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sabato 21 gennaio 2017

L'ALTO ADIGE E' ITALIA II° - "Le Fiere di Bolzano" di Ferruccio Bravi


Prefazione



Un evento di grande portata storica e militare, quale fu la Vittoria del 4 novembre 1918, dovrebbe essere già di per sé sufficientemente valido a porre fuori discussione il diritto dell'Italia all'Alto Adige, in quanto è diritto scaturito dalla forza delle armi e dal sacrificio cruento e quindi non meno valido del diritto originato da altre fonti; ma purtroppo il trascorrere del tempo e lo scadimento dei costumi vanno attenuando nella coscienza degl'Italiani il significato storico e morale della Vittoria, mentre l'Alto Adige diviene oggetto di discussione, mentre la carenza dei pubblici poteri e il lassismo della generalità degl'Italiani incoraggiano una minoranza linguistica a reclamare a sua volta – con la parola, con gli oltraggi, con gli attentati – il diritto di rescindere il suo destino da quello dell'Italia. Nasce così la necessità di rievocare, al di là della Vittoria di quarantaquattro anni orsono, quei fatti di più remota origine che sono alla base del diritto dell'Italia alla terra atesina e trascendono anche la santità del principio secondo cui i confini politici degli stati nazionali devono coincidere con i confini geografici: intendo le tradizioni storiche, culturali ed economiche attraverso le quali l'Italia ha espresso la sua presenza morale in Alto Adige nei secoli passati. L'Italia è a Bolzano, è al Brennero, non già dal 4 novembre 1918: a dimostrare che l'Alto Adige non è terra tedesca, ma terra latina e neolatina, basta qualche considerazione più approfondita di quelle comunemente acquisite. Non pretendo di affermare cosa nuova nel ricordare, ad esempio, che il cosiddetto gruppo etnico tedesco non è affatto un gruppo compatto, bensì la risultante di una mescolanza di stirpi in cui l'elemento germanico ha un'entità trascurabile: la maggioranza dei sud-tirolesi è di stirpe neolatina, ne più ne meno come i trentini e i cosiddetti ladini, sovraimposta alla stirpe retica ( composita e non germanica ) e rinvigorita da nuclei italiani rifluiti dal sud in varie epoche, non l'apporto etnico di trascurabili gruppi immigrati dalla Germania alla spicciolata ( baiuvari, e più tardi bavaresi, svevi etc. ) ma le particolari condizioni politiche imposte dal germanesimo nel corso di otto secoli alla nostra regione, hanno sottoposto la popolazione atesina ad una progressiva germanizzazione, prima occasionale e infine sistematica. Che la popolazione dell'Alto Adige sia di stirpe in gran prevalenza non tedesca è facilmente dimostrato – oltre che dagli studi specifici del Tolomei prima, del Battisti ed altri poi - dalla schiacciante maggioranza di cognomi atesini di origine neolatina e, in parte, di forma prettamente italiana.
Perciò quando oggi, più o meno a sproposito, si parla di un diritto etnico in base al quale si devono difendere e conservare i caratteri della lingua, dalla cultura e dal folklore altoatesino, ci si dimentica che tali caratteri sono tutt'altro che originari e sono invece soprattutto acquisiti attraverso un processo di assimilazione linguistica che, con il venir meno delle condizioni politiche che l'hanno determinato, è suscettibile non di conservazione ma di ulteriori mutamenti. Malgrado tutto questo, vive e prospera il dogma di un Alto Adige « compattamente tedesco per lingua e per tradizioni, strappate a non si quale madre patria tedesca (1) » su questo dogma vivono di rendita i più insigni cervelloni d'oltralpe ai quali nulla manca per bandirlo ai quattro venti: dalle più svariate associazioni politiche e culturali istituite sia in Germania che in Austria, alle pubblicazioni d'ogni genere largamente sovvenzionate, alla stampa periodica e quotidiana attraverso la quale essi battono e ribattono il chiodo del sud tirolo tedesco in clima di rifiorente pangermanesimo. A questo punto s'impone una domanda: cosa si fa dalla nostra parte? Poco e niente. Ad una « cultura » aggressiva e ben foraggiata di parte tedesca, l'Italia ufficiale oppone il culturame degli pseudo-intellettuali e degli pseudo-politici permeati da quella « cupidigia di servilismo » scaturita dalla disfatta: costoro mettono in dubbio, quando non misconoscono o rinnegano, il diritto dell'Italia all'Alto Adige. Ai pochi studiosi seri, pensosi e documentati l'Italia ufficiale nega protezione e incoraggiamento, ignorandoli o addirittura contrastandone l'attività che essi svolgono in umiltà francescana. Dalla constatazione di questa grave carenza che tanto nuoce alla causa dell'Alto Adige è nata l'idea della nostra collana « I Quaderni della Clessidra » i quali hanno lo scopo di divulgare in forma piana ed accessibile ciò che gl'Italiani non possono ignorare, anzi debbono rammentare costantemente, a meno di non disertare una lotta che per l'Alto Adige non è soltanto di posizioni politiche, ma soprattutto di posizioni morali. Ferruccio Bravi apre la collana con una monografia sulle “Fiere di Bolzano”. L'argomento, da altri in passato trattato in forma discontinua e frammentaria, ha trovato in lui un documentatore accorto e vigile, oltre che un espositore spassionato e arguto che riesce a trattare con briosa vivacità una materia di per sé arida e piatta. Ci auguriamo che a questa iniziativa arrida un meritato successo che possa giovare, non già a noi della “Vetta d'Italia”, ma agli italiani e a l'Alto Adige. Ne trarremmo conforto e incitamento per moltiplicare le nostre energie e i nostri sforzi affinché il seme da altri maggiori gettato non vada perduto.

