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venerdì 7 ottobre 2016

La strada in salita dell'Unità d'Italia - Maria Cipriano



E' davvero una strada in salita quella percorsa dall'Italia per raggiungere l'agognata Unità, dopo secoli e secoli di speranze, illusioni e sogni infranti sul duro cammino della Storia. E le difficoltà, le critiche, le insofferenze, nacquero in seno al Risorgimento stesso, con portavoce molti dei suoi stessi protagonisti, tanto da una parte che dall'altra. Detta così sembra una pura ovvietà, eppure al giorno d'oggi fior fiore di revisionisti – ben accetti solo quando scandagliano a fondo certi periodi storici e non altri – fanno a gara per aggiudicarsi un meschino primato: quello di gettar fango sulla propria Nazione. Peggio ancora trovano spazio e pubblico pronto ad accogliere acriticamente ogni loro parola, finanche nelle nostre Istituzioni, le quali dovrebbero bensì tutelare e promuovere un giusto amor di Patria. Per questo abbiamo deciso, grazie alla nostra puntuale e preziosa collaboratrice Maria Cipriano, di ricordare a tutti come il Risorgimento non nasce esente da critiche. Ma un conto è stato farle, ed oggi studiarle, all'interno di una visione unitaria, convinta della fondamentale bontà del progetto, un altro è cercare di far crollare tutto dalle fondamenta, sbraitando di non si sa quali paradisi perduti e sparando calunnie a raffica, mentre ci sommergono le macerie di una memoria già compromessa dall'indifferenza e dall'ingratitudine dei più.

Sandro Righini



LA STRADA IN SALITA
DELL'UNITA' D'ITALIA


fotogramma "Apoteosi", dal film muto "La presa di Roma" di Filoteo Alberini (1905)



Non pochi dell'eletta schiera dei Mille caddero a Calatafimi, come cadevano i nostri Padri di Roma, incalzando i nemici a ferro freddo, colpiti per davanti senza un lamento, senza un grido che non fosse quello di “Viva l'Italia!”.


G.Garibaldi - Memorie




Ai poveri ingenui i quali credono che la grancassa anti-risorgimentale che sta frastornando il popolo italiano sia opera inedita di solerti ricercatori odierni che abbiano improvvisamente discoperto in vergini e sepolti Archivi i risvolti misconosciuti di una storia sottaciuta, bisogna subito far sapere che questi risvolti furono ampiamente e liberamente espressi e dibattuti allora, mentre i fatti si svolgevano, e nessun particolare nascondimento, sotterfugio e mendacità venne adottata al fine di stravolgere le carte della Storia né da parte del governo di Torino né da parte dei vari protagonisti, grandi e piccoli, di quelle complesse vicende. Sulla sola vicenda di Pontelandolfo e Casalduni dell'agosto 1861 su cui in molti si stracciano le vesti oggi, si levò, allora, un tale clamore mediatico che infine non si riuscì a capire in modo chiaro come si fossero svolti veramente i fatti, oltremodo attorcigliati e coinvolgenti altri piccoli comuni limitrofi della provincia di Benevento, messa a soqquadro e devastata dai briganti al soldo dei Borboni in esilio: briganti che la maggioranza delle volte erano respinti coraggiosamente dalla popolazione in armi, come avvenne proprio in molti comuni del Beneventano, quali Morcone, Pesco Sannita, Cerreto Sannita, e molti altri. Morcone ricevette una menzione d'onore per l'eroica popolazione che accorse compatta al suono della campane con qualsiasi arma riuscisse a trovare onde impedire ai briganti l'assalto del paese. In questo clima di guerra guerreggiata, l'indignazione per le inqualificabili sevizie perpetrate a Casalduni contro i 43 militari italiani in perlustrazione di un esercito che la nazione sentiva come proprio, superò di gran lunga quella per la vendetta sui due paesi, vendetta che, al contrario di ciò che è propalato attualmente, fu considerata inevitabile e anche giusta. Ricordiamoci come reagì l'Italia ai 19 morti di Nassyria nell'anno 2003, e moltiplichiamo quell'indignazione e quel dolore per mille o diecimila, nell'ardente e ardimentosa Italia del Risorgimento. Non ci fu nessun occultamento, dunque: anzi le notizie volavano fin troppo, spesso rivelandosi gonfiate e distorte. La libertà di parola e di stampa ampiamente concessa dal Regno d'Italia a una nazione imbavagliata e compressa ch'era stata per lungo tempo uno stato di polizia, portò a un proliferare di giornali e giornaletti, perfino scandalistici e irriverenti, trovando modo di esternarsi non di rado in accuse gratuite e falsificazioni. Da qui lo spropositato numero delle vittime di Pontelandolfo e Casalduni, che, come ha detto qualcuno, “crescono a ogni conferenza”. C'è da chiarire che i due sfortunati paesi, al contrario di Morcone, erano stati espugnati dai briganti, e ciò segnò la loro sorte e li marchiò ancor prima che si consumasse l'efferato fatto di sangue contro i militari italiani. Un imprecisato numero di paesani era finito ucciso al momento dell'espugnazione, corredata da incendi, saccheggi e violenze, ma il polverone mediatico che scaturì dalla vendetta di Cialdini impedì di veder chiaro nell'intera vicenda, e lo stesso Cialdini, travolto dalla collera, non seppe valutare lucidamente gli antefatti, cadendo nella trappola tesa dai briganti stessi che sparirono poi sui monti lasciando nei guai gli abitanti, una minoranza dei quali soltanto li aveva veramente appoggiati. “Vergogna eterna a Casalduni!” si gridò da più parti. Ma non tutti gli abitanti di Casalduni avevano accolto i briganti e preso parte alla barbara uccisione dei militari italiani e allo scempio dei loro cadaveri fatti a brani, anche se la propaganda borbonica chiassosamente millantava la ribellione in blocco di ambo i paesi contro gli “usurpatori sabaudi”. Fu questa presunzione di responsabilità collettiva a condannare le due cittadine, le quali non furono comunque rase al suolo, com'è testimoniato dalla presenza di vari edifici medioevali tuttora esistenti, e i cui abitanti non furono affatto sterminati, com'è dimostrato dal censimento del dicembre 1861 e dall'elenco dei morti nelle fonti archivistiche locali.
