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mercoledì 18 luglio 2012

L'AEDO di Rinaldo Orengo

Il fu Centro di Studi Atesini, ebbe l'onore di ospitare tra le sue pubblicazioni alcune opere dell'ingegnere Rinaldo Orengo. A molti probabilmente, questo nome non dice nulla. Classe 1895, nato a La Spezia da una famiglia di origine nizzarda, partecipò come volontario alla prima guerra mondiale insieme al fratello Achille, che cadde sul Carso. Laureatosi in ingengneria, durante il ventennio diresse alcune imprese britanniche ed italiane in Africa. Appassionato di letteratura, dopo la guerra dedicò i suoi studi all'opera Dantesca e Dannunziana. Si spense a Riva Ligure il primo marzo del 1991. Coloro che l'hanno conosciuto in vita o attraverso i suoi testi, non possono dimenticarlo.
Il Gruppo di Studio Avser, in quanto erede dell'opera del CSA, possiede ancora materiale dell'illustre studioso ligure ed è lieto di riproporlo ai suoi fedeli ed appassionati lettori. Ma prima è necessaria una più ricca e doverosa presentazione dell'autore, redatta dal buon Ferruccio Bravi, che non solo pubblicò e promosse i lavori di Orengo, ma ne fu anche intimo conoscente.

RICORDO DI ORENGO

"ARISTOCRATICO nella concezione di Oriani, credeva nella missione della Monarchia secondo una visione dantesca. Autentico uomo di cultura, rifuggiva la babilonia dei partiti e faceva parte per sé stesso. Decisamente, non era un <<animale politico>> in senso aristotelico. Nel ventennio, volendo servire l'Italia ma non il regime, si stabilì in Africa dove lavorò parecchi anni, fra Chartum e l'Asmara. Ma onestamente non negava qualche merito del Dittatore del quale soleva dire: <<Posto che fosse il diavolo che si dice, era almeno un diavolo italiano, vivaddio! Ma questi ometti lesti di mano ridotti al piede di casa che ci stanno sul collo... >>. Forse l'uomo che qualcuno, poi pentito, definì <<il Motore del secolo>> non tirava abbastanza per Lui, volto all'Alighieri e al D'Annunzio, i massimi estremisti nati al sole d'Italia.
Dai due sommi aveva tratto lo stile e la maturità letteraria che egli sapeva unire al rigore della scienza. Nell'ultimo decennio dedicò loro due massicci volumi nei quali fra l'altro, corresse non lievi errori fisico-matematici in cui erano incorsi dantisti pur preparati: e con ferrea acribia computò versi pagine e battute dannunziane. Grazie a questo conteggio - materialmente effettuato dalla paziente consorte e silenziosa collaboratrice, la Signora Ginetta - ora sappiamo che l'<<inesausto fonte>> ha lasciato alla gioia di noi lettori ben 63.515 versi e 6.100 pagine di prosa, pari a più di tredici milioni di battute: una produzione quasi decupla di quella dantesca, pur ragguardevole. 
Una fiera passione per l'<<idioma gentile>> Lo assoggettava alla tirannia del setaccio. Mai, ch'io sappia, disse o scrisse parola che non fosse scelta e tirata a lucido. Mai un'espressione dialettale. Per i dialetti nutriva un sovrano disprezzo: si vantava di parlare solo in lingua e giudicava men che oziosi certi miei studi di dialettologia. Inutile dirgLi che mi occupavo di dialetti con l'interesse scientifico di chi studia le malattie o gli scherzi di madre natura: <<Un letterato, uno studioso serio - diceva - non si perde dietro certe baggianate>>. <<Ma è materia da fior di professori...>> tentavo di ribattere e Lui mi tramortiva con una delle Sue battute che lasciavano il segno: <<Oh, i professori: i professoroni sanno tutto e se non sanno inventano>>. Era fatto così, facile all'impuntatura e al sarcasmo, ma Uomo grande di cuore come d'intelletto..."

