Cari
lettori e carissimi amici,
quando
a marzo pubblicammo l'introduzione al nuovo corso dell'AVSER facemmo
appello a tutti “gli italiani di buon cuore” affinché dessero un
loro contributo culturale alla comune causa. Se non abbiamo raccolto
adesioni al progetto, è colpa nostra. L'esser cani sciolti fuori da
ogni associazione o partito e gli impegni di lavoro che ci lasciano
poco tempo da dedicare al gruppo di studio, hanno giocato la loro
parte. E' giusto recitare un piccolo mea culpa di fronte all'assenza
di nuovi collaboratori. Assenza che però si è finalmente interrotta
questa estate, quando aprendo la posta elettronica del gruppo abbiamo
trovato il messaggio di una valente studiosa del Risorgimento
desiderosa di darci manforte: Maria Cipriano. Appurata la nostra
affinità ideale, ci siamo detti pronti ad un'immediata
collaborazione, ma varie vicissitudini non ci hanno permesso di
pubblicare subito l'articolo che ci aveva proposto. Abbiamo dovuto
attendere fino ad oggi un suo nuovo scritto. E posso dire, in tutta
sincerità, che mai attesa fu più giustificata. Di contro alle
imperanti tesi di un Risorgimento sordido, fatto più al tavolino che
sul campo di battaglia, voluto da forze “occulte” ed estraneo
alla popolazione, Maria Cipriano smonta questi luoghi comuni
ricordando i tanti sacrifici, le condanne, il sangue, il dolore con
cui fu lastricato il lungo cammino verso la nostra indipendenza
Nazionale. Questo è stato il Risorgimento italiano: un ideale
partito da lontano che, come un sordo mormorio, ha attraversato i
secoli mantenendosi vivo di generazione in generazione fino al
momento decisivo. Un lume che non si è spento neanche con la IIIª
guerra d'indipendenza, alimentando
le speranze e le giuste rivendicazioni delle terre irredente che
ancora languivano sotto il tallone straniero. Ed è per questo che lo
pubblichiamo oggi, 4 novembre
giornata della Vittoria, giacché
la prima guerra mondiale fu anche la nostra IVª guerra
d'indipendenza, il giusto prosieguo
del Risorgimento. Bisogna gridarlo forte in faccia a tutti i
denigratori che sputano sulla nostra storia. Oggi
più che mai abbiamo bisogno di recuperare una memoria offuscata da
anni ed anni di menzogne. Ne va della nostra salvezza.
Concludo
con un breve augurio: che la voce della signora Cipriano spezzi
gli indugi e sia la
prima strofa di un grande canto polifonico di
cui l'Avser si faccia promotore per ridestare l'Italia e gli italiani
dal grigio tepore in cui gravitano.
Buona
lettura a tutti!
Sandro
Righini
IL
RISORGIMENTO PERDUTO
Francesco
Saverio Altamura (1822-1897) La prima bandiera italiana portata a
Firenze 1859
A
chi conosce il Risorgimento solo per sentito dire o attingendo qua e
là in ordine sparso da fonti non fededegne, farà specie sapere che
esso non si esaurì in tre guerre d'indipendenza e poco altro, ma fu
una lunga e tormentata epopea di morti ammazzati, torturati,
perseguitati, bastonati, avvelenati, strangolati, incatenati nelle
segrete, incarcerati in celle pullulanti di insetti e topi, segregati
per giorni al buio senza mangiare, appesi alle corde, braccati da più
polizie, esiliati, ridotti in miseria, al nord, al centro e al sud
della penisola, costellata da fortezze e lugubri carceri nei quali
quasi sempre i patrioti erano gettati assieme ai delinquenti comuni;
né, senza tanto sacrificio e coraggio, il Risorgimento avrebbe
potuto men che meno incominciare e figuriamoci concludersi nel 1870,
con la presa di Roma, che toglieva al Papato il plurisecolare osso
del potere temporale. Proprio perché il coraggio di quelle infinite
schiere di persone eroiche noi ce lo sogniamo, è bene accennarne, se
pur fuggevolmente, se non altro per rendersi conto che tutti i
traguardi richiedono un prezzo, a maggior ragione se sono alti.