Andrea Mitolo
Bolzano, 4 Novembre 1962



LE FIERE DI BOLZANO
E LE ATTIVITÀ MERCANTILI ITALIANE NEL PASSATO



ORIGINI LEGGENDARIE: DA ARRIGO IL SANTO AL POVERELLO D'ASSISI

Una tradizione fondata su una scrittura del tardo settecento fa risalire agl'inizi del mille l'istituzione delle fiere di Bolzano per effetto d'una carta mercantile concessa da Arrigo II il Santo. Era questi un imperatore di Germania noto ai tedeschi per mitezza e specchiata virtù, ma ancor più noto agl'italiani per aver spodestato Arduino primo re d'Italia e per la ferocia con cui aveva represso la rivolta antitedesca divampata a Roma nell'anno della sua incoronazione. Ambita o meno che sia, questa sanzione germanica posta alle origini dei mercati bolzanini è da relegare nel mondo della leggenda : se si pensa che la nostra città agli albori del mille era nulla più che un oscuro villaggio incastrato fra la nebbia e gli acquitrini, è facile immaginare che il santo imperatore, discendendo e risalendo la val d'Adige al fianco della sua illibata Cunegonda, non abbia neanche notato i quattro tuguri divisi da un crocicchio che, con la chiesa, costituivano tutta la Bolzano di allora. Non meno dubbia appare certa documentazione indiretta secondo la quale Bolzano sarebbe stata città mercantile già nel 1070 ; città lo era forse quanto Petramala che Dante chiama argutamente «amplissima urbs» o quanto Novgorod ai tempi di Gogol, sorta attorno ad una “magnifica pozzanghera". Gli ampliamenti del nucleo primitivo del villaggio nel corso del dodicesimo secolo furono di entità cosi trascurabile che difficilmente potremmo ambientare in quelle mura ristrette una fiera o un mercato locale d'una certa importanza. Di conseguenza non ha fondamento la pur suggestiva tradizione, generalmente accolta, secondo la quale Francesco d'Assisi avrebbe dimorato per qualche tempo a Bolzano col padre Bernardone, ricco mercante di panni, e avrebbe servito la Messa all'altare di S. Ingenuino sul luogo dove fu poi edificato il convento dei Francescani.

CARATTERE ITALIANO DELLE PRIME FIERE

Senza tanto dilungarci su leggende e notizie di scarsa base, passiamo senz'altro alle prime documentazioni dirette delle fiere bolzanine che risalgono agil'inizi del duecento. Si tratta di elementi scarsi e frammentari da cui si può agevolmente dedurre che a Bolzano, non meno che in altre città d'Italia, le più antiche manifestazioni nundinali avevano carattere italiano. Basti l'accenno ad un particolare privilegio goduto anticamente dalla Comunità di Riva che inviava a Bolzano una sua rappresentanza con il proprio stendardo ; la presenza dei rivani nella nostra città era la «conditio sine qua» non potevano celebrarsi le fiere. Questa circostanza sembra confermare il carattere locale di tali fiere che saranno in grado di uscire dall'angusto ambito dell'economia regionale soltanto più tardi, nel duecento inoltrato, quando si sviluppano i grandi traffici e gli scambi tra il nord e e il sud dell'Europa. Da questo sviluppo procede la fortuna economica dei centri favoriti dalla posizione geografica, come la nostra città situata sulla grande arteria commerciale che collega l'Italia alle terre d'oltralpe. Questa realtà crea i presupposti della funzione economica di una Bolzano destinata a divenire punto di sutura – un "ponte" si direbbe oggi – delle nazioni latina e germanica; punto di sutura, beninteso, dei rispettivi interessi commerciali e non già dei due popoli, che restano fatalmente separati – ad onta dei deliri europeistici di casa nostra – da una profonda diversità di cultura e di tradizioni, oltre che da una barriera naturale insopprimibile.