Come si evince da questo solo fatto, il Risorgimento fin dall'inizio fu inquinato da calunnie, falsità, e e dal gusto della libera ciarla al vento che non risparmiava neanche i deputati del Parlamento.
Se si pensa che il padre di Massimo D'Azeglio, il pluriconservatore marchese Cesare Taparelli D'Azeglio, che coltivava idee ben diverse dai figli Massimo e Roberto al cui patriottismo si dovette rassegnare, diresse per anni una rivista che esaltava il potere temporale dei papi e la supremazia della Chiesa sullo Stato, e che Don Bosco inviò tranquillamente in faccia al Re le sue minacciose profezie di morte e di disgrazie per la Famiglia Reale, se ne deduce che prima, durante e dopo il Risorgimento, furono comodamente e liberamente scagliati tutti i ben noti strali che oggi gli scrittori revisionisti fanno passare per farina del proprio sacco dopo laboriose e indefesse ricerche che avrebbero intrapreso. Quale vero storico ignorava che personaggi come Giacinto De Sivo il quale inaugurò l'adagio del “pirata” Garibaldi che conquistò il Sud grazie alla camorra e ai criminali comuni, passarono la vita a infamare il Risorgimento e i suoi protagonisti? Quale storico serio non sapeva e non sa che il Risorgimento fin da principio venne funestato e perseguitato da un nutrito fronte di nemici? Forse la classe dirigente dell'ancien regime accettò di farsi togliere di mezzo senza reagire, senza un lamento? Il papa Pio IX definì il Regno d'Italia “la negazione di Dio”. L'Unità d'Italia fu tacciata a più riprese di essere “mostruosa”, “fittizia”, “diabolica”, “atea”, “sacrilega” e addirittura “anti-italiana”. Forse che il papa e i suoi accoliti potevano accettare di farsi sottrarre il potere temporale senza scagliare anatemi, scomuniche e maledizioni, e senza prima aver sparato fino all'ultima cartuccia? Tutta la Storia del Risorgimento è storia di una lotta senza quartiere contro il proprio opposto, portato avanti da personaggi anacronistici e in mala fede che facendosi scudo con la religione di Cristo, la legalità internazionale, la tradizione e altri paraventi, in realtà volevano difendere gli smaccati privilegi secolari di una situazione abnorme, e fino all'ultimo cercarono di far fallire l'Unità d'Italia anche dopo che questa fu realizzata, creando un'onda lunga che ha attraversato pericolosamente la storia del Regno giungendo fino ai giorni nostri, ove infine è “esplosa” nelle scomposte e ridicole diffamazioni che tutti conosciamo. Risalgono ad allora le ciance che parlano di un Risorgimento di pochi, anticattolico, antipopolare, ristretto a una elitaria cerchia liberal-massonica, privo della presenza dei contadini. Salvo poi spiegare la partecipazione di questi ultimi, le numerose volte in cui avvenne, e proprio nel mezzogiorno. Peraltro, la presupposizione che le rivolte anti-austriache dei contadini veneti siano state molto più contenute di quelle siciliane contro i Borboni, cozza contro la constatazione, ormai scontata per uno storico avveduto, che gli austriaci erano particolarmente abili a nascondere la realtà: si sa ben poco delle fucilazioni sommarie dei contadini veneti e friulani tagliati fuori dal mondo nel buio delle loro campagne percorse dalla sbirraglia austro-croata-ungherese assetata di violenze e lasciata libera di terrorizzare, perché gli austriaci sono sempre stati bravi a far credere che le popolazioni rurali fossero addirittura fedeli all'imperatore. Del resto, la lettura delle memorie del generale austriaco Karl Schonhals, la dice lunga sulla serafica impudenza con cui erano usi a falsificare la realtà anche di fronte a sé stessi. La stolta teoria della ristretta minoranza e dell'assenza dei contadini e del popolo è ampiamente smentita da molteplici fatti eclatanti, si pensi solo all'insurrezione di Bologna quando il popolo inferocito impedì che il podestà Bianchetti si consegnasse come ostaggio agli austriaci, cacciandoli dalla città; anzi, la rabbia per le sollevazioni cittadine portava le truppe a scaricarsi violentemente sulle campagne, dove agivano cellule di fiancheggiatori e vere e proprie reti di solidarietà e soccorso ai patrioti fuggitivi. Garibaldi stesso si salvò sempre grazie ad esse. Il leggendario assedio della gola del Furlo nelle Marche da parte degli austriaci, ove 700 prodi della Repubblica Romana al comando dell'eroico colonnello romano Luigi Pianciani (che poi sarà il primo sindaco di Roma del Regno d'Italia) e di Ugo Forbes (un nobiluomo inglese diventato garibaldino e sposato a un'italiana) sostennero per circa un mese l'infuriato urto del nemico, non sarebbe neanche potuto avvenire senza l'appoggio logistico e morale delle popolazioni circostanti, pronte a pagarne il prezzo in saccheggi, rapine, stupri e fucilazioni sommarie. Oggi qualcuno deride quei fatti, dicendo che la gente non diede alcun appoggio e gli austriaci trovarono la strada libera. Ma l'incattivito proclama alla popolazione emanato dal conte austriaco Von Stadion il 4 agosto 1849 da S. Angelo in Vado (che dista dal Furlo 33 Km.), dimostra l'esatto contrario.
Non altrimenti sarebbe arduo spiegare la partecipazione al Risorgimento dei cattolici in abito talare i quali vantarono, fra le migliaia e migliaia di religiosi, personaggi come l'abate Antonio Stoppani, che durante le eroiche cinque giornate di Milano infaticabile incitatore di patriottismo, ideò le famose mongolfiere che servirono a dare ai contadini il segnale della rivolta nelle campagne. Autore di un famoso libro inneggiante alle glorie, alle bellezze e ai primati d'Italia, “il Bel Paese”, dal quale l'industriale Galbani avrebbe tratto il nome del suo celebre formaggio, lo Stoppani non fu che uno degli innumerevoli preti-patrioti che con la loro opera instancabile dettero il più grande lustro al nostro Risorgimento.