E
l'unificazione dell'Italia, anzi la sua ri-unificazione, fu uno dei
traguardi più alti e più difficili, se non impossibili, da
raggiungere, di tutta la sua Storia, perché troppo forti interessi
congiuravano per mantenere la divisione e dunque lo stato di
debolezza della penisola che così molto più facilmente poteva
essere spolpata dei suoi beni e delle sue risorse. Di conseguenza, la
riunificazione, pur rientrando in vario modo nei pensieri degli
italiani, restò sempre un miraggio. Diversi tentativi anche
risoluti e illustri si annoverano in tal senso, come quello del re di
Napoli Ladislao d'Angiò che entrò in Roma accolto dalla popolazione
festante, o del Duca di Milano GianGaleazzo Visconti che si fregiò
di una corona e di uno scettro regale, rispettivamente nel XV° e nel
XIV° secolo, ma non furono coronati da successo. Anche la vasta
congiura del toscano Francesco Burlamacchi che, dietro la Toscana,
contemplava una Repubblica italiana, finì repressa nel sangue nel
XVI° secolo, e il nobile coraggio del medesimo che si fece catturare
e resistette alle torture col fuoco per permettere agli altri di
salvarsi, è rimasto tramandato negli Annali della Storia d'Italia.
Scriveva
il toscano Atto Vannucci nel 1877, in occasione della ristampa del
suo libro “I martiri della libertà italiana”: “I frutti
della libertà di cui godiamo furono coltivati sul nostro suolo con
lunghi e mortali dolori. Non vi fu quasi paese straniero che non
fosse pieno dei nostri esiliati. In Italia non vi fu carcere che non
fu santificato dai patimenti degli uomini più generosi, non vi è
palmo di terreno non bagnato dal sangue dei martiri della libertà.
Il martirio fu perpetuo fra noi: i padri lo lasciarono ai figli, i
quali accettarono arditamente l'eredità e la tramandarono alle
generazioni novelle.”
Contro
la riunificazione dell'Italia si levavano ostacoli tali e altrettanti
interessi contrari, che se i patrioti del Risorgimento avessero
dovuto tenerne conto, avrebbero immediatamente desistito e fatto
marcia indietro. Tennero duro, invece. Insistettero. Perseverarono.
Anzi si moltiplicarono. Incuranti delle rovine che piovevano loro
addosso, incuranti delle fatiche, delle scomuniche, dei patimenti che
la lotta per l'Italia assicurava a sè e alle rispettive famiglie.
Silvio
Spaventa, uno dei massimi protagonisti meridionali del Risorgimento,
scolpiva a tal proposito queste bellissime parole: “Quanta
meraviglia di eventi nel periodo storico del Risorgimento italiano e
quanti uomini! Grandiosi gli eventi, ma uomini uguali se non maggiori
degli stessi eventi. Nei ricordi della loro vita sono raffigurate le
vicende della Patria; dalle loro virtù, dal loro carattere e dalle
loro individualità emanarono le influenze che decisero i nostri
destini. Evocando quei ricordi si rivive, perché si sente il palpito
dell'Italia in tutte le vicende della sua formazione e del suo
compimento, nella maestà dei suoi dolori e dei suoi gaudi, nelle
ansietà e nelle trepidazioni dei giorni avversi, nella serenità e
nei conforti dei giorni propizi, nei suoi timori e nelle sue
speranze; perché si contempla lo spettacolo di una nazione prostrata
che vuol risorgere, e risorge.”
Così
scriveva un uomo colto di origini agiate che avrebbe potuto vivere
tranquillamente a casa sua in Abruzzo, e invece a 27 anni, dopo aver
subito minacce, aggressioni e intimidazioni a causa del suo giornale
“il Nazionale”, fu arrestato dalla polizia borbonica, sottoposto
a lungo e doloroso processo assieme ad altre 44 persone, condannato a
morte, infine confinato nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano,
da dove non si lasciò mai sfuggire un lamento, una recriminazione,
un cedimento. Prelevato dopo sei anni per essere deportato in America
con altri infelici in tristi condizioni, per un audace colpo di mano
del figlio di Luigi Settembrini (compagno di cella dello Spaventa)
che di nascosto era salito a bordo travestito da marinaio, la nave fu
dirottata in Irlanda con la complicità di alcuni ufficiali
stranieri, e i prigionieri poterono fuggire; da lì Spaventa, con
molti altri, si recò in Inghilterra dove Cavour lo incaricò di
mettersi in contatto con altri esuli per sensibilizzare l'opinione
pubblica inglese alla causa italiana, e quindi trovò definitivo
rifugio nell'accogliente e generosa Torino dove potè riabbracciare
l'amato fratello Bertrando, anche lui esiliato.