DAL PREDONE MAINARDO A ENRICO «RE» FANNULLONE

Le condizioni politiche dell'Alto Adige nella seconda metà del tredicesimo secolo determinano un arresto al naturale evolversi delle fortune mercantili di Bolzano. Il dominio dei conti di Tirolo che si sovrappone alla signoria dei vescovi di Trento e di Bressanone - vassalli dell'Impero dagli albori del Mille - crea profondi rivolgimenti in tutta la regione fra il Brennero e il Garda: usurpazioni, eccidi, razzie e rovine segnano l'affermarsi dei nuovi padroni, i conti tirolesi, e raggiungono il culmine sul finire del duecento con Mainardo II, predone tre volte scomunicato come il tiranno Ezzelino di cui egli emula le gesta. Bolzano, teatro dell'estrema contesa fra il vescovo di Trento e il conte di Tirolo, insorge contro l'usurpatore nel 1277; ma dopo un breve assedio è costretta alla resa. Il muro di cinta è abbattuto, la torre diroccata, l'abitato ridotto in un cumulo di macerie; gran parte degli abitanti periscono nelle stragi o trovano scampo nella fuga. Un disastroso incendio semina nuove distruzioni e lutti nel 1291. Dopo tante vicissitudini, la città comincia a risorgere, si rianima, anche la sua vita commerciale riprende. Spento ormai il ricordo degli orrori legati alla conquista di Mainardo, i bolzanini si acconciano al nuovo ordine di cose. Del resto il nuovo conte tirolese è abbastanza tollerabile: regna ma non governa, come si addice appunto ad un sovrano quale egli, Enrico, era stato prima di essere deposto dal trono di Boemia. Il conte Enrico piace: è uno spendaccione gaudente che ama i banchetti e le cacce, s'indebita fino al collo, vive e lascia vivere. E' in questo clima di beata distensione che i commerci tornano a fiorire e gl'italiani rifluiscono a Bolzano.

L'ETA' DI DANTE : I BIANCHI, I NERI... E I ROSSI

Mentre Bolzano risorge, un'altra città più a sud va in rovina : è Firenze, « la città partita», sconvolta dal furore delle fazioni, prossima a diventare preda del primo arrivato. Come Dante, molti fiorentini di parte Bianca lasciano le rive dell'Arno volgendo i passi verso il nord con la patria nel cuore e una disperata nostalgia. E' proprio in questi anni, i primi del trecento, che la comunità fiorentina di Bolzano si dilata: ai molti concittadini sospinti in Alto Adige dal naturale espandersi del ceto mercantile, si uniscono gli esuli e coloro che non sono compromessi con la politica, ma desiderano concludere in santa pace gli affari loro. Fra gli immigrati di vecchia data è Lambertuccio Frescobaldi, banchiere mercante e anche poeta, parente di quel Berto spaccone che - narra il Compagni - «disse forte villania a Giano della Bella» e barcamenandosi fra Bianchi e Neri non prese mai posizione nelle grandi contese. In Alto Adige il Frescobaldi non fa poesia: fa lucrosi affari come banchiere dei conti di Tirolo. Dopo la sua morte, seguita nel 1304, ascende a grande fortuna un'altra importante casata mercantile di Firenze: è quella dei Rossi, originari del sestiere di S. Felicita, che a Bolzano, ad Egna a Trento e in seguito anche ad Innsbruck posseggono gabelle, mute e «casane». La casana - banco di prestito su pegno - è peculiare istituzione dei fiorentini che la introducono a Bolzano verso il 1290 (ne è titolare un «prestitor Caspar»); esisteva già a Merano - ove la comunità fiorentina era altrettanto numerosa che nella nostra città - fin dal 1287 ed era gestita da un «Filipus Tuscanus de Florentia» e dai suoi fratelli Morsello e Nasone.


PRODIGHI E USURAI I MERCANTI FIORENTINI

Ai Rossi, poi intedescati in Botschen, si deve in parte l'abbellimento della città di Bolzano risorta dalle rovine del 1277 e del 1291. La loro munificenza e attestata dallo stemma di famiglia che si trova in S. Giovanni in Villa ; qui, come pure nelle chiese cittadine, molte pie fondazioni si intitolano al loro nome. Numerosi altri fiorentini esercitano la mercatura a Bolzano nell'età di Dante: nella nostra città si trovano a loro agio, come a casa loro, italiani fra italiani poiché tali erano i bolzanini in quegli anni, non ancora contaminati dalla lingua e dai costumi dei tedeschi. In questa seconda patria commerciano, si arricchiscono e non lesinano il soldo nel contribuire ai restauri della città che rinasce più estesa e più bella attorno al rettifilo dei Portici. Investono capitali ingenti acquistando o costruendo edifici; diventano proprietari di vasti fondi rustici nel contado bolzanino come pure nel Meranese e nel Burgraviato; gravano d'ipoteche i beni stabili di famiglie locali borghesi e magnatizie. Perfino Castel Macina, proprietà del conte di Tirolo ingolfato nei debiti, è pignorato da una società di banchieri di Firenze che vi eserciscono l'appalto del dazio e vi installano un banco di prestiti ad usura tanto malfamato che la tradizione ne ha consacrato il soprannome «Casa degli Strozzini ».