F.B.

 

 

L'AEDO

Gabriele D'Annunzio

visto da

Gabriele D'annunzio


 

di RINALDO ORENGO

Per quel che ne sa un italiano non particolarmente addottorato nelle materie letterarie e assorbito da attività intellettuali di altra natura, Gabriele D'Annunzio - uomo di lettere e uomo d'azione - fu studiato, analizzato, criticato, esaltato, denigrato da molti scrittori e in numerosi articoli di giornalisti, sotto i più diversi aspetti: ed egli se lo raffigura a seconda delle opinioni o delle passioni o dei pregiudizi di qualcuno fra questi interpreti più o meno avveduti e sagaci, accettandone le sentenze e passando ad altre cose. Ma la presenza di Gabriele D'Annunzio, morto meno di cinquant'anni or sono, è ancora troppo vicina a noi per consentirci la serenità dei giudizi: per taluni superstiti vissuti ai tempi suoi ed entusiasti di lui egli appare ancora come il grande e dottissimo artista de omni re scibili er quibusdam aliis, o come l'eroe e il conquistatore, il servitore dei servitori della Patria; per altri, egli è soltanto un seduttore, un corruttore, un avventuriero; per i più, egli è qualche cosa di mezzo fra questi due estremi. E se quell'italiano di cui dicevamo sopra desidera precisare o correggere la sua opinione sul D'Annunzio e conoscerlo meglio, gli conviene avvicinarlo direttamente: gli conviene soffermarsi su ciò che egli stesso, Gabriele D'Annunzio, o in prima persona o per mezzo dei suoi personaggi, disse di sé.
Due sono gli ostacoli che si frappongono tra il curiso ignaro o quasi ignaro di lui e la conoscenza vera dell'artista e dell'uomo: la mole sterminata unita alla non sempre facile accessibilità dei suoi scritti, e il livello elevato delle opere critiche serie a lui dedicate dai critici maggiori. Ne risulta per molti una <<lontananza>> difficilmente superabile senza noia e senza fatica.
Il volume che qui si presenta è un tentativo di colmare in parte questo vuoto. Non è per certo destinato agli <<addetti ai lavori>> dannunziani, ai dotti, ai critici, agli studiosi della materia trattata. è dedicato a chi del D'Abbunzio poco sa e di più vorrebbe sapere. I numerosissimi brani ripresi lo sono a titolo di documentazione originale, diretta, d'un pensiero dannunziano: e classificati (per così dire) secondo i principali aspetti del multiforme, inesauribile, fecondissimo, affascinante scrittore. Tali aspetti appaiono chiaramente in una Sinossi posta a principio dell'opera. 
Questa documentazione è largamente commentata nel testo e nelle Note abbondevoli. E qui conviene spiegare.
Gabriele D'Annunzio fu l'ultima e la più grande delle <<Tre Corone>> moderne: Carducci, Pascoli, ed egli: quelle che forse chiudono la grande storia d'Italia, come le <<Tre Corone>> antiche, Dante, Petrarca, Boccaccio, l'apersero. Gabriele D'Annunzio rappresentò un'epoca fra le più importanti nella storia d'Italia: un'epoca che reca in profondità l'impronta della sua eccezionale figura. Chi scrisse questo libro visse la sua lunga vita in quell'epoca: non può e non vuole ignorarla subendo la tirannia della moda. Anche se essa epoca è ormai quasi da tutti dimenticata o vituperata o derisa, anche se l'irriconoscibile Italia è oggi divenuta geenna, egli ricorda ed ama ancora l?italaia risorgimentale e dannunziana: vide le creature a lui più care morire per lei, e riterrebbe suprema viltà rinnegarla. Dovesse rimanere anche solo, non la rinnegherà mai.

R.O.

La Turbia di Provenza, autunno 1983.



Presso il Gruppo di Studio AVSER sono 
ancora disponibili diverse copie del volume

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