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sabato 24 dicembre 2016

BUON RISORGIMENTO - Maria Cipriano

Il bosco è l'ultimo rifugio del Ribelle, spiegava mirabilmente Ernst Jünger in uno dei suoi più famosi libri. Ma esso non è soltanto un rifugio, è un centro propulsivo. È il luogo incontaminato onde ricercare e ritrovare il contatto con le forze originarie, primigenie, le sole capaci di dare il giusto impulso agli uomini per gettare le basi un nuovo ordine, laddove si sfaldano le membra di una società morente e predominano il caos, l'ingiustizia, la tirannia.
La via della macchia è però una via impervia. Se non attrezzati e pronti si finisce per esserne inesorabilmente risucchiati. Non si possono calcarne impunemente i sentieri senza aver ben chiaro il percorso da fare.
Dovevano conoscerlo i nostri Carbonari, l'eroica ed umile fratellanza che sta alla base di tutto il nostro Risorgimento. Eroica perché capace di sfidare avversari ben più numerosi e forti, incurante di persecuzioni, sentenze di morte ed esili, protesa al raggiungimento del suo obbiettivo con la stessa tenace ostinazione che contraddistingue ogni genuino boscaiolo. Umile perché operante nell'ombra, schiva di riconoscimenti, riservata e paga di compiere il suo Dovere senza altro richiedere. Talmente umile ed attenta a non lasciare tracce, che ancora oggi è assai difficile raccontarne la storia, visto che il riserbo e la segretezza che da sempre l'hanno avvolta a mala pena permettono di gettare un timido sguardo su di essa.
Ci prova la nostra assidua e fedelissima Maria Cipriano, con questo suo appassionante articolo. Articolo che stimola il lettore, lo incuriosisce e lo addentra nel folto di un “mistero storico” su cui ancora molto vi è da scrivere.
Ma questo articolo vuol essere anche un augurio e un monito. Per tale motivo lo pubblichiamo in concomitanza di queste feste solstiziali e natalizie, unendo così le origini Romano-Italiche e la novità Cristiana fuse all'interno della Carboneria stessa. L'augurio è che come dal nero e povero carbone, rigido e apparentemente morto, risplenda ancora l'aurea e danzante fiamma, luce di nuova vita per l'Italia intera. Un monito affinché i figli di questa magnifica terra non dimentichino mai i loro eroici ed umili predecessori.
Sandro Righini




Che le luci della Carboneria possano guidare gli italiani di buona volontà sul cammino della salvezza individuale, e adornare spiritualmente l'Albero e il Presepe delle antiche tradizioni Italiche che riportano a Roma, principio e fine dei nostri destini. Che il Natale dell'Italia e di voi tutti, che amate la Patria e soffrite per essa, possa essere il natalizio dell'eternità .
M.C.

BUON RISORGIMENTO



La sera del 18 agosto 1815, alla presenza dell'arcigno imperatore austriaco Francesco I, illuso di colonizzare facilmente la Lombardia, il Veneto e le altre numerose terre vilmente sottratte alla morente Venezia, venne rappresentata per la prima volta al Teatro Re di Milano la tragedia “Francesca da Rimini” di Silvio Pellico, che, come molte altre opere del tempo, celava strofe sovversive-patriottiche. Quando il primo attore recitò l'apostrofe all'Italia (Italia mia, combatterò se oltraggio ti muoverà l'invidia! Polve d'eroi non è la polve tua?) un fremito attraversò il teatro, la gente cominciò ad applaudire, a gridare, a levarsi in piedi inneggiando alla Patria, nello sgomento generale degli austriaci che occupavano sempre impettiti le prime file della platea: una scena che si sarebbe ripetuta infinite volte un po' dappertutto negli anni a venire, causando interventi della forza pubblica, arresti, incidenti, sgomberi di teatri, indignazione negli occupanti. Il prim'attore fu subito convocato dalla Polizia, redarguito, minacciato del carcere a pane e acqua, e la strofa definitivamente censurata.