LA FIERA SOTTO I PORTICI

Al tempo dei Rossi e dei Frescobaldi le fiere di Bolzano erano soltanto due : quelle di mezza Quaresima e di S. Egidio, poi chiamata di S. Bartolomeo. Più tardi se ne aggiunsero altre due: quella di S. Andrea, istituita verso il 1357, e quella del Corpus Domini che ebbe origine dal mercato di Pentecoste di Merano trasferito a Bolzano agl'inizi del sedicesimo secolo. Le quattro celebrazioni si avvicendavano a intervalli quasi regolari nel corso dell'anno e duravano almeno due settimane ciascuna. Più solenne e meno strepitosa di oggi ne era l'apertura: non diversamente che a Roma, a Napoli e in altri centri della Penisola, le grandi fiere di Bolzano erano annunciate da un suono festoso di campane e proclamate da un magister nundinarurn parato a festa preceduto da un pittoresco tamburino che accompagnava il suo passo cadenzato. Il mercato si teneva nella via dei Portici dove i « fonteghi » e i magazzini rigurgitavano d'ogni ben di Dio : lungo i cosiddetti «portici italiani» (a settentrione) si esponevano le pregiate sete di Lucca, le «pezze» di Milano e quelle di Firenze col sigillo dell'Arte della Lana, i prodotti orientali importati da Venezia, oggetti di squisita fattura creati dalle botteghe artigiane della Toscana, di Napoli, di Roma, della lontana Calabria; dirimpetto, lungo i «portici tedeschi », facevano bella mostra oggetti d'oro e di ferro battuto, pellami e cuoi a sbalzo, merci d'ogni genere provenienti dai paesi nordici. Rare le insegne e non ispirate al cattivo gusto della bilinguità ad oltranza. Sotto i portici si contrattava in italiano, in tedesco o in dialetto senza instralci o inibizioni freudiane ; poiché a quei tempi l'on. Volgger non era ancora nato e il «diritto» di fingere d'ignorare l'italiano a Bolzano era ancora di là da venire.





SOPRUSI CONTRO I MERCANTI ITALIANI

Il promettente svolgimento delle fiere bolzanini subisce. un duro colpo verso la fine del quindicesimo secolo in coincidenza con un grave avvenimento politico: l'apertura delle ostilità contro Venezia, nel 1487, da parte di Sigismondo il Danaroso arciduca d'Austria. Insediata politicamente nel basso Trentino, presente nella stessa Bolzano con i suoi mercanti, la potenza veneziana costituiva una costante minaccia ai domini degli Absburgo al di qua delle Alpi. Fu la guerra, breve e travolgente, che ebbe sfortunato epilogo a Calliano dove la Serenissima fu battuta e umiliata. A Bolzano, già nell'aprile di quell'anno, Sigismondo aveva fatto imprigionare qualche centinaio di mercanti veneziani; dopo Calliano, egli dette un secondo giro di vite emanando un privilegio per le fiere di Bolzano che nella sostanza danneggiava i nostri commercianti. La nuova carta mercantile, datata 1488, disponeva testualmente all'art. IV: «Dato che i Welschen (ossia i forestieri italiani), acquistano molte case e vi collocano persone di scarso conto è nostro intendimento che essi abitino personalmente gli alloggi o li cedano a gente più adatta agli affari e ai bisogni della città». A questa disposizione restrittiva, in apparenza di scarsa portata, si ispirarono una serie di provvedimenti iniqui che le autorità locali emisero a danno degl'italiani dal 1488 fino oltre la metà del cinquecento. Con uno zelo degno di causa migliore, i tirolesi dell'amministrazione civica adottarono misure energiche per impedire l'afflusso di italiani a Bolzano e per estromettere quelli che già vi risiedevano, rendendo inoperante lo statuto del 1448 che concedeva il diritto di cittadinanza agli italiani e ai ladini. Per effetto delle nuove norme anche quei mercanti italiani che possedevano case in città ed erano regolarmente iscritti nei registri d'incolato furono trattati come stranieri e privati d'ogni beneficio goduto dai bolzanini.

VIA GLI ITALIANI! LA CITTA' DIVENTA TEDESCA

«Mandare fuori dai piedi gli italiani » - anweck pack'n zum taiffl - era lo slogan alla moda: una deliberazione comunale del 1524 ne dava pratica attuazione negando tassativamente ai nostri connazionali il diritto di risiedere a Bolzano. La deliberazione, riconfermata ben tre volte fino al 1568, appare ancora in vigore nel 1579: è infatti in quest'anno che il Comune rifiuta la residenza a un gruppo di commercianti italiani (Raffaele Marco da Firenze, Domenico Avancini da Riva, Cristiano Visintin da Trento e molti altri) che si proponevano di impiantare a Bolzano un istituto di credito e un'industria per la lavorazione della seta in cui avrebbero trovato occupazione parecchi operai italiani e tedeschi. Il rifiuto era motivato dal timore che le progettate attività
richiamassero a Bolzano altri italiani «con grave pregiudizio per il carattere tedesco della città». Bolzano era infatti diventata tedesca nel corso degli ultimi cento anni, tedesca nelle architetture e nel linguaggio : fin dal 1483, anno del disastroso incendio che aveva distrutto la città vecchia, si era intensificata la costruzione di edifici in quello stile gotico che altrove aveva già fatto il suo tempo, specie in Italia dove le città erano state «riempite - scrive il Vasari - di questa maledizione di fabbriche»; non diversamente, alla lingua usuale che a Bolzano era stata italiana fin verso la metà del quattrocento - cosi riferisce P. Felice Faber da Ulma e conferma Gian Pirro Pincio - si era sovrapposto, sguaiato e duro, il dialetto tirolese. La città aveva assunto un volto diverso, la comunità italiana si era assottigliata, ristagnavano i commerci e le attività delle fiere sulle quali era fondato il benessere della cittadinanza. Cosi piaceva ai tirolesi di allora; cosi piacerebbe anche a certi tirolesi di oggi che pur di non convivere con gl'italiani ridurrebbero la nostra città nello squallore d'un paesone privo di risorse, miserabile, ma tutto tedesco.