Dunque, ben prima che Antonio Gramsci facesse propria l'idea dell'estraneità dei contadini e della maggioranza del popolo italiano al Risorgimento perché così tornava comodo al comunismo che doveva presentarsi quale esclusivo paladino delle masse popolari, questa fola era già stata propalata dalla Chiesa e dai Borboni, e valeva quanto valeva quella degli austriaci che minimizzavano la partecipazione dei trentini, dei triestini e degli istriani, cercando di ridurre di fronte al mondo la portata del Risorgimento che stava facendo tremare i capisaldi dell'Impero asburgico e turbava i sonni dell'imperatore. Anche quando si ritrovarono sulla testa l'olio bollente gettato dalle finestre degli Istriani inferociti, anche quando i Triestini scesero nelle strade inneggiando alla presa di Roma e facendosi sparare addosso, anche quando il Tricolore cominciò ad apparire nei posti più impensati, arrivando a sventolare dal balcone del Municipio del capoluogo giuliano, gli austriaci continuarono a sminuire l'entità del Risorgimento. Una delle frecce più acuminate e avvelenate dell'anti-Risorgimento fu infatti quella di non dargli importanza, imputandolo a esigui gruppi minoritari, diretti da una fantomatica regia massonica ubicata all'estero. E doveva trattarsi di una regia che aveva forti propaggini fino in Dalmazia, ove fu certamente per ordine dei massoni che l'arcivescovo di Zara Giuseppe Godeassi, pur malfermo in salute, intraprese un faticoso viaggio fino a Vienna (dopo il quale morì) onde affermare l'italianità di quella regione contro le pretese slave e le manovre austriache.
Da parte sua l'ineffabile Gramsci, che certo non era uno storico, poté declamare acriticamente, senza fornire un solo dato statistico credibile, l'incredibile solfa vaneggiante che: “lo Stato Italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e ha crocifisso, squartato, fucilato, seppellito vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentavano infamare con il marchio di briganti.”. Proprio lui che sosteneva una dittatura massacratrice qual'era quella di Stalin il quale per davvero sterminò un imprecisato numero di milioni di suoi connazionali, s'inventò per il Regno d'Italia accuse peggiori dei borbonici più accesi e dei cattolici più intransigenti i quali vennero in uggia perfino al Papa: Leone XIII, succeduto a Pio IX, finì infatti per stancarsi degli slanci estremisti della ben nota rivista “Civiltà cattolica” proprio perché non risultavano credibili e venivano puntualmente rintuzzati. E, del resto, il milione di morti meridionali fatti passare per veri la dice lunga sui seri metodi storiografici adottati da questi spavaldi denigratori. D'altra parte non si capisce come in simili condizioni il Regno d'Italia avrebbe potuto tranquillamente fare, come fece, il censimento nel dicembre 1861 (quindi nel pieno dei presunti massacri), censimento che come tutti sanno è operazione assai lunga e complessa, e richiede l'attiva collaborazione della popolazione, che fu elogiata dalle autorità proprio per questo.
Dopo Gramsci, tutta l'”intellighenzia” di sinistra che forse non aveva letto un solo articolo della legge Pica contro il brigantaggio, la camorra e la protomafia (una brevissima legge di soli 7 articoli e altre norme correlate dove non c'era nulla di mostruoso, ma temporanei provvedimenti d'emergenza), continuò a sparare basso contro il Risorgimento. Lo scrittore Carlo Levi, confinato dal Fascismo a Eboli in provincia di Salerno, descrisse nel suo celebre libro “Cristo si è fermato a Eboli” un mondo contadino a detta sua amorfo e passivo, tradito dal Regno d'Italia, che solo il socialismo e l'antifascismo avrebbe potuto salvare. Ma questo mondo votò compatto per il Regno d'Italia nel 1946.
Il marxista Franco Molfese, vicedirettore della Biblioteca della Camera dei deputati, nel 1966 pubblicò un libro sul brigantaggio, presentandolo come lotta sociale dei contadini meridionali traditi da Garibaldi e dai Savoia. Salvo poi esimersi dal dimostrare l'indimostrabile, e cioè in che modo i presunti contadini avrebbero ottenuto da Francesco II e dal Papa le terre che chiedevano o altre rivendicazioni sociali, e perché mai le stesse lotte non avvenivano nelle Marche, in Umbria, nel Lazio, in Toscana, etc. Lì erano tutti felici e contenti?
I fatti, che sono la Storia, ci dicono invece che fu dai moti legittimisti per la restaurazione dei Borboni diretti dai comitati borbonici clandestini, guidati da preti fanatici, militari borbonici sbandati e nobili possidenti nostalgici, che si passò nel giro di poco al brigantaggio (che dunque nasce esattamente da quelli), e non per rivendicare alcunché di sociale che avesse a che fare con la lotta di classe vagheggiata dal Molfese (i briganti taglieggiavano, rapinavano e sequestravano chiunque, anche i poveri parroci di campagna, e, anziché rivendicare diritti, calpestavano quelli altrui accumulando tesori e fregiandosi di titoli altisonanti), ma semplicemente perché i moti legittimisti non si dimostrarono abbastanza numerosi né abbastanza organizzati né così spontanei come si voleva far credere, tant'è che nel giro di poco si sgonfiarono (a Isernia un appassionato discorso di Garibaldi in mezzo alla folla placò infine gli animi dei popolani più ostili), lasciando il posto alla guerriglia criminale brigantesca che, finanziata e diretta da Roma ove Francesco II si era rifugiato presso il Papa, terrorizzò, devastò e funestò quelle contrade col preciso e unico intento d'impedire lo stabilizzarsi di un governo regolare e rendere la vita impossibile al Regno d'Italia. Le acrobazie del Molfese per dare a tutto ciò la dignità di una rivolta sociale dei contadini in lotta contro i proprietari, la quale sarebbe all'origine delle leggi liberticide e repressive del Regno d'Italia, sono, per l'appunto, acrobazie ideologiche che nulla hanno a che fare con la Storia, tant'è che se ne convinse infine anche lui, rivedendo il suo giudizio sul brigantaggio e concludendo che aveva sbagliato a definirlo una lotta di classe. Tra le rivolte contadine per l'occupazione delle terre che si verificarono soprattutto in Sicilia, e i moti legittimisti filoborbonici e il brigantaggio anti-unitario conseguente, non esiste un rapporto di causa-effetto.