Questa fu l'Italia che fece il Risorgimento, levatasi a sfidare i potentati stranieri sfruttatori e gli altri meschini sovrani a loro ascritti e asserviti assieme ai degeneri italiani che li sostenevano. Un'Italia che osò insorgere e risorgere proprio quando, con la Restaurazione e il Congresso di Vienna, tutto sembrava morto, ogni speranza spenta, e la pietra tombale fissata definitivamente dalle potenze europee e dai loro sordidi maneggi sul corpo piagato dell'infelice Patria. Fu allora che dal buio della “foresta percorsa dai lupi”(per usare una famosa espressione carbonara) un lucignolo fece luce nelle tenebre, un sentiero si appalesò agli smarriti italiani, una traccia, un segnacolo di speranza chiamò a sé gli afflitti, rinfondendo energie, rianimando le forze esanimi e abbattute, offrendo una metaforica capanna di legno sormontata da una croce (uno dei simboli carbonari) come riparo, una congrega di fratelli (anzi di “buoni cugini”, questa l'espressione carbonara) come famiglia, un insieme di simboli, di formule e di riti (piuttosto modesti per la verità, quelli carbonari, ispirati all'antica Roma e al mondo agreste-boschivo) in cui riconoscersi e trovare, come da un sacro mantra iniziatico e misterioso, come da un'incessante preghiera, la forza interiore, fisica e morale, per reagire alle forze del male votandosi al sacrificio di sé, così come Cristo- che è il primo carbonaro- si votò alla morte. Fu, questa, la Carboneria. Essa non fu molto altro di codesta disarmante semplicità e chiarezza di moventi e di traguardi, rigorosi e severi, che attrassero a sé come una calamita, nonostante l'arduità estrema dell'impegno richiesto, adepti di tutte le regioni, arrivando fin là ove pareva impensabile arrivare: dentro le file dell'esercito borbonico e di quello sabaudo, le due compagini militari più numerose e più importanti dell'Italia di allora.
In particolare, la familiarità di rapporti che intercorreva fra il Re Sabaudo e le sue fedelissime truppe, unita all'affabilità del giovane erede al trono Carlo Alberto che viveva si può dire in simbiosi e direi in amicizia con esse, pur stretto nella morsa soffocante dell'austriacantismo del Re Carlo Felice suo zio, consentirono di far giungere fino alle sue principesche orecchie il grido di dolore che da tutta l'Italia si levava, invocante la libertà, che era liberazione dallo straniero, Costituzione, unificazione, progresso di leggi e di costumi, limitazione e freno allo strapotere della Chiesa. Il merito indiscutibile di Carlo Alberto fu quello di recepire e di ascoltare, ch'era già molto, cose ch'era inconcepibile anche solo pensare, al punto che la regina Cristina, moglie di Carlo Felice, sbottò scandalizzata: “Carlo Alberto dice cose tanto strane, parla che mi sembra pazzo o ubriaco.” Sappiamo che per questo fu allontanato da Torino, minacciato d'essere diseredato, sospeso dalle sue prerogative, forzato a ritrattare per essere poi riammesso penitente a Corte al cospetto di uno zio furente che non tollerava neanche si pensassero certe cose, figuriamoci parlarne!
