In
occasione del Natale di Roma, abbiamo commemorato quella solenne data
augurandoci che fosse di nuovo fonte d'ispirazione per una ritrovata
Concordia Nazionale sotto il segno unificatore dell'Urbe Eterna. Cosa
che non potrà mai essere il 25 aprile, data che individua altresì
la profonda spaccatura interna creatasi con la guerra e, una volta
definita la sconfitta, la progressiva perdita di sovranità
dell'Italia. Perché non dobbiamo dimenticarci, mai, di averla persa
la guerra. Ed è proprio da questa mistificazione della sconfitta che
sono nati i peggiori mostri della nostra più recente storia.
Episodio
tragico e orribile seguente al 25 aprile, è senz'ombra di dubbio la
morte di Mussolini. S'illudono coloro che vedono in quell'esecuzione
la fine dei massacri, l'ultimo necessario sacrificio che avrebbe
placato la sete di vendetta. La fine di Mussolini non fu che uno
della lunga serie di omicidi e altrettanto efferati crimini protratti
dalle bande partigiane comuniste fino al 1948 inoltrato. Il più
eclatante e famoso certo, ma non l'ultimo. E come in tutto il
resoconto che fin qui c'è stato proposto da certi storici riguardo
la Resistenza, anche intorno alla morte di Mussolini non mancano
contraddizioni e lacune. Con uno scritto inedito, ma redatto già
alcuni anni orsono, il nostro fondatore Ferruccio Bravi ha cercato di
far luce sulla cortina di nebbia formatasi intorno a quei concitati
giorni, svelandone incongruenze e manipolazioni. Lo presentiamo qui
oggi con l'obbiettivo di ridare la giusta dignità ad un uomo su cui
in tanti hanno cercato di scaricare le proprie colpe per ripulirsi la
coscienza. Ma il fango gettato in settant'anni, si sta
inesorabilmente seccando e mano a mano che si sgretola lascia
trasparire la verità, quella verità che prima o poi trova sempre la
strada per affermarsi. È giunta l'ora che gli Italiani facciano i
conti con una realtà ben diversa da quella che ci hanno presentato e
si sveglino dal lungo torpore che li ha avviluppati. In questo 28 aprile 2016, il nostro è un
piccolo squillo di tromba che si unisce al coro di quanti ancora
credono nell'Italia e ritengono necessario guardare al passato con
occhi scevri da pregiudizi, perché solo così potremo ridestare le
coscienze e sperare che il nostro futuro sia diverso da quello che si
sta amaramente prospettando all'orizzonte.
Sandro
Righini
Ecce
homo
estratto
da:
Le
Piaghe d’Italia, bricciche di cronaca (1987 -2016)
Inedito
di Ferruccio Bravi
I
–
«CROCIFISSO
DUE VOLTE!»
«Un
uomo, no, non si era mai veduto
nei
secoli, due volte crocifisso.
…E lui, vinto, sereni
e
miti sguardi, non sdegnosi e inquieti
presso
a morte volgeva…».
Ezra
Pound
oggi è una mesta ricorrenza per l’Italia, precipitata da cinquant’anni
in un abisso da dove non c’è modo di risalire. Ogni italiano che
dalla disfatta del ’45 non abbia ricavato miserabile profitto
maledice quel giorno. Anche a non provare nostalgia di tutto ciò che
allora allietava la nostra giovinezza, anche ad essere spietati nella
condanna del Capro Espiatorio di errori non tutti suoi e forse
inevitabili, questo è un giorno di lutto per la Patria comune.
Per
rendersene conto – e soprattutto a disinganno della gioventù
disinformata – può bastare una riflessione obiettiva sul tramonto
del diffamato Ventennio. Il 25 luglio aveva rivelato i limiti e le
tare del primo Fascismo che dopo un avvento atipico ebbe un consenso
di popolo unico nella nostra storia. Un consenso motivato non
soltanto dal buon governo, da grandiose opere pubbliche e opere
assistenziali sane ed efficienti, ma anche dall’ignavia della massa
che finché tutto va bene trova giusto e comodo rinunciare
all'esercizio di un ruolo politico e alla cosiddetta
(illusoria) par-tecipazione. Come in ogni sistema in ascesa,
gli opportunisti avevano invaso in breve ampi spazi dell’area di
Regime, soverchiando ed emarginando i
fedelissimi che approvavano acriticamente quanto diceva e faceva «il
Duce che ha sempre ragione» 1.
L'ingenuità
e l'inesperienza impedivano a questi
fideisti di giudicare obiettivamente la
situazione e opporsi ai maneggi degli infidi che
spadroneggiavano, Duce tollerante, ai
vertici di governo e di partito:
vani fanatici che si fecero parte diligente nello sconsiderato
intervento del 1940, ma
quando la guerra volse al peggio rovesciarono
Mussolini e si arrogarono il diritto di
decidere sul futuro dell'Italia.
Fra
costoro che per eccesso di zelo determinarono la crisi che ad
un tempo travolse Fascismo e Italia
emergono il ministro degli esteri Ciano il
quale – malgrado riserve e remore
del suocero Mussolini – aveva firmato il
Patto d'Acciaio con Hitler, Grandi che
manteneva stretti i
vincoli fra Palazzo Venezia e Quirinale,
Bottai mistico “integralista”
che aveva imposto l'insegnamento della Dottrina del Fascismo nelle
scuole. Questi ed altri congiurati di
mediocre livello – per quanto ben al
disopra della classe politica antifascista per intelletto e capacità
– avevano sbagliato tutto.