Come si sa, solo negli ultimissimi anni la sinistra si è improvvisamente convertita al Risorgimento con un'opera di rivalutazione e recupero delle sue memorie. Quali le ragioni di questa “folgorazione”? Fatta salva la tardiva resipiscenza in buona fede di singole persone dell'ex area comunista per le quali il Risorgimento è stato una felice scoperta, c'è da dire che la presa di posizione ufficiale della sinistra è andata di pari passo con le iniziative patriottiche del presidente Ciampi (che rivestì la carica dal 1999 al 2006), saltate fuori, però, proprio quando si stava dando mano alla mondializzazione forzata dell'Italia richiesta dai poteri forti sovranazionali. Il Risorgimento sembra dunque esser stato rispolverato, in sacra unione con la Resistenza con cui in verità ha poco da spartire, per opportunità politica: cioè per attutire, mascherare, sviare, e in qualche modo compensare la “svendita” della sovranità nazionale che, iniziata allora, è andata avanti speditamente fino ai giorni nostri e tuttora è in via di esecuzione. Non a caso si tratta di una riscoperta piuttosto fragile e contrastata, dal momento che le balle anti-risorgimentali mai come ora sono riapparse all'orizzonte, e, quel che è peggio, vengono credute e fatte passare per vere anche grazie a indiscutibili apporti mediatici di televisioni, giornali, case editrici, giornalisti, e, perfino, gente di spettacolo e delle istituzioni soprattutto locali. Cucinate per una platea di bocca buona che crede a tutto ciò che le viene raccontato nella fluorescenza mediatica, hanno così ripreso magicamente forma e vita le grossolane accuse delle “piastre d'oro turche” che Garibaldi avrebbe intascato dalla Massoneria inglese (o internazionale o scozzese o canadese o americana, dipende dall'estro degli scriventi), piastre d'oro che non esistevano nemmeno (esistevano le piastre d'argento), e, anche fossero esistite, avrebbero potuto essere spese solo in transazioni commerciali con la Turchia, cioè con l'impero ottomano, la cui moneta era tutt'altro che ambita. Poiché, more solito, le fonti della maldicenza anti-risorgimentale non sanno spiegare né provare adeguatamente le accuse, si limitano a starnazzare che le “piastre d'oro” sarebbero servite a Garibaldi per corrompere gli alti ufficiali dell'esercito nemico affinché non combattessero, a testimonianza di quale fosse la considerazione in cui venivano tenuti dai cantori di Francesco II allora e, oggi, dai loro discendenti. Non varrebbe la pena perder tempo dietro a queste sciocchezze, a smentire le quali basta il fatto che i borbonici, al netto delle spontanee e prevedibili diserzioni che colpirono l'esercito napoletano ancor prima dello sbarco di Garibaldi, combatterono invece fino all'ultimo, fanaticamente asserragliati nelle fortezze di Gaeta, Castellammare, Messina, Capua e Civitella del Tronto, non solo, ma perfino la logica temporale ci dice che Garibaldi non avrebbe potuto contattare o far contattare gli alti ufficiali nemici nel breve lasso di tempo da quando, nell'aprile del 1860, decise l'impresa dei Mille (verso cui era titubante, bisogna ricordare) a quando i borbonici fuoriuscirono da Palermo nel giugno dello stesso anno, “senza combattere”, com'è stato insulsamente detto da qualcuno (stavano infatti distruggendo l'intera città con tutti gli abitanti e i monumenti). Non solo: ma risulta ridicolo che il nostro Eroe si portasse dietro i soldi della corruzione da usare una volta sbarcato, quando non si sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a sbarcare. Logica vuole che la corruzione fosse stata messa in atto prima, dai “servizi segreti” sabaudi pilotati da Cavour, ma ciò contrasta con una tal congerie di fatti da rendere improponibile questa tesi. Cavour non era uomo da agire avventatamente, e sarebbe stato un rischio investire in anticipo fior di quattrini in un'impresa dai dubbi risvolti, stante l'assenza totale di garanzie da ambo le parti, che ben poco si conoscevano. Chi poteva assicurare i piemontesi che i capi borbonici avrebbero obbedito? E, per converso, chi poteva assicurare i capi borbonici che i piemontesi avrebbero pagato? In ogni caso Cavour mai avrebbe dato i soldi della corruzione in mano a Garibaldi, perché questi li avrebbe spesi certamente per tutt'altro. Figuriamoci se veniva incaricato l'eroe in camicia rossa di simili missioni!
Andando dunque a scavare in questa mirabolante fandonia, si scopre che essa fu partorita nel 1862 da quella fucina inesauribile di calunnie anti-risorgimentali che era la rivista gesuita “Civiltà cattolica”. Incurante che le bugie portano dritti all'inferno, la rivista la mutuò a scoppio ritardato da una fonte anonima austriaca del 1860 (“Gli avvenimenti d'Italia del 1860 Cronache politico-militari dall'occupazione della Sicilia in poi” ed. Cecchini-Venezia), che accennava in modo vago a tre milioni di franchi francesi cambiati in oro in una banca di Genova alla vigilia della partenza dei Mille. Come si evince da questi particolari, la maldestra fonte austriaca cercava di accusare francesi e piemontesi (da qui l'accenno alla Banca di Genova) a causa dei quali l'Austria aveva perduto la 2a guerra d'indipendenza un anno prima, di essere i mandanti e i finanziatori dell'impresa di Garibaldi, mentre lo Stato Pontificio, non potendo accusare i francesi da cui era protetto, guardandosi bene dall'irritare il suscettibile imperatore Napoleone III e la sua cattolicissima moglie spagnola, dirottò l'accusa sui massoni inglesi (o presbiteriani scozzesi), fantasmi buoni per tutte le stagioni e verosimilmente molto larghi di manica nell'elargire in giro grosse somme di danaro.
