Premessa
«
Il fascismo fu una delle più italiane creazioni politiche che
ci siano state. » Così si espresse
Giuseppe Prezzolini nel capitoletto intitolato “Necrologio
onesto del Fascismo”
posto nelle ultime pagine del suo Manifesto
dei Conservatori pubblicato
nel 1972 alla veneranda età di novant'anni. Colui che attraverso
le proprie riviste (Leonardo
e soprattutto
La Voce)
preparò l'humus culturale da cui
sorsero tanto il Fascismo che l'Antifascismo, gettando il suo
caratteristico sguardo scettico e disincantato su quei fulminei
vent'anni, non poté far altro che ammetterne l'intrinseco
carattere Nazionale ed annoverare
il Fascismo tra le poche originali
forme di Stato elaborate in Italia. Chiunque,
oggi,
voglia rilanciare l'importanza del concetto di Patria in opposizione
al confuso magma dell'Unione Europea, in Italia dovrà fare i conti,
nel bene e
nel male, con il movimento
fascista e
le sue elaborazioni politiche, sociali ed economiche,
rappresentate all'unisono
dalla loro
sintesi più ardita rispondente al
nome di Corporativismo. Cosa
abbia rappresentato, da dove provenga, chi ne sia stato regista ed
attore, quanto possa ancora insegnarci, di questo ed altro abbiamo
parlato con Francesco Carlesi, autore di un importante
volume intitolato Rivoluzione
Sociale. “Critica Fascista” e il Corporativismo
edito da AGA Editrice nel 2015.
Francesco, giovane scrittore ed articolista presso i quotidiani in
rete L'Intellettuale Dissidente
e Il Primato Nazionale,
con stile limpido e armonioso ci ha regalato una lunga intervista da
leggere con profonda attenzione, volti
alla riscoperta delle radici culturali (italiane,
mediterranee, dinamiche, metamorfiche,
parafrasando l'articolo di Valerio Benedetti in chiusura del libro)
che sole potranno segnare un nuovo
cammino di sovranità e grandezza per la nostra Italia.
Sandro
Righini
Intervista
a
FRANCESCO
CARLESI
1)
Partirei con una domanda all'apparenza scontata, ma che serve a
mettere subito in chiaro i concetti di cui parleremo nell'intervista.
Potresti dare una definizione sintetica e pregnante di corporazione e
corporativismo così come furono intesi durante il Fascismo?
La
parola corporativismo indica l’impostazione economica e sociale del
fascismo, imperniata sui concetti di collaborazione di classe,
partecipazione organica dei lavoratori alla vita della Patria,
primato dello Stato in nome dell’interesse nazionale. Una terza via
che ambiva a porsi “oltre” il comunismo, basato sulla lotta di
classe, e il liberismo, fondato sull’individualismo e sul mercato,
dottrine entrambe materialiste (ed “egualitariste”, direbbe
Giogio Locchi). Questo in nome dello Stato, dell’anti-individualismo
e di una rivoluzione in primo luogo spirituale, pensiamo ad esempio
al mito dell’«uomo nuovo». La proprietà privata non veniva
annullata, ma rivestita di una funzione sociale, poiché tutto era
concepito in un quadro comunitario. La corporazione era l’organo
all’interno del quale sarebbe dovuta avvenire la collaborazione,
poiché questo istituto statale comprendeva rappresentanze sia dei
lavoratori (nel sindacato unico fascista) che dei datori, oltre che
del Partito Nazionale Fascista. A loro spettava il compito di
discutere le materie riguardanti la produzione e il mondo del lavoro.
Le corporazioni nacquero effettivamente nel 1934, e rappresentarono
tutti i rami della vita economica del paese (abbigliamento,
siderurgia, chimica, ecc…), dando vita ad un esperimento politico
molto dibattuto quanto originale. La “fase corporativa” era
iniziata già nel 1926 con la legge n.563, grazie alla quale il
sindacato fascista veniva riconosciuto quale organo di diritto
pubblico, per trattare alla pari con i datori di lavoro nella stipula
dei Contratti Collettivi, che avevano forza di legge. Diversamente
dall’oggi, dove i sindacati divisi esercitano le loro
rivendicazioni egoistiche fuori dal controllo pubblico e spesso senza
coscienza comunitaria e globale, si voleva inquadrare tutto
all’interno dello Stato: «occorre, dopo il partito unico, lo Stato
totalitario, cioè lo Stato che assorba in sé, per trasformarla e
potenziarla, tutta l’energia, tutti gli interessi, tutta la
speranza di un popolo», disse Mussolini nel 1933 all’Assemblea
generale del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Per molti
fascisti, nella redazione di «Critica» in
primis,
la meta fu quella di fare del lavoro il soggetto dell’economia e
non una merce.