Se
lo scopo del colpo di stato del 25 luglio era quello di predisporre
l'uscita dell'Italia dal conflitto col minor danno possibile, fu
madornale errore l'aver estromesso Mussolini, l'unico qualificato a
chiedere e ottenere da Hitler la libertà d'azione necessaria per
trattare una pace separata, l'unico nostro rappresentante di statura
internazionale che avrebbe potuto condurre trattative con gli
Alleati. Nella circostanza i congiurati fascisti furono comunque così
malaccorti da farsi spiazzare da un mediocre generale e da un
monarca di statura esigua – non solo fisica, ma soprattutto
morale – che a loro volta gestirono nel modo peggiore l'uscita
dell'Italia dalla guerra.
Al
25 luglio seguì l’8 settembre e a questa vergognosa data la
frattura materiale e morale dell’Italia alla mercé di nemici
vecchi e nuovi. Tralasciando la breve stagione della Repubblica
Sociale Italiana e del Regno del Sud governato da Badoglio per
mandato dei liberatori, si arriva al sacro macello delle “radiose
giornate” partigiane,
che hanno diviso in due l’Italia, e allo
scempio di Piazzale Loreto.
Dice
il Pound: ”Mai
si era veduto nei secoli un Uomo due volte crocifisso”.
Due volte sole? Mi pare che da cinquant’anni in qua il Colpevole
sia crocifisso tutti i giorni, come il Cristo da certi cristiani (i
quali, tuttavia, del loro Cristo dicono
bene, perché perdona tutto e tutti,
perfino le loro malefatte e loro stessi che
non la perdonano a nessuno).
Di
Mussolini ogni atto scompare sotto valanghe di menzogne. I fascisti
reagiscono con l’affermare che è
retaggio regale di chi è onesto e compie azioni eccellenti, essere
vittima di calunnia infame. Diciamo pure,
generalizzando, che il linciaggio morale non risparmia
nessuno, a cominciare dai migliori.
Vedi
Garibaldi. La calunnia guelfa lo ha sommerso in una favolistica
infame QUANTO quella anti-mussoliniana.
A sentire i clericali l’Eroe dei Due
Mondi, che pure non disdegnava l’amicizia
di onesti frati, «voleva appiccare
l’ultimo re con le budella dell’ultimo prete».
Similmente il giovane Mussolini avrebbe lasciato il segno nel mio
Trentino non solo con le puntate de L’amante del Cardinale –
romanzo che narra i documentati sollazzi di un illustre principe
vescovo tridentino – ma con plateali attacchi alla religione
cattolica e al clero che fanno ancora fremere i precordi dei miei
timorati compaesani 2.
La
favolistica anti-garibaldina trova riscontri in quella
anti-mussoliniana anche nella
pretesa fuga dell’eroe nizzardo da
Milano. Il clero propalò la diceria d’un
tesoro che egli, lasciando Roma nel ’49,
aveva portato con sé e nascosto non lontano dalla fattoria alle
Mandriole dove si era rifugiato con Anita moribonda
3. La fandonia del Tesoro del
Duce non è altrettanto semplice e lineare, è anzi molteplice e
variegata, come del resto le cangianti versioni della sua fuga, tali
che, raccolte in volume, ne risulterebbe un matto-ne più corposo e
indigesto di un’annata di atti parlamentari 4.
Inversamente proporzionata alla mole è la smentita, asciutta e
concisa. Se è vero – come è manifesto alla luce del sole – che
Mussolini disprezzò sempre il danaro è assurdo parlare di Tesoro
del Duce; se invece per oziosa ipotesi fosse esistito, il tesoro
avrebbe avuto ugual sorte del Tesoro di Dongo. La verità riposa in
fondo a un mare di bugie ed è nota solo a certi guerriglieri rossi
ricchi e quartati.
Quanto
gli antifascisti da allora in poi hanno riferito sulla fine di
Mussolini sprofonda nella contraddizione e nell’assurdo.
Il
castello di falsità ha cominciato a
sgretolarsi già nel '55 quando furono pubblicate le memorie di un
agente dei servizi segreti germanici addetto alla persona del Duce 5.
L’agente
avrebbe assolto il delicato compito – non si sa bene se di
proteggerlo o piuttosto di spiarne i movimenti, passo per passo e ora
per ora – con teutonica meticolosità dall'autunno '43 al momento
della cattura. Nelle sue memorie riferisce che, accingendosi il
comando della colonna che risaliva la Valtellina a consegnare i
fascisti della colonna stessa ai partigiani, Mussolini respinse
recisamente ogni sotterfugio suggerito dal suo protettore: «Resterò
qui sull'autoblinda fino all'ultimo. Non mi arrenderò mai ai
partigiani. Sarebbe una soluzione indegna di me. Mi vergognerei
sempre di dire che sono sfuggito ai partigiani travestendomi da
tedesco. Preferisco combattere». Parole
testuali, inequivocabili, che già da sole rivelano un clima ben
diverso da quello mefitico artefatto dai logografi marxisti, a
cominciare proprio dai molteplici assurdi travestimenti 6.