REALTA' INSOPPRIMIBILE. LA PRESENZA DEGL'ITALIANI A BOLZANO

Malgrado le difficoltà e i provvedimenti discriminatori, la vitalità dei nuclei italiani restati a Bolzano è ancora notevole verso la metà del cinquecento. Molte case sono ancora in possesso di nostri commercianti che tendono a concentrarsi nella zona dei Portici. Lo sviluppo delle fiere riprende, quantunque i nostri mercati siano un po' dappertutto in decadenza: è ancora una volta Venezia che tenta la penetrazione economica nell'Alto Adige mirando al monopolio delle attività commerciali italiane e tedesche. Anche la presenza di «commedianti welsch» - attori comici e cantanti - in tempo di fiera a partire dalla metà del secolo è indice di una notevole consistenza dell'elemento italiano in città. La nostra collettività diventa ancora più numerosa al principio del seicento: ne abbiamo conferma in una richiesta, avanzata dai commercianti al Comune nella primavera del 1609, intesa ad ottenere la nomina d'un giudice di nazionalità italiana per risolvere le controversie mercantili. Questa aspirazione sarà ampiamente soddisfatta nel 1633 mediante l'istituzione del Magistrato Mercantile di Bolzano, speciale magistratura con attribuzioni e strutture simili a quelle dei fori commerciali preesistenti in altre città d'Italia. Nel complesso si hanno favorevoli indizi circa la folta presenza di mercanti italiani durante i primi decenni del seicento; non è possibile stabilirne il numero esatto - nella vecchia Bolzano era ancora sconosciuta l'usanza di «contarsi » giorno per giorno come si fa oggidì - però si può precisare in base a documentazioni attendibili che le case commerciali italiane della città, rispetto a quelle tedesche avevano allora il rapporto di tre a uno, più o meno come ai nostri giorni.


CLAUDIA DE' MEDICI E IL MAGISTRATO MERCANTILE

Un'arciduchessa d'Austria d'illustre famiglia toscana, Claudia de' Medici «relicta vedova» d'un Absburgo e reggente la Contea del Tirolo, concedeva fra il 1633 e il 1635 privilegi e franchigie ai mercanti che frequentavano le fiere della nostra città. Per effetto di tali privilegi - che fra l'altro ponevano su un piano di parità i commercianti italiani e tedeschi - sorgeva il Magistrato Mercantile di Bolzano, organismo che per oltre due secoli sarà valido strumento di prosperità economica non soltanto per la città, ma per tutta la provincia tirolese. Il Magistrato Mercantile esercitava ampi poteri giurisdizionali in materia di fiere e di commerci, in specie per la composizione delle controversie tra fieranti ; era retto da due consoli - magistrati di prima e di seconda istanza - assistiti ciascuno da due consiglieri. Consoli e consiglieri - alternativamente italiani e tedeschi - erano eletti dal corpo dei Contrattanti costituito dai più reputati frequentatori delle fiere elencati in una matricola; i candidati alle cariche dovevano pure essere iscritti nella matricola e la loro elezione doveva essere ratificata dal Governo provinciale. Per elezione si nominava pure il personale amministrativo costituito da cancellieri, attuari (coadiuvati da notai in tempi più recenti), bidelli, cursori etc. Il Magistrato Mercantile disponeva anche di una stamperia impiantata nella città da i n tipografo probabilmente veneziano, Carlo Girardi, nel 1659; si tratta della prima tipografia di Bolzano, sorta ben centosettanta anni dopo quella del Manuzio (non soltanto l'arte della stampa, ma tutto in Alto Adige ebbe carattere ritardatario, specialmente nei periodi in cui ristagnavano le attività italiane). Alla complessità delle strutture del Magistrato faceva riscontro l'estrema snellezza dei procedimenti giudiziari, come esigeva lo spirito pratico dei commercianti che anche allora detestavano le lungaggini burocratiche e le sottigliezze dei legulei; a costoro - salvo rare eccezioni - era anzi interdetto l'ingresso nel foro mercantile. Altra categoria di illustri esclusi era quella dei baccani tirolesi dediti al commercio del bestiame, del vino, delle biade e di altre mercanzie villerecce. Esclusione più che giusta: rifiutandosi di accogliere nel suo seno quei tipici «ornamenti» del paesaggio tirolese, il Magistrato era coerente al motto della sua impresa che era, appunto, «Ex merce pulchrior».