In verità, stando alle informazioni di Vittorio Vecchi, figlio di quel Candido Vecchi che fu grande amico di Garibaldi e partì coi Mille da Quarto (i Vecchi erano proprietari di quella Villa Spinola prospiciente il mare nella quale si radunò parte dei Mille prima della partenza), nella cassa dei Garibaldini c'erano 1800 napoleoni d'oro, che è come dire 450.000 euro in moneta francese: troppo poco per corrompere gli alti ufficiali borbonici. La moneta francese non significa poi che si trattasse di un finanziamento del governo francese (che era all'oscuro dell'impresa), ma semplicemente che si trattava di danaro chiesto a qualche Banca francese, non potendosi per ovvi motivi rivolgersi alle banche piemontesi, non appoggiando il Piemonte ufficialmente l'impresa dei Mille. Ciò permise anche di disporre di una moneta molto richiesta (a quel tempo la Borsa di Parigi era la più importante del mondo), che poteva essere scambiata anche in un Regno come quello delle Due Sicilie ove le monete d'oro non avevano corso legale. Non potendo accusare i francesi, garanti dell'incolumità di Roma papale, e dovendo in qualche modo spiegare l'oro di cui parlava la fonte austriaca, i clericali di Civiltà cattolica pensarono alle lire d'oro turche - circolanti nell'impero ottomano - chiamandole volgarmente “piastre”, un termine usato talvolta come sinonimo di moneta in senso generico.
Dunque, i moderni detrattori del Risorgimento non avendo scoperto un emerito nulla (i famosi documenti dei finanziamenti massonici a Garibaldi sbandierati da uno studioso che nel lontano 1988 affermò di averli trovati a Edimburgo beato chi li ha visti), continuano a declamare questo nulla come fosse la verità, favoriti dal fatto che il Risorgimento, proprio perché materia per specialisti, quando viene strapazzato dalla smania di sfatare una presunta “vulgata”, rischia di diventare una barzelletta, e dunque la balla delle piastre d'oro turche vale quanto quella di Mussolini che nell'aprile del 1945 s'allontanò da Milano a bordo di una spider rossa sparando sulla folla.
Nel loro mondo pieno di contraddizioni, i fantasisti dell'anti-Risorgimento, ognuno a proprio estro, estraggono dal cappello a cilindro di volta in volta quelle che secondo loro sono le prove inconfutabili dell'inconsistenza e malignità del medesimo, come i Diari privati politici-militari dell'ex ammiraglio Persano conte di Pellion, pubblicati a più riprese dal 1869 in poi. Ammesso e non concesso che questi Diari possano essere usati come arma contro il Risorgimento, possiamo immaginare lo stato d'animo dell'ex ammiraglio Persano dopo essere stato degradato, radiato dalla Marina e privato anche della pensione a seguito della sconfitta navale di Lissa contro gli austriaci nel 1866. Immaginiamo quale ineccepibile valore storico potrebbe avere lo sfogo di un uomo travolto dalla collera, che dalle stelle fu precipitato alle stalle. L'Unità d'Italia che era cominciata per lui con i migliori auspici fin dalla 1a guerra d'indipendenza, e poi durante tutto il corso dell'impresa dei Mille fino alla capitolazione di Ancona, fra gli unanimi elogi, le decorazioni, l'apprezzamento anche dei colleghi borbonici, le sue capacità diplomatiche e militari, il suo cattivarsi persino la stima di Garibaldi, naufragava pochi anni dopo nella disgrazia di una sconfitta militare che il Re, il Governo, la classe intellettuale e la nazione non gli perdonavano. Anche gli affetti domestici gli vennero a mancare nel giro di pochi anni, in quanto la moglie e il figlio (pure lui ufficiale di Marina) gli premorirono. L'amarezza, il dolore, la solitudine, la miseria, cui recava conforto solo il buon Re Vittorio in via del tutto riservata, non furono certo leniti da alcune polemiche che i Diari sollevarono, chiamando in causa fatti e persone. Per questo ogni storico sa che i Diari, come le Lettere, come i racconti riferiti da terzi, sono fonti da valutare con cautela, storicamente claudicanti, che da soli non possono costituire prova esauriente di nessun fatto storico, e spesso sollevano solo polveroni. Inutile poi che si faccia dire a questi Diari più di quel che vogliono dire, forzandone alcune parti, tacendone altre e scollegando i fatti tra loro. I tanto sbandierati “soldi della corruzione” dati da Cavour all'ammiraglio Persano inviato in missione a Napoli nell'agosto del 1860, prima dell'arrivo di Garibaldi, dovevano servire a finanziare una sollevazione filosabauda in città che facesse da contrappeso all'entusiasmo generale che aveva invaso il meridione per l'eroe dei due mondi, dove i garibaldini in Calabria ormai avanzavano quasi senza combattere. Sollevazione che, incoraggiata soprattutto dai vertici della Marina borbonica che ad essa intendevano condizionare il pronunciamento ufficiale a favore di Vittorio Emanuele, fu ritenuta invece dal saggio e avveduto marchese di Villamarina (ambasciatore del Regno di Sardegna nel Regno di Napoli) inutile, controproducente e rischiosa per la presenza ancora in città del Re Francesco II e delle truppe a lui fedeli, e quindi abbandonata quando ormai era stata approntata dai suoi solerti organizzatori, tra cui primeggiava l'impaziente Nicola Nisco di Benevento. I fatti diedero ragione al marchese. Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli a settembre senza sparare un colpo, dopo che Francesco II se n'era andato, e fu così evitato un bagno di sangue alla città. A questo proposito, i liberali napoletani, capeggiati da Antonio Ranieri, indirizzarono al marchese di Villamarina un caloroso attestato di gratitudine per la preziosa opera svolta in quella fase così delicata.