Fra
le versioni non infamanti, più o meno coerenti ma lacunose, l’unica
per ora interamente accettabile è quella ricostruita al vaglio degli
elementi attendibili da Luigi Imperatore nel modo che segue.
Mussolini
lasciando Milano per la Valtellina, sciolse i suoi dal giuramento. La
"bella morte" sarebbe stata scelta per libera decisione
individuale.
Prese
la via di Como non per riparare in Svizzera: Como era prescelta come
pre-campo e d’altronde la strada di Lecco stava per essere tagliata
dalle unità nemiche avanzanti da sud-est.
La colonna italiana era inserita in quella tedesca in ritirata.
Mussolini «fu esplicitamente arrestato dai tedeschi alle ore 15
circa del 27 aprile 1945 fra Musso e Dongo per essere consegnato ai
comandi partigiani»: un tradimento
perpetrato da Wolff in combutta con Himmler per i loro loschi fini 7.
Tramite
i partigiani, Mussolini doveva essere consegnato agli "Alleati"
quale quale merce di scambio. «Il
Duce era ancora una grossa carta da giocare nella ribollente
situazione italiana ed
europea ed è logico che gli "Alleati" volessero catturarlo
prima che altri potessero strumentalizzarlo».
8
Il
Reichsführer delle SS Wolff e
Himmler cooperarono alla cattura: a
Morbegno emissari tedeschi, "alleati" e partigiani
avrebbero concertato la consegna a Dongo, di comune accordo.
Tutti
erano interessati all'eliminazione di Mussolini: un regolare processo
contro un imputato in condizione di ritorcere le accuse contro i suoi
accusatori avrebbe avuto effetti clamorosi; quanti in Italia e fuori
avevano approvata e fiancheggiata fino al 25 luglio del '43, o almeno
fino al 10 giugno del '40, la politica di Mussolini avrebbero perduto
la faccia.
Primo
fra i tanti: Churchill 9. «I
comunisti italiani vollero precedere tutti nell'uccidere Mussolini,
temendo più degli altri l'effetto d'una sua sopravvivenza. Essi
furono in questo modo solo il crudele strumento»
dei moltissimi che a loro discarico volevano eliminarlo;
anche gli americani che apparentemente non avevano interesse.
Si afferma anzi che volessero salvare il Duce e sottoporlo ad un
processo che avesse almeno una parvenza di legalità, ma
l'affermazione è puramente gratuita: conosciamo
bene i ‘liberatori' dalla forca facile (da Norimberga
all’assassinio di Osama Bin La-den) i quali finché possono
scaricano sui luridi complici stranieri il compito di assassinare gli
avversari. (i quindici partigiani che
straziarono Mussolini, Claretta 10 e
altri – diciassette in tutto
– indossavano l’uniforme
americana con ottimo
equipaggiamento. 11
I sinistri personaggi in maschera
entrati nella storia patria col grimaldello
comunista, altro non furono che
vili esecutori materiali di un sottile cinico disegno,
tipicamente Made in Usa: uccidendo Mussolini i comunisti si
assumevano la responsabilità del delitto e gli
yankees (già in clima di guerra fredda) potevano
«speculare sull'anti-comunismo
dei fascisti italiani che, allora, erano accreditati d’un
grande peso, anche numerico».
Pertini,
Longo e altri scellerati non furono i veri
mandanti del crimine ma,
da squallidi e ignari fantocci manovrati
dall'occupante, ne
trassero occasione per soddisfare
la loro brama di protagonismo e per
accanirsi vigliaccamente su un avversario
inerme 12.
In
questa ricostruzione plausibile per dati non controversi
correttamente utilizzati più d’un'illazione colma i vuoti. Essa
non è ancora la verità, ma alla verità molto si avvicina. Per
intanto è l'unica accettabile, sia pure con molte riserve; ma
dobbiamo accontentarci, perché la manipolazione e la distruzione
delle prove precludono ogni certezza assoluta su ciò che accadde
realmente dalla mattina del 27 aprile all'alba livida e sanguigna del
giorno dopo 13.
1.
L'epiclesi Duce fu coniata dal socialista Olindo Vernotti dieci anni
prima della marcia su Roma.
2.
È Sacra Scrittura, per i fedelini della mia valle, la sfida del
compagno Benito al Padreterno ad ogni apertura di comizio: da
truculento tribuno socialista, Mussolini concedeva all’Onnipotente
dieci minuti per fulminarlo con un colpo apoplettico. Scaduto il
tempo – narrano i santocchi – quel sacrilego estraeva dal
panciotto el pataclón (il cipollone alla
catena) e fra le risa sguaiate della piazza
annunciava: «I dieci minuti son passati, il
Padreterno non s’è fatto vivo, segno è che non esiste. E adesso
parliamo di cose serie». E riprendeva a tuonare contro i
capitalisti e la Curia che era dalla parte degli sfruttatori e si
arricchiva alle spalle dei poveri contadini.
O
quantum mutatus ab illo, il personaggio, una ventina d’anni
dopo nel concetto della Chiesa! Definito dal Pontefice “Uomo
della Provvidenza”, benedetto dal clero
che esaltava ogni sua impresa di guerra come una crociata, lapidi
nelle chiese che non vi dico. Cito appena l’epigrafe apposta nel
Duomo di Milano dal fascistissimo cardinale Schuster: «Gesù
Re dei Popoli, dona lunghi anni all’Italia e al Duce…».