Le
vicende del Risorgimento sono così ampie e numerose, e richiedono
tale studio e tali approfondimenti, che le sparate improvvisate dei
denigratori, mai come in questo tempo attivi e agguerriti, sulle
quali poggiano i ben noti luoghi comuni in materia, muovono al riso
gli esperti, i quali ben sanno quali e quante forze esso smosse,
scatenò e continuò a scatenare anche dopo la sua formale
conclusione, nel 1870, con la presa di Roma. Anzi: a leggere i
documenti del Risorgimento si rimane fatalmente travolti e coinvolti
dalle sue cronache e i suoi resoconti, e altresì sbalorditi,
impressionati e perfino increduli di fronte al coraggio, al
disinteresse, allo sprezzo del pericolo e alla generosità gratuita
dei suoi protagonisti. Tutto il Risorgimento strabocca di personaggi
come il generale Giacomo Antonini, piemontese, che, ferito gravemente
durante una sortita contro gli Austriaci durante la difesa di Vicenza
nel 1848, mentre gli amputavano il braccio con mezzi di fortuna,
gridava “Viva l'Italia!”. Nessuno li obbligava a volere l'Italia.
Nessuna retribuzione o premio era previsto. Solo dolori, fatiche,
miseria e facilmente la morte. Eppure fortissimamente la vollero.
Federico
Seismit-Doda, uno dei più noti patrioti dalmati, fu testimone in
prima persona e partecipe diretto delle eroiche e purtroppo tragiche
vicende della guerra d'indipendenza, conclusasi una prima volta
nel luglio del 1848 con la sconfitta di Custoza, che pure terminò
con la leggendaria carica del Genova Cavalleria contro gli Ulani
austriaci che tentavano scompigliare l'ordinato ripiegamento dei
piemontesi da Volta mantovana a Goito. In quell'occasione egli
scrisse cosa avveniva al riapprossimarsi degli austriaci assetati di
vendetta: “Tutti i cittadini fuggirono. Madri con bambini
lattanti, vecchi, infermi, ragazzi, un'intera popolazione esulò
fuggendo ai massacri, ai saccheggi e alle rapine dei barbari, forti
dei loro cannoni. Ottantamila lombardi riparavano in Svizzera quando
gli austriaci la mattina del 6 agosto 1848 rimettevano piede a
Milano, e fra loro c'ero anch'io.”
Il
Risorgimento è dunque tragedia eroica, di fronte alla quale bisogna
aver il pudore di tacere, se non si sa cosa dire. Nell'interminabile
suo rosario di vite umane spese per l'Italia, moltissime ignote,
anche Mazzini condusse un'esistenza grama e raminga,
interamente votata alla causa, e Garibaldi non fu da meno, braccato
da più polizie e con una taglia salatissima messa sulla sua testa
dagli Austriaci che non riuscì a corrompere nessuno, tanta era la
devozione che gli Italiani gli portavano, pronti tutti a nasconderlo
ovunque. Nè si creda che Cavour sia vissuto tranquillo a Torino: che
le cure per l'Unità d'Italia assorbirono completamente le sue forze
(e le finanze dello Stato sabaudo), al punto da portarlo alla tomba
precocemente, solo tre mesi dopo la proclamazione del Regno d'Italia.
Infine Re Vittorio Emanuele II rischiò più volte il trono, soltanto
a dichiarare guerra all'Austria nel 1859, ben consapevole che un
passo falso e un calcolo sbagliato avrebbe portato al crollo della
sua dinastia e alla perdita di tutti i territori. L'incubo di
un'invasione da parte delle potenze europee turbò peraltro i sonni
suoi e del Cavour durante tutto il corso del Risorgimento, acuendosi
proprio dopo la seconda guerra d'indipendenza, quando la Francia,
bramosa di ricavare il maggior utile possibile dalle travagliate
vicende italiane che l'avevano dissanguata sui campi di battaglia di
Magenta e Solferino, non ritirava il corpo di spedizione dalla
Lombardia, minacciando anzi di spostarlo a Bologna e nelle Romagne
con continui ricatti. I documenti parlano fin troppo chiaro: tra
questi la famosa nota del ministro degli Esteri francese Thouvenel
all'ambasciatore di Francia a Torino barone di Talleyrand, del
febbraio 1860, nella quale il Cavour poté leggervi le condizioni
della Francia, le sue pretese, il suo rifiuto di un'Italia unita, ed
anzi addirittura le sue larvate minacce che alludevano a un
intervento delle Potenze europee e a un isolamento internazionale del
Piemonte, lasciando intendere che l'Europa non avrebbe digerito il
nascere di una nuova potenza quale l'Italia rischiava di diventare.