LINGUA ESCLUSIVAMENTE ITALIANA FINO AL 1787

Dell'attività svolta dal foro mercantile per oltre duecento anni resta una imponente documentazione costituita da una cinquantina di codici e circa cinquecento fasci di atti giudiziari e contabili in gran parte rilegati in volume. Queste scritture sono redatte esclusivamente in italiano, salvo qualche inserto, fino al 1787; dopo quest'anno - per effetto della politica germanizzatrice di Giuseppe II - la lingua tedesca sostituisce gradualmente la nostra fino a diventare lingua unica d'ufficio nel 1809. Italiano era anche il testo degli originali delle patenti sovrane concesse al Magistrato, dalla «carta claudiana» del 1635 - ispirata dagli ordinamenti mercantili della città di Verona - alle varie riconferme dei successori di Claudia avanti le riforme giuseppine; questi originali purtroppo non si trovano più, essendo stati trafugati da nazisti tirolesi nel corso dell'ultima guerra. Le cariche del Magistrato erano generalmente ricoperte da italiani: fra il 1633 e il 1800 più della metà dei consoli e dei consiglieri, quasi tutti i cancellieri e gli attuari appartenevano alla nostra nazionalità. Fra i cancellieri si ricordano anche tre Rosmini ascendenti del filosofo roveretano. L'entità dell'elemento mercantile italiano emerge con maggiore evidenza dal ruolo o matricola dei contrattanti in cui sono elencati nomi di commercianti d'ogni parte d'Italia: molto elevato e il numero dei roveretani, dei trentini, dei lombardi e dei lucchesi; notevole il concorso dei fiorentini, dei marchigiani, dei romani e degli umbri; calabresi, pugliesi, triestini, dalmati e siciliani sono pure presenti. Più numerosi di tutti sono i veronesi che nel 1638 rappresentano quasi la metà dei contrattanti italiani e nel corso di due secoli di vita mercantile di Bolzano danno al Magistrato ben 71 consoli e 170 consiglieri.





L'arte della stampa fu introdotta nell'Alto Adige a più di un secolo
dall'invenzione dei caratteri fusi. La prima tipografia atesina era sorta a
Bressanone verso il 1560 per opera di un prete solandro, Donato Fezio;
la città di Bolzano dovette attendere altri cento anni prima di avere
 una propria stamperia. Anche qui l'arte tipografica fu introdotta
 dall'italiano Carlo Girardi nell'anno 1661.


ARTE ITALIANA E MECENATISMO MERCANTILE NEI LA BOLZANO DEL SETTECENTO

L'apporto dei veronesi è determinante non solo nell'ambito della mercatura, ma anche nelle manifestazioni artistiche da esse incoraggiate. Notevoli sono le tracce dell'attività svolta a Bolzano da artisti della città scaligera provenienti da ricche famiglie mercantili, quali i Perotti i Balestra il Pezzi e altri ancora. A un Francesco Perrotti si deve il progetto della sontuosa sede del Magistrato Mercantile, fra via Argentieri e i Portici Italiani, che ospita attualmente la Camera di Commercio. L'opera fu relizata fra il 1708 ed il 1728 dagli architetti civici di Bolzano Giovanni e Giuseppe Delai, originari della Lombardia; nelle sale spaziose dell'edificio si ammirano tuttora opere di artisti veronesi e lombardi, fra le quali tele pregiate di soggetto sacro, profano e allegorico. Risalgono al periodo della massima floridezza del commercio bolzanino parecchie opere d'arte italiana realizzate con il danaro dei nostri mercanti, la cui munificenza era in stridente contrasto con la proverbiale tirchieria della civica amministrazione. Accenniamo alle più importanti: la cappella fatta edificare dai fieranti nella Chiesa dei Domenicani fra il 1640 e il 1685, con altare e dipinti (la pala è del Guercino) – opere tutte di scultori e pittori italiani; l'altare, il secondo, offerto da «mercatores ad nundinas confluentes» alla cappella di S. Antonio nella Chiesa dei Francescani, opera dello scultore ed architetto Giovanni Battista Bianchi, uno dei tanti artisti veronesi che a Bolzano hanno lasciato orma durevole. Il mecenatismo mercantile finanzia pure manifestazioni musicali e teatrali di carattere italiano che s'impongono al gusto del pubblico ormai stucco dei tradizionali Spiele di marca nordica. Opere buffe di Paisiello e Cimarosa, rifacimenti di commedie goldoniane (La Pamela Nubile) e altre ancora spengono del tutto il ricordo dei tetri polpettoni d'ambiente biblico-tirolese, ai quali Aristotele tutto avrebbe rimproverato salvo il rispetto dell'unità di luogo: ché l'azione di codesti Spiele si svolgeva da cima a fondo attorno ad una tavola apparecchiata o nell'Arca di Noè.