Ma, prima di arrivare a Carlo Alberto, prima di arrivare al fatidico 1848, e al passaggio epocale del Ticino da parte delle truppe piemontesi che dette la svolta tanto attesa alla Storia d'Italia con le indimenticabili giornate della 1a guerra d'indipendenza (guerra che fece accorrere in Piemonte l'incaricato inglese a supplicare il Re sabaudo di desistere da quella pazza impresa contro l'Austria che era un suicidio), ebbene, prima d'allora, la Carboneria ne aveva fatta tanta di strada da sé sola, con il coraggio e la temerarietà che le erano proprie. Passando di fallimento in fallimento, cadendo e inciampando davanti al Golia che aveva davanti, rialzandosi ogni volta, incurante dei dolori e delle fatiche, di mille spietati interrogatori tesi a estirpare i suoi riposti intendimenti, essa, dilagando da una parte all'altra della penisola senza che alcuno potesse fermarla, pose le premesse inamovibili della Vittoria smuovendo le acque stagnanti, mettendo in subbuglio tutte le Polizie, sbalordendo, impaurendo, esasperando i suoi cacciatori che, armati di tutte le armi, mai riuscirono a spuntarla contro le due armi infallibili della sua fede e della sua segretezza. Una fede e una segretezza a tal punto pervicacemente conservate, al contrario della Massoneria che amava mettersi in mostra, che un alone di mistero, di paura, un senso di timore come di fronte a un arcano dissepolto da ignote profondità, ancor oggi suscita soggezione in chiunque per davvero voglia indagare a fondo i suoi meandri e le sue introvabili origini. Di cui poco o nulla si sa, e, quel poco, è già bastante a presentarci una società segreta rigorosamente autoctona, italico-Romana di sangue e di suolo, nonostante si sia tentato di spacciarla per una filiazione della Massoneria, da cui profonde differenze la dividono, anche se non di rado, proprio a testimoniare il buio in cui brancolavano i segugi dell'assolutismo, le due società venivano confuse, sembrando logico che la Carboneria non potesse che esser gemella della Massoneria, la quale era ben nota ai governi, e verso essi sempre innocua e deferente, cosicché alcuni dicevano che per accidente se n'era staccata una costola, disobbediente, che aveva come scopo la sovversione violenta dell'ordine costituito. Ma questo era semplicismo storico, una scorciatoia presa da chi non sapeva darsi ragione dell'improvviso emergere di un fantasma in carne e ossa che predicava con irriducibile ostinazione l'indipendenza e Unità della Patria: la Patria rappresentata come l'addolorata Madre che “ha per manto il mare e per scettro altissimi monti”, di cui i carbonari riproponevano le desolate raffigurazioni che nel corso dei secoli, dalla caduta di Roma, ne erano state date, di vedova derelitta di Cesare, coi figli orfani e calpesti. Ora questi figli però inspiegabilmente risorgevano dandosi nomi Romani e presentandosi con un pugnale in mano, cospiratori e occulti pianificatori di trame rivoluzionarie, per attuare senza tante perifrasi quella che poteva definirsi a tutti gli effettilotta armata, vera e propria insurrezione. Questa fu la Carboneria. Avverso cui si scatenò una spietata caccia all'uomo in tutta Italia. Avverso la quale i sovrani e le Polizie si tennero in contatto reciproco con continui abboccamenti e riunioni, onde venirne a capo, ma il capo non si trovava. Per ragioni di sicurezza, infatti, la veneranda e sacra congrega patriottica da cui nacque il nostro glorioso Risorgimento, una volta raggiunta una certa estensione territoriale, il che avvenne quando dal mezzogiorno, ov'era nata, dilagò nello Stato Pontificio, preferì frammentarsi, mentre, per facilitarne la strada, altri raggruppamenti minori sorgevano a sua imitazione, il che compromise la sua originaria struttura gerarchica unitaria che non resse al moltiplicarsi delle “vendite carbonare” praticamente in ogni luogo, rendendo la comunicazione sempre più difficile, complicata e rischiosa. Se da una parte ciò compromise l'efficacia concreta dei risultati rivoluzionari a livello nazionale, dall'altro generò un labirinto localistico in cui i segugi dell'ancien regime non riuscirono mai a trovare né l'entrata né l'uscita, nonostante essi stessi fondassero società segrete rivali di stampo retrivo da opporre a quella, dove gente senza scrupoli, spesso veri e propri criminali, avevano ricevuto ordini precisi di uccidere e disperdere anche solo i semplici sospetti di appartenere a “quell'infame setta”, versando “fino all'ultima goccia di sangue di quei rettili” senza riguardo alcuno al pianto dei vecchi, dei bambini e delle donne.