In quel documento, la Francia, facendosi interprete dei voti e dei
timori delle potenze europee, Austria e Inghilterra compresa,
concedeva solo l'annessione dei Ducati di Parma, Modena e Piacenza,
escludendo recisamente l'annessione del Granducato di Toscana,
dell'Umbria e delle Romagne che dovevano rimanere com'erano, o,
tutt'al più, queste ultime, venire governate da un non meglio
precisato “vicariato” di Torino. Neanche lontanamente si prendeva
in considerazione il Regno delle due Sicilie né a maggior ragione
Roma, il Lazio e le Marche, territori che solo l'astuzia del Cavour
era riuscito a far credere fossero esclusi dai programmi, quando
decine di migliaia di esuli di tutte le regioni fremevano tra Malta e
il Piemonte o in altri luoghi all'estero, e altrettanti dentro gli
ergastoli e nella clandestinità, attendendo impazienti l'ora della
riscossa. Alle grandi capacità di Cavour e di Vittorio Emanuele II
si deve dunque se, nel giro di solo pochi mesi, accadde esattamente
il contrario di ciò che la Francia aveva ordinato e disposto con la
sua nota del febbraio 1860.
Il
Cavour capì che doveva anzitutto liberarsi del corpo militare
francese e trattare con Napoleone III, e, dopo aver cercato di
evitare la cessione di Nizza e della Savoia offrendo altre
contropartite, fu costretto a cederle come “merce” di scambio per
lasciare a Torino campo libero, come infatti precisamente accadde.
Una volta ritirate le truppe, Napoleone III si trovò impossibilitato
a reagire quando capì che i programmi di Torino andavano molto al di
là del previsto e prevedibile. Inoltre, la cessione di Nizza e della
Savoia, perfezionatasi fra il marzo e l'aprile di quello stesso anno,
aveva messo di malumore tutta l'Europa, anche l'Austria, creando
dissapori con Parigi e una situazione difficile per Napoleone III.
Tutti i giornali europei contestarono l'”accaparramento” da parte
della Francia dei territori nizzardi e savoiardi che per secoli erano
stati parte integrante del Ducato di Savoia, sbugiardando i
plebisciti falsi e truccati e le “sceneggiate” messe in piedi da
Parigi, mentre più di 10.000 italiani abbandonavano la Contea di
Nizza, e quasi altrettanti la Savoia, costernati per
quell'annessione. La ragion di Stato aveva sacrificato quegli aviti e
bellissimi territori, abitati da popolazioni miti, operose e fedeli,
ed è doveroso rivolgere ad esse, ancora oggi, un pensiero deferente
e un ricordo permanente, soprattutto di fronte alle volgari prese di
posizione anti-Risorgimentali del nostro tempo, o a chi crede
addirittura Nizza e la Savoia fossero più francesi che italiane. A
testimonianza di quanto fosse vero il contrario, già nel gennaio del
1860, la popolazione savoiarda, messa in allarme da voci circolanti
di un passaggio alla Francia, aveva organizzato una imponente
manifestazione di molte migliaia di persone nella piccola Ciamberì
capitale della Savoia (così allora si chiamava l'odierna Chambery
francese), in cui, pur sotto una fitta neve, con alla testa i 24
delegati di tutta la regione (che era vasta il triplo della Valle
d'Aosta) ognuno reggente un Tricolore, si presentarono dal
governatore, il marchese Orso Serra, per esigere ragguagli e
leggergli una dichiarazione in cui si affermava testualmente la
volontà dei savoiardi “di continuare a far parte degli stati della
casa di Savoia di cui la nostra terra è stata la culla e di cui i
nostri padri hanno seguito per otto secoli i gloriosi destini.” Il
marchese in buona fede rispose che era impossibile che la Savoia
fosse ceduta alla Francia e lesse a sua volta un telegramma di
Cavour in cui recisamente questi negava la cessione (essendo allora
anche lui convinto di poterla senz'altro evitare).