La preghiera del beatificando presule non è stata esaudita da un
Padreterno che nella circostanza, tardivo ma inesorabile come lo
Jahvè giudaico, parve vendicarsi
dell’antica offesa. L’inopportuna lapide è stata rimossa dallo
stesso Schuster che dopo l’assassinio di Mussolini l’ha
sostituita con un'altra in cui si inneggia alla «liberazione
dai tiranni in fuga». I fascisti restati
cattolici si consolano comunque, di questa e d’altre maramalderie
clericali, con la conversione del loro Duce,
germogliata in trincea dopo Caporetto e maturata negli ultimi mesi
della RSI secondo la sospetta testimonianza di Padre Eusebio. In
argomento: v. il capitolo seguente.
3.
Tanto fu radicata la calunnia, che fin verso la fine del secolo i
contadini delle paludi di Comacchio continuarono a cercare il «tesoro
di Garibaldi». Fra le tante, si raccontava
pure che Garibaldi nel Sud America rubava cavalli e per punizione gli
mozzarono le orecchie; e da allora, si asseriva, portò i capelli
lunghi per nascondere l'umiliante mutilazione.
4.
“I giorni dell'odio” di autore obiettivo e documentato che
ricostruisce gli ultimi tre giorni di vita del Dittatore, riferisce
la dichiarazione d’un brigadiere dei Carabinieri secondo il quale
nel "bottino di Mussolini" «c'era qualcosa come undici
miliardi di lire di allora» e «diversi sacchetti pieni di sterline
d'oro» veduti da lui stesso. Si vociferava anche di un commissario
di P. S. sparito nel nulla quando era sulle tracce del Tesoro del
Duce e del Tesoro di Dongo. Fra i quotidiani d’epoca che si
scapricciavano in argomento la sparò più grossa di tutti "la
Voce" del 1° maggio ’45: «Al momento della cattura Mussolini
indossava l'uniforme della milizia e le sue tasche erano gonfie di
lingotti d'oro e di sterline inglesi». Notare che questo foglio
marxista di Napoli, non essendo ancora propalata l'impostura del
cappotto tedesco, afferma che «Mussolini indossava l'uniforme della
milizia». Il particolare dei lingotti è un hapax suggerito dalla
tradizione di Cola di Rienzo in fuga, carico di preziosi e finito
anche lui appeso per i piedi. L'articolista ci deve tuttora una
spiegazione: dato il peso specifico dell'oro, come si fa a scappare
con le «tasche gonfie di lingotti»? –
Imperatore Luigi, “I giorni dell'odio - Italia 1945”, Roma
(Ciarrapico) 1975.
Quanto
alla pletora di fantasiose versioni giornalistiche sulla fuga del
Dittatore attingo alcuni dati dall’opera
precitata. Salto a pié pari,
per brevità, le storiellerie de "l'Unità" da
allora ad oggi da essa stessa contraddette (servizio del 29 aprile
1945 e successivi di Audisio 28 novembre 1945 e 11 dicembre 1945). Il
giornale del PCI si stampava allora – per compiacente concessione
dei padrini pescecani che finanziavano la resistenza – nella stessa
sede del "Corriere della Sera", per cui, a proteggerne la
primogenitura, il servizio fu composto in segreto. Altri quotidiani
si scapricciarono con notizie, di cui «non si sa se stigmatizzare la
gratuità dell'invenzione o la bestiale leggerezza dei giudizi».
Così Imperatore nel pubblicarne un campionario: «Mussolini è stato
catturato a Pallanza sulla riva occidentale del lago di Como. [...]
Al momento del suo arresto, operato come è noto dalla Guardia di
Finanza, l'ex duce avrebbe improvvisato un tentativo di negare le
proprie generalità; ma il gesto puerile appoggiato dalla esibizione
di un passaporto falso, dice la levatura morale e lo smarrimento
dell'uomo». ("Risorgimento", 27-28 IV '45). «Mussolini
lascia Milano a bordo d'una macchina rossa che si allontana dalla
città sparando sulla folla» (notizia de "l’Avanti!" del
28 IV '45, ripresa da "il Giornale").
Uno
stralcio dell'analisi storica di Imperatore è stato pubblicato da
"l'Ultima Crociata", xlvi/4 (Rimini, aprile 1996), 5-8.
5.
Le Memorie dell’agente, Otto Kisnatt del Reichssicherheits
Zentralamt, furono pubblicate a puntate da "Epoca" (20 XI-4
XII '55).
6.
Secondo i 'testimoni oculari', al momento della cattura, Mussolini
era coricato o in piedi, indossava un soprabito nocciola o grigio o
di pelle color ruggine, un impermeabile marrone, una mantellina di
colore imprecisato, un pastrano tedesco dell'esercito o
dell'aviazione, un berretto della GNR, un elmetto della Wehrmacht, o
un casco da lavoratore. In ogni versione vi sono particolari
differenti, osserva Imperatore (cit., passim) il quale per deduzione
sostiene, che Mussolini da Milano fino al momento della cattura ha
sempre indossato l'uniforme di caporale d'onore della Milizia, un
cappotto di pelle marrone, una bustina con visiera mobile e osserva
che l'occasione di fotografare il preteso travestimento di Mussolini
«nessuno se lo sarebbe fatto sfuggire»; e che nella macabra scena
di Piazzale Loreto sul corpo martoriato gettarono di tutto
(gagliardetti, simboli e indumenti fascisti stracciati, insanguinati
e infangati) ma a nessuno venne a mente di gettargli addosso un
cappotto e un elmetto della Wehrmacht come sarebbe stato logico da
parte di chi sapeva del 'travestimento', ghiotto dettaglio da dare in
pasto alla folla imbestialita.