Sull'onda dello stesso filo, è da valutare un altro cavallo di battaglia lanciato al galoppo dagli aedi anti-risorgimentali nelle loro cantilene: le “letteracce contro Garibaldi” che Giuseppe La Farina, inviato semi-segreto di Cavour in Sicilia durante l'impresa dei Mille, spedì al medesimo. Pubblicate successivamente a puntate, con chiari intendimenti politici, sul giornale torinese l'”Opinione”, onde smorzare i travolgenti entusiasmi per l'Eroe che potevano vanificare i piani moderati di Cavour con grave danno per tutta l'impresa della riunificazione, queste lettere sciorinavano una serie di accuse che nelle intenzioni dello scrivente e del suo mandante dovevano gettare sospetti e discredito sulla dittatura isolana dell'Eroe in modo da affrettare il più possibile l'annessione al Piemonte, di cui l'ex mazziniano La Farina era diventato strenuo assertore (da tempo lui e Cavour cooperavano in una strategia comune). Come si sa, qualcuno si è buttato a corpo morto su queste lettere scrivendoci sopra la diffamazione dell'impresa dei Mille. Poteva risparmiarsi la fatica! Tanto più che, come si è detto, l'epistolario in sé non è a priori una fonte documentale attendibilissima proprio per lo stato d'animo soggettivo, emotivo e transitorio da cui facilmente è animato qualsiasi scrivente, figuriamoci il La Farina, le cui lettere non sono difficili da interpretare per uno storico: egli non poteva certo elogiare il modo di governare di Garibaldi in Sicilia, il mescolamento delle classi sociali, l'abbozzo di “democrazia popolare”, i “cittadini armati autogestiti”, l' “assoldare i bambini abbandonati dagli 8 ai 15 anni a tre tarì al giorno” per farli sentire socialmente utili, il suo “liberare dalle carceri molti detenuti”, il suo accogliere, perdonare e remunerare un po' tutti, anche i borbonici pentiti, il suo distribuire danaro a destra e a manca con quello spirito generoso della “Comune” che gli era congeniale e, in piccolo, avrebbe replicato nell'isola di Caprera con la “comunità garibaldina”, destando l'ammirazione dell'anarchico Bakunin. Ovvio che il La Farina considerava tutto ciò anarchia, disordine, velleitarismo, improvvisazione, sperpero di pubblico danaro e infrazione delle leggi. Ovvio che aveva raccolto le proteste di coloro che, anche con ragione, vedevano nel popolo straccione, analfabeta e potenzialmente violento assoldato da Garibaldi un immane pericolo e desideravano il ritorno alla normalità. Ma pretendere da un uomo come Garibaldi, che quel popolo bistrattato amava e da cui era riamato, l'instaurazione di una puntigliosa amministrazione con uffici e scrivanie, era come pretendere la luna del pozzo. E Cavour, che in fin dei conti conosceva le buone intenzioni e la lealtà dell'eroe, nonché le circostanze eccezionali in cui si trovava a operare, si servì delle lettere del La Farina solo per portare acqua alla sua politica: e infatti, opportunamente sfrondate dei particolari più estremisti cui nessuno avrebbe prestato fede, solo per questo le fece pubblicare.
In un evento di portata gigantesca qual è stato il nostro Risorgimento sarebbe del resto impossibile non trovare scontri politici, rivalità, divergenze, antipatie personali, ed anzi, tutto considerato, ce ne furono molto poche. Guai se gli storici si lasciassero fuorviare in modo acritico dai documenti senza adeguatamente analizzarli. E dunque, anche le invettive epistolari del La Farina, illustre patriota siciliano che per l'Italia aveva patito esilio, rovina economica, incarcerazione del padre e del fratello tredicenne, condanna dei cognati a 24 anni di lavori forzati, e tanto aveva contribuito all'impresa dei Mille, non vanno prese alla lettera ma giudicate tenendo conto del clima di fortissimo coinvolgimento emotivo di tutti i protagonisti del Risorgimento, ognuno dei quali era ansioso di agire per l'Italia, e di poterlo fare meglio di un altro. Con lo stesso metro, per fare un esempio, vanno considerate le pungigliose acredini del patriota toscano Francesco Domenico Guerrazzi il quale trovò da ridire perfino sugli arredi dello studio del conte di Cavour durante una visita, la cacciata e addirittura l'arresto dei patrioti mazziniani a Venezia decretato da Daniele Manin per non contrastare la politica del Piemonte cui la maggioranza dei patrioti Veneti aveva fatto adesione, alcune frasi infelici del generale La Marmora che suscitarono l'ira dei Triestini e degli Istriani, e decine d'altri episodi di contrasti e incomprensioni, da giudicare nel clima convulso degli intensi accadimenti che precedettero e seguirono l'Unità d'Italia, a cui tutti i patrioti anelavano dare il proprio contributo, talvolta esagerando o sbagliando. Basta soffermarsi sopra una soltanto delle impulsive accuse rivolte dal La Farina al governo dittatoriale di Garibaldi in Sicilia, per accorgersi di quanto le falsità ed esagerazioni sparse da lui a piene mani gli sono perdonate solo perché giustificate da un esacerbato stato d'animo personale, unito alle difficili circostanze oggettive in cui Garibaldi si trovava a operare, con la guerra ancora in corso e migliaia di problemi da risolvere, il che faceva sì che le cose fossero tutt'altro che perfette come pretendeva il La Farina: il quale tace sulle molte provvidenze attuate da Garibaldi per i poveri, sui suoi Decreti, addirittura accusando l'illustre medico cremonese Pietro Antonio Ripari, aggregato all'impresa dei Mille, il cui curriculum patriottico era lungo come un treno, di voler dare fuoco alla biblioteca del Collegio dei Gesuiti di Palermo, il che è la più manifesta delle fandonie che potesse cucire. Chiaramente egli vedeva i garibaldini come un pericolo per la tenuta dell'intero progetto unitario, temeva il loro radicarsi sul suolo siciliano, il loro sganciarsi dall'asse con Torino, il loro prendere strade anarchiche indipendenti dal patto con la Monarchia sabauda. L'amore delle folle per Garibaldi, i gran festeggiamenti per le strade di Palermo al suono di più bande musicali dopo la partenza dei borbonici (il La Farina trovò da ridire anche su queste), l'allegrezza generale, tutto indisponeva il novello “Catone censore” che avrebbe voluto riportare l'ordine e la razionalità. Fu invece congedato in malo modo da Garibaldi, il quale tra l'altro non gli perdonava di aver sostenuto Cavour nella dolorosa cessione di Nizza e la Savoia, e fin da subito gli fece capire che gli preferiva Crispi. Ma il buon medico Ripari, che nonostante l'età si prodigava incessantemente per i feriti e i malati, concedendosi solo poche ore di precario riposo, non dette fuoco proprio a nulla. I Gesuiti furono sì espulsi dal Collegio perché questo fu trasformato in un ospedale, ma tutti i volumi, pergamene e codici minati sono arrivati sani e salvi fino ai giorni nostri, così come il Collegio medesimo, che a tutt'oggi ognuno potrà ammirare nel suo elegantissimo chiostro e facciata barocca, come uno dei tanti pregevoli palazzi del capoluogo siciliano.