DECADENZA DELLE FIERE

Raggiunta la massima floridezza nei primi decenni del settecento, le fiere di Bolzano cominciarono a decadere verso la metà del secolo per varie cause: la concorrenza dei traffici incanalati su nuove strade aperte verso i Grigioni e le Alpi Carniche, il mancato sostegno delle autorità governative e, soprattutto, l'evolversi della situazione marittima nell'Adriatico. In questo mare la potenza veneziana ormai al tramonto perde posizioni su posizioni a vantaggio dell'Austria che inaugura, appunto nell'Adriatico, una propria politica marinara: nel 1719 Trieste e Fiume sono dichiarati porti franchi e nasce la «Compagnia Orientale» che assume l'appalto dei traffici fra l'Adriatico e il Danubio; più tardi, nel 1729, il governo austriaco progetta di manipolare le tariffe doganali in modo da favorire il transito attraverso Trieste e Fiume e far dirottare le merci italiane sulla «via di Villaco» scavalcando a monte la «via del Tirolo». Il Magistrato Mercantile tenta di correre ai ripari inviando ad Innsbruck e a Vienna una commissione con l'incarico di distogliere il governo da tale proposito; vari «botticelli di vin dolce» e altre «regalie a ministri e paroni» rendono più convincenti le argomentazioni dei commissari che riescono a spuntarla con relativa facilità, ottenendo dal governo la proroga delle vecchie tariffe e l'impegno di lasciare in stato di abbandono e quindi intransitabili le vie di comunicazione con Trieste. Ciò non impedisce a Vienna di riprendere, di li a qualche decennio, la sua politica adriatica che fa di Trieste la grande concorrente di Venezia e il primo porto dell'Impero. Speciali riduzioni e franchigie daziarie sono in seguito elargite alla città dal Governo che in pari tempo provvede a riattivare le vie di comunicazione fra il porto e l'Hinterland. Di conseguenza sono compromessi i traffici sulla via del Brennero sempre più disertata; il volume d'affari nelle fiere di Bolzano subisce una progressiva contrazione che diventa allarmante quando, nel 1780, Maria Teresa d'Austria impone alla città onerose tariffe daziarie. Tre anni dopo, entra in scena Giuseppe II con le sue riforme ed è la fine.

GIUSEPPE II - RESTAURATORE E AFFOSSATORE DEI COMMERCI

Figura sconcertante e piena di contraddizioni, Giuseppe II era figlio del tempo dei lumi: si piccava di essere un sovrano illuminato, ma in pratica fu un maldestro innovatore che, smanioso di conferire una impronta personale alle strutture del suo Impero, travolgeva istituzioni, tradizioni e statuti come un rullo compressore; a parer suo tutto l'universo, da un capo all'altro, doveva essere riformato e fatto tedesco. Le alzate d'ingegno giuseppine avevano suscitato una giustificata apprensione fra i mercanti di Bolzano i quali, già ridotti a mal partito, erano ormai rassegnati a subire dal nuovo padrone la mazzata fatale: però, contro tutte le previsioni, il primo atto di Giuseppe II nei confronti del ceto mercantile fu magnanimo: «con benigno rescritto» stilato nel 1783, egli dette un bel colpo di spugna alla gabella teresiana, suscitando entusiasmi e liriche effusioni. I mercanti benedissero il nume imperiale salutandolo «restauratore della pristina libertà dei commerci» e gli dedicarono un'ode prolissa e zuccherosa, nonché un retorico monumentino in gesso - da ammirarsi ancor oggi nel Palazzo Mercantile - che raffigura il Cesare austriaco nell'atto di porgere il caduceo a un Mercurio, piuttosto malconcio, prostrato ai suoi piedi. Tutto bene, senonché di li a un anno Giuseppe si penti di tanto gesto - si sa, la generosità degli Absburgo è fatta così e impose al Magistrato un nuovo regolamento che sopprimeva di fatto lo statuto claudiano, avocando fra l'altro al Governo la seconda istanza mercantile. Il provvedimento fu una doccia fredda sui mercanti che ne invocarono l'abrogazione, ma a nulla giovarono stavolta le ambascerie, i doni e gli appelli patetici: Cesare fu irremovibile di fronte alla costernazione dei mercanti, per lo meno quanto lo era stato di fronte alla Santità umiliata del pellegrino apostolico di montiana memoria. Per finire, l'Imperatore coronò il suo capolavoro inaugurando a Bolzano quei santi principi di discriminazione etnica che da allora in poi avvelenano i rapporti fra le due nazionalità.




FINE INGLORIOSA DELLE FIERE E DEL MAGISTRATO MERCANTILE

I provvedimenti giuseppini che avevano bloccato del tutto le residue risorse dei commerci di Bolzano sono annullati nel 1792 dal successore Leopoldo II che restaura il vecchio statuto claudiano. Questa resipiscenza non ripara il danno, né scongiura l'imminente sfacelo dei commerci della città: dopo tante vicissitudini, le fiere e il Magistrato hanno perduto la vitalità originaria e il ceto mercantile è sceso di tono soprattutto per l'esodo degl'italiani provocato da ostruzionismi e discriminazioni. Quest'ultima circostanza determina l'ascesa d'una sordida classe commerciale tirolese che fa capo ai Gumer, famiglia non del tutto oscura avendo dato alla città un borgomastro tre volte confermato e un console mercantile, poi consigliere e fabbriciere del Magistrato. Divenuti grassi borghesi e magnati del commercio, i Gumer tralignano e salgono agli onori della cronaca e del pettegolezzo come protagonisti di vicende piccanti che screditano del tutto il ceto mercantile del tempo: nel 1780 un Francesco Domenico de Gumer s'impegola nella massoneria e fonda a Bolzano la prima loggia che ospita il fior fiore dei commercianti; sette anni dopo Francesco e Anton Maria Gumer sono ingolfati di debiti e travolti da un clamoroso fallimento; tornati alla ribalta nel periodo italico, i Gumer con altri mercanti sono implicati nel noto pasticciaccio di Madamigella Menz e nello scandalo del «sussidio inglese». In questo clima di cabale e intrighi il commercio di Bolzano agonizza e, con esso, anche il Magistrato Mercantile che, esautorato e germanizzato fino alle midolla, si riduce ad umbratile istituzione priva di contenuto e di vitalità. I grandi eventi del periodo napoleonico lo travolgono: soppresso, restaurato, rimaneggiato, riprende la sua lenta agonia sotto la Santa Austria; finché, decadute del tutto le fiere e soppressi gli statuti, perde completamente la sua ragion d'essere e il governo austriaco ne decreta la fine, ingloriosa, nel 1850.