Nondimeno
un certo ten. Birzer (altro angelo custode del Duce), in un tardivo
rapporto steso nel '50 a richiesta dell’infame comandante delle SS,
Wolff (viscido badogliardo tedesco in combutta coi partigiani, per
cui vedi nota seguente), afferma che Mussolini mise l'elmetto tedesco
e lasciò il berretto nell'autoblinda di Pavolini; mentre sta di
fatto che Mussolini a Dongo aveva ancora in testa il berretto che
non avrebbe potuto recuperare dall'autoblinda frattanto colpita e
abbandonata sul ciglio della strada. – Imperatore, cit.
7.
Himmler aveva fatto aggregare alla colonna tedesca un contingente di
finti genieri al comando di un non meglio identificato Fallmeyer allo
scopo di reprimere una possibile reazione dei fascisti all'arresto
del Duce. E in effetti il tentativo di opposizione dei fascisti
(poco più di una ventina, soverchiati da centinaia di tedeschi) fu
subito stroncato, stando alla testimonianza di Kisnatt. Vi fu una
sparatoria, Pavolini restò ferito, la sua autoblinda fu colpita e
rovesciata sul margine della strada. – Ibidem.
8.
Alla consegna si era impegnato il CLN, obbligato alle
decisioni degli "Al-leati" che lo
finanziavano con ben 160 milioni al mese in lire di allora. – Mario
Bordogna: “Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas. Dall'8
settembre 1943 al 26 aprile 1945”, Milano (Mursia) 1995, 208-209.
9.
De Felice (intervistato di Pasquale Chessa, in “Rosso e nero”,
Milano, Baldini & Castoldi, 1995) avanza l'ipotesi, abbastanza
logica e credibile, secondo la quale il Duce fu soppresso, in quanto
scomodo testimone, da un agente dei servizi segreti britannici che si
sarebbe impadronito del compromettente carteggio Mussolini-Churchill.
Da Annibale a Ceausescu (il secondo pure
assassinato in circostanze non chiarite
e diffamato dopo morto) la storia è piena di personaggi scomodi
eliminati senza processo.
10.
Claretta non si trovava con Benito – il quale da diverso tempo la
evitava, non proprio per riguardo alla sua Rachele che non meritava
tanta infedeltà, ma per l’aperta supina adesione di lei al nazismo
– bensì col fratello a Cadenabbia nella Villa "Buona Ventura"
e raggiunse, con lui, la colonna dopo Como. Mussolini venne a saperlo
solo dopo la partenza da Menaggio. Dopo essere stata prelevata
dall'albergo di Dongo in cui era trattenuta fu portata sul luogo
dell'esecuzione e uccisa con il Duce per simulare un tentativo di
fuga. Di qui la romantica versione accolta anche dai fascisti: «Volle
seguirlo fino in fondo, rimanendo fedele al suo fianco quale gesto
supremo di amore. E quando il capo della RSI fu crivellato di colpi
essa stessa colpita a morte si abbatté riversa ai suoi piedi».
– Imperatore, cit.
11.
«Se si collega questo fatto con il famoso
lasciapassare firmato dall'agente del FBI Daddario, si incrina
decisamente l'opinione» testé accennata.
– Imperatore, cit.
12.
Il 25 aprile '45 Pertini e compagni avevano costituito un "Comitato
insurrezionale" comunista a
tutti gli effetti e, secondo Italo Pietra comandante
partigiano dell'Oltrepò pavese, avevano deciso di fucilare Mussolini
senza processo. Tale comitato «non avendo
alcun "potere costituito" contro il quale insorgere in
armi, indicò come "nemico", primario quanto generico, i
"fascisti" che dovevano essere tutti ammazzati senza
processo perché..."fuori legge"».
– Borghese p. Bordogna, cit., 208-209.
Anche
Graziani doveva essere immediatamente fucilato per ordine di Pertini
il quale, sul periodico "Rinascita" del PCI (aprile 1955),
si rammaricò che fosse sfuggito al plotone d'esecuzione.
13.
Sulle ultime ore di Mussolini l'autore de “I giorni dell'odio” dà
la seguente versione: «Disceso dal camion
fu accompagnato al Municipio di Dongo. Fra le ore 16.30 e le 18.30
Mussolini rimase rinchiuso nel Municipio, da dove fu trasferito nella
casermetta della Guardia di Finanza di Germàsino, poiché l'accordo
fra tedeschi e clnai prevedeva appunto che fosse la Guardia di
Finanza a tenere prigioniero Mussolini. Alle 19 del 27 aprile
Mussolini, a cui era stata concessa la compagnia di Porta federale di
Como, giunse a Germàsino dove fu accolto dal brig. Giorgio Buffelli
con grande ostentazione di cortesia. Gli fu preparata una branda
nell'unica cella della piccola caserma: Mussolini rimase in assoluto
silenzio prigioniero in questa caserma fino all'una del giorno 28
cioè praticamente per sei ore. All'una, inaspettatamente,"Pedro"
e Moretti rilevano Mussolini da Germàsino con l'intenzione di
ucciderlo nel giro di pochi minuti: il tempo di ritornare a Dongo,
prelevare la Petacci dall'albergo in cui era trattenuta, raggiungere
la periferia del paese e massacrare il Duce e Claretta simulando un
loro tentativo di fuga».