A
questo proposito, è d'uopo precisare che l'idioma del ceppo
franco-provenzale simile al valdostano in uso in quelle zone non
significava che quelle zone non si sentissero italiane, trattandosi
di territori il cui gravitare verso l'Italia era dovuto al persistere
di reminiscenze Romane, le quali avevano creato un baluardo ideale al
prevalere della Francia che, in quanto territorio dei Franchi, era
sempre stata considerata estranea e straniera dalle popolazioni di
origine provenzale a ridosso del confine occidentale dell'Italia, che
si vantavano Romane. Non a caso le rivolte contro i Franchi in quelle
terre continuarono fino alle soglie del Medio Evo, e il prevalere
della lingua fu un fatto solo contingente. La Savoia e la Contea di
Nizza, dopo la caduta di Roma, si volsero spontaneamente alla
madre-Italia, e cederle fu come cedere un pezzo di quel cuore Romano
che ancora batteva. Ciò nonostante esisteva un partito separatista
francese molto attivo, lautamente foraggiato da Parigi e
telecomandato dai servizi segreti francesi, il quale senza posa
fomentava il distacco di quei territori dall'Italia. Ma, quanto
questo distacco fosse artificiale e forzato, lo dimostrano proprio
gli eventi che seguirono alla cessione di Nizza e la Savoia. A Nizza
ci volle la proclamazione dello stato d'assedio per domare
un'insurrezione popolare che reclamava la riunione all'Italia, e in
Savoia furono mandati 10.000 armati per sedare un analogo moto
popolare di vaste proporzioni che reclamava il ritorno alla
madrepatria. Ancora oggi in entrambi questi territori i malumori non
sono cessati e sono sorti movimenti politici che chiedono il distacco
dalla Francia e guardano con simpatia all'Italia, proponendo un
referendum.
Dunque,
a coloro che di fronte al Risorgimento sorridono come fosse una
favoletta, sarà bene ricordare che la sua tragicità fu smussata
solo dal fatto che si trattò di una vicenda epica, dunque
intollerante ai pianti e ai lai, ma degna solo di stoica e perpetua
ammirazione. Una tragedia che continuò anche dopo la riunificazione,
non solo perché essa non fu completa bensì orbata di diversi
territori, ma anche perché le potenze europee, anche quelle che
apparentemente avevano fatto mostra di appoggiare il Risorgimento,
non vedevano certo di buon occhio il nuovo intraprendente Stato
ubicato in posizione strategica al centro del Mediterraneo, ansioso
di sedersi al tavolo del potere mondiale rivendicando la propria
parte, e cercarono in varie maniere di boicottarlo.
L'anima
fondamentalmente repubblicana del Risorgimento, carbonara e
democratica, divenne -salvo una fronda di irriducibili- monarchica e
fedele alla dinastia e ciò fu determinante per la stabilità e la
tenuta dello Stato. La maggioranza degli Italiani si rese conto che
senza i Savoia, senza i loro ministri, i loro piani, la loro
diplomazia, i loro soldi e il loro esercito organizzato e fedele,
sarebbe continuato ad accadere ciò che Cavour rimproverava a
Mazzini: “Voi mandate a morire stuoli dei nostri giovani per
nulla.” Erano i normali contrasti fra due grandi uomini, s'intende,
ognuno dei quali fece la sua parte per l'Italia, contrasti anche
forti che però non ebbero mai la meglio sul traguardo supremo da
raggiungere: l'indipendenza e l'unità della Patria.
Scrisse
a questo proposito Mazzini nella sua opera “I doveri dell'uomo”:
“Senza Patria, voi non avete nome, né segno né voto né
diritti né battesimo di fratelli fra i popoli. Siete i bastardi
dell'umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi
non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Né v'illudete a compiere, se prima non vi conquistate una Patria, la
vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale.”
E
Cavour scrisse nel suo saggio “Des chemins de fer en Italie”
(le ferrovie in Italia):
“la storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può
raggiungere un alto grado d'intelligenza e di moralità senza che il
sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un
popolo che non può essere fiero della sua nazionalità, il
sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in
alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le
posizioni più umili nella sfera sociale hanno bisogno di sentirsi
grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della
propria dignità.”
Parole
che oggi suonano risibili nel clima da Risorgimento perduto in cui ci
troviamo: un clima fatuo e babelico di smemoratezza e ignoranza, dove
al venir meno dell'identità nazionale si accompagna il relativismo
culturale e morale e il tradimento delle classi subalterne, in un
fatale sgretolarsi dei valori, dei principi e delle conquiste,
sociali e politiche, ottenute fin qui a prezzo di tanti immani
sacrifici.
Maria
Cipriano
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