Germàsino con l'intenzione di ucciderlo nel giro di pochi minuti: il tempo di ritornare a Dongo, prelevare la Petacci dall'albergo in cui era trattenuta, raggiungere la periferia del paese e massacrare il Duce e Claretta simulando un loro tentativo di fuga».
Il crollo del Comunismo ha indotto i Rossi a un radicale mutamento di posizioni, metodi e mezzi. Gli epigoni del vecchio PCI, che con la grancassa antifascista non poteva andare oltre il consociativismo, possono fare a meno di quella grancassa, unica risorsa che, compiacenti i democristiani, poteva salvarli dall’isolamento. Alle loro favole sono rimasti in pochi a credere e in non molti a far finta di credere; ora, più realisticamente, seguendo un dettame stalinista, puntano sugli "utili idioti"che hanno spalancato loro tutte le porte, fino a conseguire il potere sia pur condiviso con quel che resta della balena bianca.
Voltata pagina, ora danno in pasto ai lettori de "l'Unità"una versione della fine di Mussolini rifatta da cima a fondo: smentendo tutte le precedenti contraddittorie e infamanti, asseriscono che il Duce fu catturato e assassinato da un tale Aldo Lampredi e altri in concorso. Anche le congetture sulla sparizione della famosa borsa di documenti appaiono verosimili e non distanti da quelle degli storici seri. L’articolista, al contrario dei precedenti, tratta Mussolini con rispetto attribuendogli, dopo la cattura, un contegno freddo e dignitoso, anziché vile e bambinesco. – Quotidiano comunista "l'Unità", 25 I '96.


IILA «CONVERSIONE»


Parole sue: «Combatteremo tutto ciò che deprime, mortifica l’individuo. Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono, oggi, le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. […] Il mondo d’oggi ha strane analogie con quello di Giuliano l’Apostata. Il “Galileo dalle rosse chiome” vincerà ancora una volta? O vincerà il Galileo mongolo del Cremlino? Riuscirà ad attuarsi il “capovolgimento” di tutti i valori, così come avvenne nel crepuscolo di Roma? Gli interrogativi pesano sullo spirito inquieto dei contemporanei; ma intanto “navigare necesse”. Anche contro corrente. Anche contro il gregge. Anche se il naufragio attende i portatori solitari e orgogliosi della nostra eresia».
Così la pensava il futuro Duce, tre anni prima del suo avvento al potere, sui due massimi flagelli dell’umanità 1. Il suo giudizio negativo sul Cristianesimo è secco e senza appello, non lascia adito a ripensamenti. La distinzione fra credenti e creduloni è netta: una volta convinti che una determinata Fede è maliziosa costruzione umana e corrotta, non si torna indietro 2.
Men che meno sarebbe tornato indietro nella sua convinzione un uomo tutt’altro che ondivago quale fu Mussolini; eppure, gli si attribuisce con insistenza una «progressiva e reale conversione religiosa». Il testuale è del citato Innocenti, autorevole esponente della pubblicistica cattolica 3, che ri-costruisce il percorso del ‘ravvedimento’, un percorso sbalorditivo che va da un estremo all’altro: dall’ateismo blasfemo del tribuno socialista – che tale restò nei fatti anche dopo il ripudio del partito degenerato – all’effusiva lettera inviata alla vigilia dello scempio di Piazzale Loreto alla sua Rachele cui giurava affetto «davanti a Dio», dal prendere «a calci ridendo il Rabbi vile dalle chiome rosse e i suoi rabbini più vili dalle sottane nere» al toccante e teologicamente ineccepibile giudizio su Cristo riprodotto a cura di P. Eusebio sui santini datati “Natale 1944” 3.
La ricostruzione è ricca di particolari e testimonianze attinte in prevalenza dall’ambiente cattolico.
Il tutto, in specie il santino dal tono di omelia e stilisticamente lontano dalla incisiva prosa mussoliniana, sa di mistificazione pretesca.
Fa venire a mente la conversione di Machiavelli prima di morire, attestata da un autografo risultato poi artefatto da certi frati.
Son propenso a condividere, e mi rincresce, l’aspro scetticismo d’un prete scostante e bilioso, antifascista e «tutto miele verso i massoni». 4, il quale – pur senza contestare l’apertura del Duce al Cristianesimo per opportunità politica, in quanto chi governa in Italia deve scendere a patti col Vaticano e pagarlo salato per esercitare la sua autorità – afferma perentorio che il Dittatore «non si lasciò mai penetrare dalla fede cristiana» e che «in sede di bilancio conclusivo bisogna arguire dai documenti addotti che Mussolini non trovò la fede in Cristo» 5.
«Unicuique suum»: per quanto inaccettabile sia la tesi del prete in discorso, bisogna riconoscergli una obiettività storica che contrasta con il voltafaccia antifascista del Vaticano e della predace propaggine laica di esso infiltrata nel potere politico. Vale la pena di riferire alcuni severi giudizi sull’antifascismo opportunistico, specialmente di parte cattolica:
«Finita la guerra il fascismo fu demonizzato e la figura (come la salma) del capo che l’impersonava fu avvilita oltre l’obbrobrio di Piazzale Loreto e perfino la di lui prole sopravvissuta fu spinta nel marcio dell’umiliazione».
[…] «L’intera classe intellettuale italiana che aveva aderito al fascismo (sui 1200 professori universitari sollecitati, soltanto dodici avevano rifiutato l’adesione) accettò la demonizzazione.
Non meno stranamente i cattolici italiani, che si erano tanto impegnati per cattolicizzare il fascismo (anche ai vertici dell’Azione Cattolica, naturalmente, checché ora meschinamente si dica) subirono l’imposta demonizzazione a beneficio di coloro che, lungimiranti, esigevano a loro vantaggio, l’unità antifascista. Ma – sebbene tardivamente – la verità storica sta riemergendo non solo riguardo all’econo mia e alle leggi sociali del ventennio mussoliniano, non solo riguardo all’opera svolta dall’Italia in Africa e per la salvezza della Spagna, non solo per la missione diplomatica di pace fin quasi alla vigilia della guerra, ma anche riguardo al profilo politico e personale di Mussolini.
Sotto questo punto di vista, non piccoli meriti ha acquisito davanti all’opinione pubblica – quali che siano i suoi segreti intenti – uno storico laicista di razza ebraica, antifascista di militanza socialista: Renzo De Felice.
Nulla, però, i cattolici italiani hanno imparato da tale esempio e pertanto continuano a disinteressarsi dell’avvenuta demonizzazione» […].
«Non intendo“assolvere” politicamente Mussolini, ma constato che è difficilissimo – da un punto di vista morale – condannare una coscienza che deve prendere decisioni comunque discutibili in situazioni così“singolari”. Se s’è avuto comprensione per i democristiani che, in una situazione giudicata di“necessità”, hanno firmato la legge dell’assassinio di massa, forse è equo rimettere a Dio anche il giudizio sulla coscienza di Mussolini che nel settembre 1943 depose l’idea e del suicidio e del“ritiro”, mettendosi “obtorto collo” per una via non di vantaggi ma d’ulteriore probabile sconfitta». 6