Il
crollo del Comunismo ha indotto i Rossi a un radicale mutamento di
posizioni, metodi e mezzi. Gli epigoni del vecchio PCI, che con la
grancassa antifascista non poteva andare oltre il consociativismo,
possono fare a meno di quella grancassa, unica risorsa che,
compiacenti i democristiani, poteva salvarli dall’isolamento. Alle
loro favole sono rimasti in pochi a credere e in non molti a far
finta di credere; ora, più realisticamente, seguendo un dettame
stalinista, puntano sugli "utili idioti"che hanno
spalancato loro tutte le porte, fino a conseguire il potere sia pur
condiviso con quel che resta della balena bianca.
Voltata
pagina, ora danno in pasto ai lettori de "l'Unità"una
versione della fine di Mussolini rifatta da cima a fondo: smentendo
tutte le precedenti contraddittorie e infamanti, asseriscono che il
Duce fu catturato e assassinato da un tale Aldo Lampredi e altri in
concorso. Anche le congetture sulla sparizione della famosa borsa di
documenti appaiono verosimili e non distanti da quelle degli storici
seri. L’articolista, al contrario dei precedenti, tratta Mussolini
con rispetto attribuendogli, dopo la cattura, un contegno freddo e
dignitoso, anziché vile e bambinesco. – Quotidiano comunista
"l'Unità", 25 I '96.
II
–LA
«CONVERSIONE»
Parole sue: «Combatteremo tutto ciò che deprime,
mortifica l’individuo. Due religioni si contendono oggi il dominio
degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani
partono, oggi, le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca.
Noi siamo gli eretici di queste due religioni. […] Il mondo d’oggi
ha strane analogie con quello di Giuliano l’Apostata. Il “Galileo
dalle rosse chiome” vincerà ancora una volta? O vincerà il
Galileo mongolo del Cremlino? Riuscirà ad attuarsi il
“capovolgimento” di tutti i valori, così come avvenne nel
crepuscolo di Roma? Gli interrogativi pesano sullo spirito inquieto
dei contemporanei; ma intanto “navigare necesse”. Anche contro
corrente. Anche contro il gregge. Anche se il naufragio attende i
portatori solitari e orgogliosi della nostra eresia».
Così
la pensava il futuro Duce, tre anni prima del suo avvento al potere,
sui due massimi flagelli dell’umanità 1.
Il suo giudizio negativo sul Cristianesimo è secco e senza appello,
non lascia adito a ripensamenti. La distinzione fra credenti e
creduloni è netta: una volta convinti che una determinata Fede è
maliziosa costruzione umana e corrotta, non si torna indietro
2.
Men
che meno sarebbe tornato indietro nella sua convinzione un uomo
tutt’altro che ondivago quale fu Mussolini; eppure, gli si
attribuisce con insistenza una «progressiva e reale conversione
religiosa». Il testuale è del citato Innocenti, autorevole
esponente della pubblicistica cattolica 3,
che ri-costruisce il percorso del ‘ravvedimento’, un percorso
sbalorditivo che va da un estremo all’altro: dall’ateismo
blasfemo del tribuno socialista – che tale restò nei fatti anche
dopo il ripudio del partito degenerato – all’effusiva lettera
inviata alla vigilia dello scempio di Piazzale Loreto alla sua
Rachele cui giurava affetto «davanti a Dio», dal prendere «a calci
ridendo il Rabbi vile dalle chiome rosse e i suoi rabbini più vili
dalle sottane nere» al toccante e teologicamente ineccepibile
giudizio su Cristo riprodotto a cura di P. Eusebio sui santini datati
“Natale 1944” 3.
La
ricostruzione è ricca di particolari e testimonianze attinte in
prevalenza dall’ambiente cattolico.
Il
tutto, in specie il santino dal tono di omelia e stilisticamente
lontano dalla incisiva prosa mussoliniana, sa di mistificazione
pretesca.
Fa
venire a mente la conversione di Machiavelli prima di morire,
attestata da un autografo risultato poi artefatto da certi frati.
Son
propenso a condividere, e mi rincresce, l’aspro scetticismo d’un
prete scostante e bilioso, antifascista e «tutto miele verso i
massoni». 4,
il quale – pur senza contestare l’apertura del Duce al
Cristianesimo per opportunità politica, in quanto chi governa in
Italia deve scendere a patti col Vaticano e pagarlo salato per
esercitare la sua autorità – afferma perentorio che il Dittatore
«non si lasciò mai penetrare dalla fede cristiana» e che «in sede
di bilancio conclusivo bisogna arguire dai documenti addotti che
Mussolini non trovò la fede in Cristo» 5.
«Unicuique
suum»: per quanto inaccettabile sia la tesi del prete in discorso,
bisogna riconoscergli una obiettività storica che contrasta con il
voltafaccia antifascista del Vaticano e della predace propaggine
laica di esso infiltrata nel potere politico. Vale la pena di
riferire alcuni severi giudizi sull’antifascismo opportunistico,
specialmente di parte cattolica:
«Finita
la guerra il fascismo fu demonizzato e la figura (come la salma) del
capo che l’impersonava fu avvilita oltre l’obbrobrio di Piazzale
Loreto e perfino la di lui prole sopravvissuta fu spinta nel marcio
dell’umiliazione».