Del resto il La Farina continuò a inviare lettere maldicenti anche da Napoli, prendendo a bersaglio Luigi Carlo Farini, l'illustre medico romagnolo nominato il 6 novembre 1860 luogotenente generale delle provincie napoletane, in una città dove folle di questuanti si ammassavano giornalmente a chiedere al nuovo governo ciò che i regnanti borbonici mai si erano sognati di dar loro, portando all'esasperazione chiunque ne fosse investito. Poiché il Farini tardava a ricevere coi dovuti omaggi lui e Pietro Cordero di Montezemolo (nominato luogotenente generale del Re in Sicilia), ciò fu sufficiente a spazientire il La Farina, la cui delusione nel sentirsi messo da parte traspare in modo inequivocabile dalle lettere, nelle quali tende a ingigantire le situazioni, deformandole in buona o mala fede, in modo da convincere il Cavour a prendere provvedimenti non si capisce per quali colpe anche del povero Farini.
Come si vede, il clima in cui avvenne il nostro Risorgimento non poteva essere disteso, placido e tranquillo, ma, al contrario, fu teso, travagliato, talvolta esasperato da difficoltà oggettive e risentimenti personali. Di conseguenza, le asseverazioni dei vari revisionisti odierni secondo cui c'è “un Risorgimento da riscrivere”, o una “controstoria dell'Unità d'Italia” da raccontare, o “panni sporchi dei Mille” da stendere al sole, e così via, in un monocorde rosario di inaccettabili accuse, tracciano un quadro che, lungi dall'essere approfondito e ragionato, è semplicemente alterato, rivoltato e adattato alle discutibili opinioni e agli acri sentimenti personali dei vari autori e delle loro fonti. Giustamente ha osservato il professor Bartolo Cannistrà che in tal modo si opera un “ribaltamento asimmetrico delle fonti”, usando cioè unilateralmente le fonti borboniche più estremiste, le quali “presentano come dati oggettivi quelli che sono giudizi soggettivi, mettendo in campo forzature, bizzarri equivoci, vistosi errori e addirittura dati di pura invenzione.”
E proprio esaminando con sguardo critico le fonti dalle quali i novelli corifei della “malaunità” traggono le loro pontificazioni, vi è la riprova che gli insulti e le contumelie di cui si riempiono la bocca, furono ampiamente esternate da coloro che li precedettero, con una noncuranza, una faccia tosta, una superficialità, un qualunquismo e un livore che risultano perfettamente spiegabili riferiti ai personaggi di allora, alle loro segrete mire del momento, ai loro personali stati d'animo, nonché all'ignoranza, alla confusione, e, più in generale, al turbolento frangente storico di passaggio cui si riferivano. Se perfino Garibaldi, travolto dalla collera e da pulsioni emotive soggettivamente scusabili, scrisse nel 1872 il polemico libro “i Mille”, in cui scagliava accuse contro tutti –e della cui esagerazione poi si pentì- ; se perfino lui talvolta si lasciò andare a sfoghi più o meno incontrollati (la famosa lettera di disillusioni scritta di getto ad Adelaide Cairoli, madre dei cinque eroici fratelli di Pavia, quattro dei quali morti per l'Italia, tirata in ballo in quasi tutti i discorsi revisionisti), si ha l'idea di quanto fosse surriscaldato il clima, di quali e quante difficoltà si presentassero alla novella Italia, di quanti falchi, avvoltoi e spargitori di zizzania di già la sorvolassero, ansiosi di gettarsi su nuove carcasse da spolpare. Che le “sassate” che l'Eroe avrebbe dovuto prendere dai meridionali fossero solo il parto di un suo forte abbattimento del momento, lo dimostra il fatto che nel 1882, pochi mesi prima di morire, egli si recò proprio a Napoli e in Sicilia per il suo ultimo viaggio, dove venne accolto con grandissimo affetto e commozione da tutta la popolazione, che già durante la tratta ferroviaria da Napoli in giù si affollò sui binari chiamandolo a gran voce, e il cui entusiasmo fu rattenuto solo dal constatare le precarissime condizioni di salute in cui versava quell'uomo un tempo gagliardo e forte, e che ora veniva spinto amorevolmente dal figlio Menotti su di una sedia a rotelle.
Chi pensa perciò di trarre dal rovente e appassionato clima di allora frecce al proprio arco di accuse, compie un marchiano errore di valutazione, in quanto, fino a quando le critiche, le rimostranze e i diverbi rimasero entro l'aurea cornice dei supremi ideali del Risorgimento dalla maggioranza condivisi, nessun danno, ma anzi sprone a far meglio ne venne per l'Italia. Viceversa, quando, approfittando della libertà di stampa e di parola a tutti concessa, i nemici del Risorgimento come sciacalli s'avventarono sulle difficoltà come su altrettanti appigli cui attaccarsi nella sconfitta, al Risorgimento ne venne un danno, scientemente perpetrato al fine di lederne l'immagine e la reputazione, sminuirne la gloria, inquinarne la purezza.