1. Il testuale che precede è dall’articolo“Navigare necesse”, ne «il Popolo d’Italia» del 1° gennaio 1920. «Navigare – nota Ennio Innocenti nella sua Disputa sulla conversione di B. Mussolini, Roma (edizione dell’autore) 1943, 17 – significa chiaramente battagliare. Premesso che navigare stava diventando un dovere ineludibile, B. M. azzardava: “non la croce vorremmo vedere sullo stemma nazionale, ma un’ancora o una vela”».

2. Così è per tutti, per i grandi come per i piccoli uomini. Ho una esperienza personale: contraddizione e scandalo d’una Chiesa che nella nostra Storia si manifesta aperta ad ogni compromesso con il Male e ad ogni scellerato patto con gli empi, incoerente in tutto eccetto nel costante rapporto con il Danaro, tutto questo mi sospinse fuori della professione re-ligiosa in cui ero cresciuto. Mi restò un'unica certezza: il dio noto non esiste e il Dio esistente non è noto, ma celato nella Creazione, unico manifesto Miracolo. Soltanto in questo convincimento mi trovai dinanzi al Vero, concreto e imperscrutabile.

3. Su padre Eusebio (al secolo Sigfrido Zappaterreni *Monte Celio di Guidonia,*1913) e sul santino natalizio distribuito ai reparti in armi della RSI: Angelo Scarpellini, “La RSI nelle lettere dei suoi caduti”, Roma 1963, 62 sgg.

4. Op. cit., pg. 18. – Il prete in discorso è Ennio Innocenti che insegna dottrina sociale della Chiesa al Centro di Teologia per Laici del Vicariato di Roma.

5. Innocenti, cit., pg. 51.

6. Op. cit., pgg. 49 e 43.




VERITAS FILIA TEMPORIS, NON AVCTORITATIS
La verità è generata dal tempo non da chi comanda.

F. Bacone.



IIILA «VALIGIA»