[…]
«L’intera classe intellettuale italiana che aveva aderito al
fascismo (sui 1200 professori universitari sollecitati, soltanto
dodici avevano rifiutato l’adesione) accettò la demonizzazione.
Non
meno stranamente i cattolici italiani, che si erano tanto impegnati
per cattolicizzare il fascismo (anche ai vertici dell’Azione
Cattolica, naturalmente, checché ora meschinamente si dica) subirono
l’imposta demonizzazione a beneficio di coloro che, lungimiranti,
esigevano a loro vantaggio, l’unità antifascista. Ma – sebbene
tardivamente – la verità storica sta riemergendo non solo riguardo
all’econo mia e alle leggi sociali del ventennio mussoliniano, non
solo riguardo all’opera svolta dall’Italia in Africa e per la
salvezza della Spagna, non solo per la missione diplomatica di pace
fin quasi alla vigilia della guerra, ma anche riguardo al profilo
politico e personale di Mussolini.
Sotto
questo punto di vista, non piccoli meriti ha acquisito davanti
all’opinione pubblica – quali che siano i suoi segreti intenti –
uno storico laicista di razza ebraica, antifascista di militanza
socialista: Renzo De Felice.
Nulla,
però, i cattolici italiani hanno imparato da tale esempio e pertanto
continuano a disinteressarsi dell’avvenuta demonizzazione» […].
«Non
intendo“assolvere” politicamente Mussolini, ma constato che è
difficilissimo – da un punto di vista morale – condannare una
coscienza che deve prendere decisioni comunque discutibili in
situazioni così“singolari”. Se s’è avuto comprensione per i
democristiani che, in una situazione giudicata di“necessità”,
hanno firmato la legge dell’assassinio di massa, forse è equo
rimettere a Dio anche il giudizio sulla coscienza di Mussolini che
nel settembre 1943 depose l’idea e del suicidio e del“ritiro”,
mettendosi “obtorto collo” per una via non di vantaggi ma
d’ulteriore probabile sconfitta». 6
1.
Il testuale che precede è dall’articolo“Navigare
necesse”, ne «il
Popolo d’Italia» del 1° gennaio 1920.
«Navigare – nota Ennio Innocenti nella
sua Disputa sulla conversione di B. Mussolini, Roma (edizione
dell’autore) 1943, 17 – significa chiaramente battagliare.
Premesso che navigare stava diventando un
dovere ineludibile, B. M. azzardava: “non
la croce vorremmo vedere sullo stemma nazionale, ma un’ancora o una
vela”».
2.
Così è per tutti, per i grandi come per i
piccoli uomini. Ho una esperienza personale: contraddizione e
scandalo d’una Chiesa che nella nostra Storia
si manifesta aperta ad ogni compromesso con
il Male e ad ogni scellerato patto con gli empi, incoerente in tutto
eccetto nel costante rapporto con il Danaro, tutto questo mi sospinse
fuori della professione re-ligiosa in cui ero cresciuto. Mi restò
un'unica certezza: il dio noto non esiste e il Dio esistente non è
noto, ma celato nella Creazione, unico manifesto Miracolo. Soltanto
in questo convincimento mi trovai dinanzi al Vero, concreto e
imperscrutabile.
3.
Su padre Eusebio (al secolo Sigfrido Zappaterreni *Monte Celio di
Guidonia,*1913) e sul santino natalizio distribuito ai reparti in
armi della RSI: Angelo Scarpellini, “La RSI nelle lettere dei suoi
caduti”, Roma 1963, 62 sgg.
4.
Op. cit., pg. 18. – Il prete in
discorso è Ennio Innocenti che insegna dottrina sociale della Chiesa
al Centro di Teologia per Laici del Vicariato di Roma.
5.
Innocenti, cit., pg. 51.
6.
Op. cit., pgg. 49 e 43.
VERITAS
FILIA TEMPORIS,
NON AVCTORITATIS
La
verità è generata dal tempo non da chi comanda.
F.
Bacone.
III
– LA «VALIGIA»
Mussolini:
«l’uomo che ha pacificato il Paese restituendogli dignità e ruolo
di grande potenza mentre tutti tramavano per condurlo verso il
bolscevismo o verso il capitalismo massonico e clericale, il capo del
Governo, ossequioso delle leggi e dello Statuto che riconosce nel re
il capo dello Stato, che lo informa e ne riceve il consenso, che è
rispettoso delle istituzioni e della religione, di quello stesso re e
di quelle stesse istituzioni che invece lo tradiranno, lo metteranno
in galera, faranno trattative segrete con i nemici della patria…».
Fin qui ce n’è abbastanza da spellare vivo l’apologeta, in
ossequio alla morale democratica per la quale stendere morto un
fascista non è reato. Andiamoci piano, ché l’incauto, subito
dopo, tampona l’incandescente concetto con una sgargiante pezza
conformistica: «Mussolini, il capo della Repubblica Sociale
Italiana, ultimo baluardo contro il comunismo a difesa dei grandi
valori nazionali, ora fugge verso la Svizzera, solo, con un fascio di
do-cumenti sotto il braccio».