DUE PAROLE SULLE FIERE ATTUALI


Dopo circa centocinquanta anni le fiere di Bolzano sono tornate in vita. Le ha riesumate la democrazia di questo dopoguerra: democrazia apportatrice di «novità» e di vanità. Naturalmente la Fiera d'oggi è tutta un'altra cosa: spostata ai margini della città, è stata ambientata in una magnifica gabbia di cemento su cui si legge «Fiera-Messe» in identica evidenza, come esigono i sani principi bilinguistici. All'apertura non più campane, non più tamburi. C'è il discorso del Sindaco, lungo lungo, che non finisce mai: un discorso in chiave di patriottismo europeo di «volemose bene», spoglio ed involuto secondo i canoni della retorica antiretorica del tempo nostro. Accanto al Sindaco c'è un vestigio del buon tempo antico, il magister nundinarunm, che pero non è più italiano come allora: è un tedesco della intramontabile dinastia dei Walther. Duro e compassato, fa finta di non voler far finta e inganna il tempo spiando la noia compatta delle autorità, da Sua Eccellenza in poi, rassegnate a subire fino in fondo la versione tedesca del discorso. Qualcuno ridacchia rivangando l'ultima barzelletta su un tal Ministro - li a due passi in carne e pancia - che impone le tasse e non le paga... Dopo di che, applausi, mollicce strette di mano, fugace visita ai padiglioni e finalmente l'exeunt gioioso verso il banchetto ufficiale che conclude « l'austera cerimonia». Quanto alla fiera propriamente detta non c'è molto da dire. Le novità sono quelle dell'anno avanti: dai rappresentanti d' oltralpe - sempre impalati sullo Stand come sulla torretta d'un Panzer - pronti a «épater le bourgeois» sui progressi della tecnica tedesca, allo spaccio gratuito del brodetto sintetico in tazza. Nulla sopravvive del dinamismo delle vecchie manifestazioni fieristiche. La fiera d' oggi pare governata dal sonno oltre che dai formalismi: appena aperta entra in fase di stanca e riesce a vivacchiare si e no una decina di giorni. E gli affari? Affaronissimi. Basta aprire un giornale d'osservanza per apprendere che «quest'anno il volume d'affari in Fiera ha superato tutti i records precedenti». Ogni anno scrivono cosi, a consolazione del contribuente e a maggior gloria del «miracolo economico».




Conclusione

Al termine della nostra fatica, modesta ma non lieve, ci auguriamo che il paziente lettore apprezzi, se non altro, l'attendibilità della documentazione che ne è serio fondamento, ad onta della olimpica strafottenza nostra affiorante qua e là in queste pagine. Nell'esposizione e nel commento riteniamo di essere stati abbastanza obiettivi. Obiettivi, certamente, ma niente affatto spassionati e senza riguardi per nessuno: né per i conformisti, né per i patiti del «giusto mezzo», né per quei barbassori del campo avverso che la pretendono a depositari della verità rivelata (intendiamo quegli studiosi tedeschi, oculati e metodici, cui nulla sfugge – salvo quello che non fa comodo a loro). I documenti sono quello che sono: parlano italiano. Anche noi, coerentemente, abbiamo parlato italiano; se questo scandalizza le vestali del bilinguismo e gli ammalati di europeite, pazienza. Non è davvero affar nostro il compiacere agl'idolatri dell'autonomia che plutarcheggiano di «pacifica convivenza» in questa terra che, grazie appunto all'autonomia, è tornata ad essere da un quindicennio in qua la terra di cani e gatti. Leggano, codesti signori, i documenti qui pubblicati e – se sono in buona fede – convengano con noi nell'ammettere che la «pacifica convivenza», oggi utopia, fu in altri tempi realtà; che essa non fu mai intitolata a leggi restrittive e discriminatorie – come quelle di Sigismondo, di Giuseppe imperatore e, oggi, dei legiferatori clerico-nazisti – ma al libero espandersi delle attività italiane in questa nostra marca di confine. Affermiamo questo con perentoria impertinenza, ma a ragion veduta e senza malanimo. Dopodiché, statevi bene, amici lettori. Arrivederci e grazie.




L' AUTORE




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