Mussolini: «l’uomo che ha pacificato il Paese restituendogli dignità e ruolo di grande potenza mentre tutti tramavano per condurlo verso il bolscevismo o verso il capitalismo massonico e clericale, il capo del Governo, ossequioso delle leggi e dello Statuto che riconosce nel re il capo dello Stato, che lo informa e ne riceve il consenso, che è rispettoso delle istituzioni e della religione, di quello stesso re e di quelle stesse istituzioni che invece lo tradiranno, lo metteranno in galera, faranno trattative segrete con i nemici della patria…». Fin qui ce n’è abbastanza da spellare vivo l’apologeta, in ossequio alla morale democratica per la quale stendere morto un fascista non è reato. Andiamoci piano, ché l’incauto, subito dopo, tampona l’incandescente concetto con una sgargiante pezza conformistica: «Mussolini, il capo della Repubblica Sociale Italiana, ultimo baluardo contro il comunismo a difesa dei grandi valori nazionali, ora fugge verso la Svizzera, solo, con un fascio di do-cumenti sotto il braccio».
Il testuale chiude uno studio di Gaetano Contini 1 che in prosa agile e seducente cerca di interpretare il giallo della valigia che Mussolini aveva con se al momento dell’arresto; ma l’acredine antifascista e il sudicio dazio pagato alla fable convenue screditano lo studio che sarebbe stato preziosa fonte in argomento. Già il sottotitolo – i documenti segreti sull'ultima (?!?) fuga del duce – e il brano sopra riferito che chiude la ricostruzione obliterano la verità che emerge dalle carte d’archivio. Per quanto parziale e strumentalizzata la documentazione, avulsa dal contesto, è tale che l’antifascismo ne esce svergognato e malconcio, privo di valori e insipiente, codardo e criminale allo stato puro.
Nondimeno il sopravvento della favola ci riporta al capolinea col riproporre la fandonia del Dittatore fuggiasco, sotto il cappottaccio della Wehrmacht, occhiali neri, inseparabile valigetta a fianco, e altre bufale alle quali non crede più nessuno. Si può essere antifascisti e, al tempo stesso, storiografi equilibrati. De Felice pare averlo dimostrato, Contini no ed è imperdonabile.
Imperdonabile, sì, per inosservanza della norma deontologica impostagli dall’incarico di Sovrintendente nell’Archivio Centrale dello Stato. Mi è lecito affermarlo con il briciolo d’autorità che mi deriva dall’essere stato reggente e poi direttore dell’Archivio di Stato di Bolzano dal 1951 al 1970. Non vanto meriti, ma posso dichiarare che nei lavori strettamente archivistici ho tenuto a bada per quanto possibile la bestia nera della passionalità. 2
Di passata accenno qui, inserendo un ricordo giovanile, che nell’immediato dopoguerra l’Archivio Centrale dello Stato era precariamente ospitato nell’ala sud-est del vecchio palazzaccio di San Michele, sul Lungotevere dirimpetto all’Aventino, condiviso con il carcere minorile. Il personale addettovi consisteva in due sole unità: io – tornato di recente alquanto ammaccato dalla guerra alla vita civile nell’infimo grado di aiutante aggiunto, e un attempato custode in attesa di collocamento a riposo, in compagnia di due gattoni forastici e di un imprecisato numero di roditori. Un alto funzionario ministeriale venuto ad ispezionare la sede nel ’47 sospirò desolato: «Eccolo qua l’istituto archivistico più importante d’Italia: chiuso in una sordida topaia alla mercé di uno studentello fuori corso e di un inserviente che casca a pezzi».
Alcuni anni dopo l’Archivio Centrale fu condecentemente sistemato nell’attuale prestigiosa sede, uno dei più imponenti e razionali edifici della fascistica E 42, e dotato di personale numeroso e specializzato. Trasferito all’Archivio di Stato di Bolzano non ebbi modo di visitarlo, ma immaginavo che fosse diretto da una cima. Senonché, aperta la Valigia del sovrintendente Contini, alla prima scorsa sono stato io ad esclamare a mia volta: «Ecco qua, in che mani è andato a finire l’istituto archivistico più importante d’Italia!».

1. G. Contini, “La valigia di Mussolini”, Milano (Mondadori) 1982, pg. 176.

2. Presumo che la mia viscerale antipatia per il Bonaparte, di cui del resto riconosco il genio militare e l’abilità politica, e ancor più la istintiva repulsione per l’oste guerrigliero di Passiria, Andreas Hofer, non abbiano inquinato il mio sudato studio su “I documenti hoferiani” della Collezione Steiner, documenti che d’altronde, per quanto riguarda l’epopea partigiana degl’insorti antibavaresi del 1809, l’affogano nel ridicolo senza pretestuosi appiccagnoli e orchestrazioni ideologiche.
Le scritture hoferiane trattate (un’ottantina, più una miscellanea di 18 autografi e varia sulla rivolta del 1809) sono pubblicate in regesto e in parte integralmente in “Archivio per l’Alto Adige”, a. LIV (1960) e in appendice ad “Andreas Hofer, un eroe tradito”, di A. Ragazzoni, Bolzano (CSA) 1984, pgg. 41 sgg.



IL CALCIO DELL'ASINO

«L’Uomo per il quale tanti vorrebbero volentieri morire, [...] l’Uomo che aveva formato il pensiero di un’epoca nuova», [...] solo che attraversasse un viottolo, quel viottolo «aveva ormai una storia: vi era passato il Duce». Quando appariva in pubblico «gli Italiani avrebbero ricordato tutta la vita quei minuti, tramandando di generazione in generazione la memoria che si sarebbe velata a poco a poco della mistica luce dei miti, poiché di queste cose si facevano un tempo le leggende e le grandi canzoni».
Queste ruffianaggini, evidenziate nel testo, e molte altre furono pubblicate durante il Ventennio fascista da Luigi Barzini iunior, lo stesso che dopo lo scempio di Piazzale Loreto, vilipese la memoria di Mussolini vestendolo da pagliaccio che nel circo agita le braccia e le gambe «come fa un lottatore perché i vestiti gli si adattino meglio» , [...] cercando di «celare la sua irresolutezza e la paura dietro la maschera del condottiero pronto a tutto».



Ferruccio Bravi

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