Il
testuale chiude uno studio di Gaetano Contini 1
che in prosa agile e seducente cerca di interpretare il giallo della
valigia che Mussolini aveva con se al momento dell’arresto; ma
l’acredine antifascista e il sudicio dazio pagato alla fable
convenue screditano lo studio che
sarebbe stato preziosa fonte in argomento. Già il sottotitolo – i
documenti segreti sull'ultima (?!?) fuga
del duce – e il brano sopra riferito che
chiude la ricostruzione obliterano la verità che emerge dalle carte
d’archivio. Per quanto parziale e strumentalizzata la
documentazione, avulsa dal contesto, è tale che l’antifascismo ne
esce svergognato e malconcio, privo di valori e insipiente, codardo e
criminale allo stato puro.
Nondimeno
il sopravvento della favola ci riporta al capolinea col riproporre la
fandonia del Dittatore fuggiasco, sotto il
cappottaccio della Wehrmacht, occhiali neri, inseparabile
valigetta a fianco, e altre bufale alle quali non crede più nessuno.
Si può essere antifascisti e, al tempo stesso, storiografi
equilibrati. De Felice pare averlo dimostrato, Contini no ed è
imperdonabile.
Imperdonabile,
sì, per inosservanza della norma deontologica impostagli
dall’incarico di Sovrintendente nell’Archivio Centrale dello
Stato. Mi è lecito affermarlo con il briciolo d’autorità che mi
deriva dall’essere stato reggente e poi direttore dell’Archivio
di Stato di Bolzano dal 1951 al 1970. Non vanto meriti, ma posso
dichiarare che nei lavori strettamente archivistici ho tenuto a bada
per quanto possibile la bestia nera della passionalità. 2
Di
passata accenno qui, inserendo un ricordo giovanile, che
nell’immediato dopoguerra l’Archivio Centrale dello Stato era
precariamente ospitato nell’ala sud-est del vecchio palazzaccio di
San Michele, sul Lungotevere dirimpetto all’Aventino, condiviso con
il carcere minorile. Il personale addettovi consisteva in due sole
unità: io – tornato di recente alquanto ammaccato dalla guerra
alla vita civile nell’infimo grado di aiutante aggiunto, e un
attempato custode in attesa di collocamento a riposo, in compagnia di
due gattoni forastici e di un imprecisato numero di roditori. Un alto
funzionario ministeriale venuto ad ispezionare la sede nel ’47
sospirò desolato: «Eccolo qua l’istituto archivistico più
importante d’Italia: chiuso in una sordida topaia alla mercé di
uno studentello fuori corso e di un inserviente che casca a pezzi».
Alcuni
anni dopo l’Archivio Centrale fu condecentemente sistemato
nell’attuale prestigiosa sede, uno dei più imponenti e razionali
edifici della fascistica E 42, e dotato di personale numeroso e
specializzato. Trasferito all’Archivio di Stato di Bolzano non ebbi
modo di visitarlo, ma immaginavo che fosse diretto da una cima.
Senonché, aperta la Valigia del sovrintendente Contini, alla prima
scorsa sono stato io ad esclamare a mia volta: «Ecco qua, in che
mani è andato a finire l’istituto archivistico più importante
d’Italia!».
1.
G. Contini, “La valigia di
Mussolini”, Milano (Mondadori) 1982, pg. 176.
2.
Presumo che la mia viscerale antipatia per il Bonaparte, di cui del
resto riconosco il genio militare e l’abilità politica, e ancor
più la istintiva repulsione per l’oste guerrigliero di Passiria,
Andreas Hofer, non abbiano inquinato il mio sudato studio su “I
documenti hoferiani” della Collezione Steiner, documenti che
d’altronde, per quanto riguarda l’epopea partigiana degl’insorti
antibavaresi del 1809, l’affogano nel ridicolo senza pretestuosi
appiccagnoli e orchestrazioni ideologiche.
Le
scritture hoferiane trattate (un’ottantina, più una miscellanea di
18 autografi e varia sulla rivolta del 1809) sono pubblicate in
regesto e in parte integralmente in “Archivio per l’Alto Adige”,
a. LIV (1960) e in appendice ad “Andreas Hofer, un eroe tradito”,
di A. Ragazzoni, Bolzano (CSA) 1984, pgg. 41 sgg.
IL
CALCIO DELL'ASINO
«L’Uomo
per il quale tanti vorrebbero volentieri morire, [...] l’Uomo che
aveva formato il pensiero di un’epoca nuova»,
[...] solo che attraversasse un viottolo, quel viottolo «aveva
ormai una storia: vi era passato il Duce».
Quando appariva in pubblico «gli
Italiani avrebbero ricordato tutta la vita quei minuti, tramandando
di generazione in generazione la memoria che si sarebbe velata a poco
a poco della mistica luce dei miti, poiché di queste cose si
facevano un tempo le leggende e le grandi canzoni».
Queste
ruffianaggini, evidenziate nel testo, e molte altre furono pubblicate
durante il Ventennio fascista da Luigi Barzini iunior, lo stesso
che dopo lo scempio di Piazzale Loreto, vilipese la memoria di
Mussolini vestendolo
da pagliaccio che nel circo agita le braccia e le gambe «come
fa un lottatore perché i vestiti gli si adattino meglio»
, [...] cercando di «celare
la sua irresolutezza
e la paura dietro la maschera del condottiero pronto a tutto».
Ferruccio Bravi
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