Il fatto che le insurrezioni carbonare, pur generando un gran clamore e un grande allarme, non giungessero mai a segno, essendoci sempre qualcosa che le intralciava, non indebolì la Carboneria, che anzi si fortificò da esse, moltiplicando i suoi adepti, propagandosi nei luoghi più impensati, e soprattutto avvicinando il popolo, che cominciò a simpatizzare e collaborare, fiancheggiando le azioni, facendo da supporto, da aiutante, da trasportatore di ordini e messaggi cifrati, nascosti nei cesti della biancheria, dentro le stalle, nelle gerle, dentro fodere cucite, e, perfino, nelle scarpe. I messaggi della sovversione carbonara eccitavano gli animi, riscaldavano il cuore, accendevano la fiamma del patriottismo e della libertà dando corpo di realtà a traguardi considerati prima impossibili. Era tutto un popolo fatto di nobili, preti, notai, dottori, professori, impiegati, artigiani, studenti, ufficiali, soldati, commercianti e contadini, che mettendo a repentaglio i beni e la vita e a rischio le famiglie, cospirava per l'Italia, giurando di abbattere i tiranni e cacciare gli stranieri dal sacro suolo, e, quanto più s'ingrossava, tanto più spargeva fiducia e speranza attorno a sé, cosicché chiunque poteva imparare ad amare la Patria, sentendosi accresciuto di stato, risorto a una coscienza nuova, poiché la Carboneria era fratellanza di sangue e discendenza Romana, e dunque anche uguaglianza e progresso sociale, riscatto ed emancipazione dalla miseria.
Il 21 maggio del 1817 Gioacchino Papis, maestro dell'Alta vendita di Ancona, segretamente scriveva al conte Cesare Gallo di Osimo, maestro dell'Alta Vendita di Macerata: “Siate dunque attivo giacché se mai l'occasione è stata propizia, lo è certamente in questi tempi in cui la ben giusta indignazione popolare ci favorisce, e le notizie che ci pervengono ci assicurano di riuscire nell'intento.” Chiaramente intendeva riferirsi a un'insurrezione, che questo era lo scopo della Carboneria: la ribellione a mano armata.
Mentre i massoni, finemente vestiti, tutti ordinati coi loro candidi grembiuli, ligi a rigidi riti formali, non muovevano un dito, paghi di stare nel loro Tempio aristocratico e conservatore, aulico e astratto, simbolicamente perfetto, staccato dal mondo, ove parlar di teorica pace e fratellanza sotto l'egida del grande architetto dell'universo, i carbonari erano invece nel mondo, vestiti dei suoi umili panni, in continuo movimento e patimento dei suoi dolori e delle sue diuturne prove, immersi fino al collo nella lotta. Un Maestro terribile attendeva gli iniziati per avvertirli della durezza delle prove a cui sarebbero andati incontro al fine di poter raggiungere i gradi più alti (le luci) del firmamento carbonaro. Mentre i massoni disdegnavano ciò che non rientrava nelle loro asettiche simmetrie, guardandosi bene dal gettarsi nella mischia e mescolarsi al popolo straccione e ai suoi bassi problemi, i carbonari erano invece asimmetrici e rivoluzionari, arrischiandosi in continui assalti per sradicare la coriacea impalcatura dell'oppressione, pagando di persona, ammirati dal popolo, che spesso assisté alle retate della polizia a loro danno, le quali non si contano e di cui non si ha nemmeno compiuta notizia. Proprio l'insurrezione di Macerata del 1817 cui si riferiva il Papis, si risolse in un disastro: prevenuti dalle spiate di informatori che quasi sempre per miseria, fame o alla vista di orride torture si vendevano, i rivoltosi raccoltisi nottetempo alle porte della città si ritrovarono soli, senza il concertato raduno di forze dalla città stessa e dalle contrade vicine. Uno dei convenuti per rabbia sparò due colpi di fucile contro la sentinella, che dette subito l'allarme. Riuscirono a fuggire nei campi ove c'era sempre pronto un riparo, ma il giorno dopo, alla vista delle migliaia di volantini inneggianti all'insurrezione sparsi con la complicità di tutte le contrade lungo un'ampia porzione di territorio, scattò furibonda la reazione della Polizia: centinaia e centinaia furono gli arrestati, di ogni ceto e provenienza, tra cui il Papis medesimo e il conte Gallo, condannati a morte, poi all'ergastolo, e infine, per l'amnistia del nuovo Papa, liberati dopo tredici anni di ferri trascorsi nel lugubre forte di Civita Castellana in provincia di Viterbo. Li attendeva, fuori, l'asfissiante sorveglianza della Polizia o l'esilio.