Un esempio significativo di quanto fosse facile in quel contesto dare addosso all'Unità d'Italia, è la mozione d'inchiesta presentata in Parlamento dal Duca di Maddaloni, Francesco Proto Carafa, il 20 novembre 1861, solitamente esibita come una delle prove del disastro che l'”invasione garibaldina e sabauda” avrebbe causato nel meridione, e invece, esaminando a mente fredda, è soltanto la riprova di quanto fosse facile inventarsi le accuse, esagerare gli accadimenti, soffiare sulle braci, e, soprattutto, prevedere il ritorno di Francesco II grazie a un intervento armato dell'Europa che aleggiava nell'aria, regolandosi di conseguenza, come appunto fece il Duca di Maddaloni. In quegli anni, infatti, voci insistenti di illusi e agenti provocatori davano per certo il ritorno dello spodestato sovrano che sperò fino all'ultimo nell'aiuto delle potenze europee, nonostante questo aiuto si fosse già volatilizzato nell'autunno del 1860 con il convegno di Varsavia, finito in una bolla di sapone. I tardivi quanto convulsi tentativi di Francesco II di correre ai ripari di fronte all'avanzata di Garibaldi, proponendo a Torino la confederazione dei due Stati, concedendo la Costituzione, adottando il Tricolore e chiamando i liberali al governo, non influirono più di tanto sulle operazioni militari che continuarono fino allo stremo nonostante defezioni e diserzioni nell'esercito borbonico, ridotto al Volturno alla metà dei suoi effettivi, il che non impedì ai Borbonici di resistere fino all'ultimo sul campo di battaglia, lasciando dipoi al novello Regno un'eredità pesante da gestire, aggravata da anni di brigantaggio, assoldato col preciso scopo d'impedire lo stabilizzarsi del nuovo governo.
Fu dunque un clima inevitabilmente sofferto quello che accompagnò e seguì la riunificazione d'Italia, in cui, di fronte all'entusiasmo e alla partecipazione popolare che avevano animato e continuavano ad animare il Risorgimento che proprio nel Sud aveva trovato tante forze propulsive, si ergevano i madornali problemi del presente, come sempre avviene nei casi di rovesciamento di potere e più ancora quando non si elimina radicalmente la classe dirigente precedente: che questa ovviamente reagisce, e, pur vinta, continua a tramare con le restanti forze che le rimangono. Forze che certo non mancavano ai borbonici, se nel suo trinceramento a Gaeta, Francesco II fu accompagnato dai rappresentanti di tre potenze europee che ancora potevano aiutarlo (l'Austria, la Russia, la Prussia) mentre altri governi comunque lo appoggiavano, e l'ambigua politica della Francia che piazzò le navi nel golfo di Gaeta non certo per aiutare i piemontesi, nonché il cinico pragmatismo dell'Inghilterra, non gli facevano perdere le speranze. Proprio Henry Elliott, ambasciatore del Regno Unito nel Regno delle due Sicilie, se pure non si era presentato alla mesta cerimonia di commiato del Re da palazzo Reale, cambiò tosto atteggiamento, interprete dei contingenti interessi dell'Inghilterra che mutavano in base al mutare delle circostanze. La forza del novello Stato italiano che si dimostrava deciso a difendere la propria integrità, mettendo in campo un esercito agguerrito e motivato, composto di elementi di varia provenienza regionale che si credeva disuniti e invece Torino mostrava di saper unire, cominciò a preoccupare l'Inghilterra, la quale per tutto il corso del Risorgimento aveva palesato altalenanti atteggiamenti, a seconda dei propri interessi in gioco. Già durante la permanenza di Garibaldi in Sicilia, l'ammiraglio George Mundy incaricato dalla Regina Vittoria di sorvegliare l'eroe a cui tutta l'ala conservatrice inglese era alquanto ostile, non mosse un dito per aiutare l'impresa dei Mille, neanche quando Garibaldi rimase senza polvere da sparo e senza munizioni a Palermo, trovandosi in serie difficoltà sotto le bombe dei borbonici che tiravano senza risparmio dal forte di Castellammare, intenzionati a distruggere la città. Al momento della concordata tregua, ebbe la faccia tosta di chiedere a Garibaldi di consegnare all'Inghilterra il forte di Castellammare, ricevendone naturalmente un netto rifiuto. Come la Francia, anche l'Inghilterra cercava di trasformare la nuova Italia in un paese satellite. Ambedue le potenze sempre brigarono, in competizione tra loro, per ridurre il più possibile la portata del Risorgimento e trarre a sé il costituendo Stato che prefiguravano debole, posticcio e malleabile. Non fu così. Il Risorgimento andò ineluttabilmente a compimento e il Regno d'Italia non si dimostrò affatto malleabile, ma fu uno Stato sovrano e indipendente, padrone della propria politica che spesso e volentieri orientò in senso contrario ai desiderata dell'Europa, spinto da un'opinione pubblica che, nonostante il suffragio elettorale ristretto, partecipava emotivamente agli eventi della nazione, facendo sentire la propria voce, soffrendo e gioendo, pur tra i grandi problemi, le difficoltà e le avversità che la giovane potenza si trovò ad affrontare nel mare tempestoso della Storia, sul quale ora arditamente navigava non più come comparsa, ma come protagonista.

Maria Cipriano


1 commento:

  1. Ho avuto modo a più riprese di apprezzare e "gustare" alcuni articoli trovati sul web di questa colta signora patriottica, ogni volta ci sorprende e ci svela nuove e illuminanti intuizioni, come per esempio quella dove ci spiega il fine strumentale del potere politico italiano e della sinistra nella riscoperta dell'amor patrio.
    Continui signora Maria Cipriano ad indicarci la via lucida e reale della storia.
    Un sentito grazie.
    Cappanigra

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