Proprio lo Stato Pontificio, nelle cui 20 provincie (5 legazioni governate da un cardinal legato e 15 delegazioni governate da un monsignore delegato) la Carboneria velocemente dilagò, aveva conosciuto, ancor prima dell'insurrezione fallita di Macerata, processi sommari con centinaia di esecuzioni pubbliche di carbonari lasciati a penzolare dalle forche in bella vista sotto il “paterno” governo del Papa e del suo fido esecutore il cardinale Agostino Rivarola, detto “il prete della morte”, le cui brutali repressioni sono passate alla storia.
Un delitto era anche solo sussurrare “Viva l'Italia”. Proibita la stampa, la parola, l'associazione, la libera circolazione, la censura imposta ovunque, la tortura una regola comune. Scriveva il pio uomo monsignor Luigi Martini, una volta al sicuro nella pace del Regno d'Italia che a lui doveva sembrare un paradiso: “Un gesto, una parola, un atto imprudente, un'inimicizia occulta potevano a ogni momento nuocere a un cittadino onesto, e la polizia e i suoi sbirri pedinarlo, chiudergli l'accesso agli impieghi, entrare in casa sua a qualsiasi ora, intercettargli la posta, arrestarlo e trattenerlo in carcere come e quanto volessero, insultandolo, angariandolo, e impedendogli anche la visita delle persone più care, oppure intimargli di lasciare il luogo natìo entro 24 ore.” Martini ebbe il torto di trattare i cospiratori con umanità, di comprenderli nel loro ardente amor di Patria, considerandolo non in disaccordo con la religione, ebbe il torto di assistere amorevolmente i condannati, definendo la loro morte un martirio. Sospettato e allontanato dagli austriaci nonché fortemente inviso a molti membri della Curia, la resa dei conti con la Chiesa non tardò a colpirlo anche dopo l'unificazione d'Italia, quando fu allontanato dai sui uffici e messi all'indice i suoi scritti. Era il destino comune a tutti gli uomini di Chiesa che, seguendo la lezione di San Tommaso d'Aquino, intendessero conciliare l'amor di Patria con la religione cristiana.
Eppure proprio questa fu la caratteristica della Carboneria, il contenuto psicologicamente vincente che attrasse gli italiani di allora: il connubio fra Cristo e la Romanità. Non, si badi bene, tra la Chiesa e la Romanità, bensì fra Cristo e la Romanità, che è cosa ben diversa: un legame inedito al quale sarebbero da dedicare ulteriori approfondimenti di studio e di analisi, cui per ragioni di spazio mi è d'obbligo soprassedere, e a cui posso solo accennare, essendo, questo legare il Cristo alla Romanità, uno strapparlo alla Chiesa, un suo liberarlo dalla Chiesa e dai racconti canonici della Chiesa. I complicati intrecci, piuttosto ardui da sbrogliare, delle misteriose origini della Carboneria e del suo mitico fondatore San Teobaldo, raccontate in diverse varianti da studiosi diversi, non sono ancora stati convintamente chiariti dagli storici, cosicché, ai giorni nostri, correttamente la storiografia ammette quasi all'unanimità di non sapere quando, come, e dove nacque la Carboneria né chi fosse San Teobaldo. Noi conosciamo solo qualche brandello di questa storia, possediamo qualche documento (molti sono da considerarsi apocrifi), qualche racconto fatto da terzi (non sempre attendibile), i resoconti di Polizia: ma non basta. Sappiamo che la Carboneria fu antifrancese e nondimeno i francesi, nei pochi decenni in cui furono in Italia, cercarono di appropriarsene ai loro scopi, anche dopo la caduta di Napoleone, poiché essa parlava di libertà, di giustizia e di indipendenza, e dunque essi volevano farla apparire come cosa loro, in modo da non intaccare il potere francese in Italia e anzi rafforzarlo, onde insediare un Bonaparte come Re d'Italia: un piano che non riuscì. Sappiamo poi che Carboneria e Massoneria non coincidono, anche se alcuni simboli (pochi, per la verità) sembrano copiati da quest'ultima, e nondimeno sappiamo che un certo numero di massoni uscì dalla Massoneria per entrare nella Carboneria, ove si predicava e faceva tutt'altro: il sacrificio e il martirio per la Patria, come ampiamente dimostrato con le sue immani sofferenze dal conte Federico Confalonieri, ex massone. Sappiamo anche che Teobaldo è con ogni probabilità una figura storica (nella storia ufficiale se ne conoscono non meno di una trentina), ma le troppo facili biografie che ne sono state fatte, che lo collocano ora qui ora lì, in questa o quell'altra epoca, non risultano punto attendibili. Sappiamo anche con ragionevole certezza che le vendite carbonare erano una realtà e non solo un'immagine metaforica, dunque trattavasi di una congrega nata nei boschi siti in luoghi impervi privi di strade ove si usava l'accetta per farsi largo (e l'accetta è infatti simbolo sacro della Carboneria), ove si lavorava il carbone e lo si rivendeva in apposite baracche, dette vendite, il che avveniva nel mezzogiorno, in particolare in Calabria, e infatti Teobaldo è nome molto antico di origine greca. Questo sappiamo, che è poco per uno storico. Si può supporre- come io suppongo- che il Teobaldo in questione sia fuori dalla storia ufficiale: che fosse un fuggitivo, un uomo colto, facilmente un religioso, perseguitato per motivi politici e religiosi che trovò rifugio in tempi remoti con altri compagni presso gli umilissimi carbonari. Da qui il sovrapporsi di riti e simboli (i simboli cristiani e romani accanto a quelli del lavoro tipico dei carbonari), da qui la connotazione fortemente mistica e altresì politica della Carboneria, volta alla salvezza e al riscatto della derelitta Patria da tiranni e stranieri.
Ma ciò che sappiamo, e più di tutto conta e riempie i nostri vuoti, ciò che sappiamo con assoluta certezza e ci riempie di orgoglio e di forza, è che la via del Risorgimento è lastricata del sangue e del sacrificio dei carbonari. Prima di Mazzini e di Garibaldi (che peraltro da giovani furono carbonari anch'essi), prima di Carlo Alberto e di Cavour, prima delle tre guerre d'indipendenza e delle grandi insurrezioni che conosciamo (di Milano, di Palermo, di Bologna, di Napoli, di Venezia, di Messina) sono il sangue e i patimenti dei carbonari che hanno fatto l'Italia, è stato il coraggio dei carbonari a preparare con la sua accetta la strada nella buia foresta percorsa dai lupi, e su questo sangue coscientemente e volontariamente versato a imitazione di Cristo, su questo sangue spesso ignoto e dunque più sacro e prezioso ancora, su questo sangue purissimo di tanti sconosciuti italiani di ogni ceto, età e provenienza, poggia l'Unità d'Italia, ciò che siamo, ciò che dobbiamo essere e continuare a essere, a dispetto di ogni reietto invasore e traditore: una roccia per sempre.

Maria Cipriano

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