2)
Emerge più d'una volta nelle citazioni di «Critica Fascista» poste
sul tuo libro non solo il richiamo alla Rivoluzione Francese, ma
anche la dichiarazione di un sincero intento democratico del Fascismo
stesso. Può suonare strano tanto a chi di storia conosce solo la
versione scolastica, quanto ad un neo-fascismo cresciuto sotto
l'egida del pensiero tradizionalista. Puoi spiegarci meglio in che
modo e in quale senso nella rivista di Bottai si affrontavano queste
tematiche?
Il
pensiero tradizionalista ha spesso contribuito a mettere in secondo
piano alcuni aspetti del fascismo che sono invece parte integrante
del suo spirito rivoluzionario. Penso all’Evola del Fascismo
visto dalla Destra che
critica il corporativismo e alcune sue spinte troppo “sociali”.
Leggendo «Critica Fascista» si comprende bene come molti
intellettuali e pensatori dell’epoca non avessero nulla a che a
fare con qualsivoglia destra, tanto da mettere in primo piano la
questione delle riforme sociali e dell’integrazione delle masse
nello Stato. «La Rivoluzione non va né a destra né a sinistra. Va
per la sua via ridendosi di tutte le terminologie. Essa ha di fronte
un punto cardinale: lo Stato corporativo. Diciamo: di fronte. Né a
sinistra, né a destra. Ma a destra mai!», scrisse Bottai. Lo stesso
gerarca chiarì i rapporti con la Rivoluzione Francese (studiati a
fondo da uno dei migliori storici del fascismo, Emilio Gentile)
commentando la promulgazione della Carta
del Lavoro,
il documento che voleva essere il simbolo della civiltà fascista:
«Oggi il fascismo afferma i diritti del lavoro e la supremazia
assoluta della Nazione sui cittadini. Né l’uno né l’altro
concetto sono in antitesi con la Rivoluzione Francese, in quanto né
alcuna parità dei cittadini quali lavoratori, potrebbe esistere se
non si riconoscesse come cosa ovvia l’uguaglianza dei cittadini
quali uomini, né potrebbe esistere supremazia di Nazione dove
esisteva supremazia di caste. Perciò la Carta
del Lavoro,
nel suo concetto egualitario e nell’affermazione dei diritti del
lavoro, non è un’antitesi ma un superamento dei Diritti
dell’uomo». Concetti chiariti e inquadrati storicamente in una
conferenza tenuta a Pisa nel 1930 dal titolo Corporativismo
e principi dell’Ottantanove,
dove veniva spiegato come il regime rifiutasse le premesse della
democrazia parlamentare in nome di un concetto diverso (e moderno) di
partecipazione e libertà. Come ha scritto Valerio Benedetti, «la
grande ambizione del corporativismo fu di rispondere alla sfida
dell’irruzione delle masse nella storia immettendole nello Stato. E
di conciliarne la volontà con quella dello Stato attraverso
l’istituto delle corporazioni, ossia attraverso il lavoro
organizzato».
Una
lettura che arriverà fino ai momenti tragici della Repubblica
Sociale, dove il giornalista Enzo Pezzato annotò che se
nell’Ottantanove vi fu «la lotta del terzo stato contro i
privilegi feudali, oggi è la lotta del lavoro contro i privilegi
capitalistici». Dalla sua penna arrivarono anche queste parole: «Il
Duce ha chiamato la repubblica “sociale” non per gioco; i nostri
programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono
a quelle che in regime democratico si chiamerebbero “di sinistra”,
il nostro ideale è lo stato del lavoro…noi siamo i proletari in
lotta per la vita e la morte contro il capitalismo».
A
proposito dell’idea di democrazia, Gentile si espresse così in
merito: «Lo Stato fascista è stato popolare per eccellenza. Il
rapporto tra lo Stato e non questo o quel cittadino, ma ogni
cittadino, che abbia diritto di sentirsi tale, è così intimo che lo
Stato esiste in quanto e per quanto la fa esistere il cittadino». E
ancora: «Lo Stato corporativo mira ad approssimarsi a quella
immanenza dello Stato nell’individuo che è la condizione della
forza, e cioè dell’essenza stessa dello Stato e della libertà
dell’individuo».
3)
Dove possiamo rintracciare le origini del pensiero corporativo prima
del ventennio?
Con
tutti i dovuti ed evidenti distinguo, “tracce” di corporativismo
si trovano sin dall’esperienza dell’antica Roma fino alla Carta
del Carnaro
della Fiume dannunziana (1920), passando per alcune encicliche
cattoliche come al Rerum
Novarum
(1891). Sul tema rimando al saggio L’Ideale
Corporativo
di Valerio Benedetti, che ha il merito di analizzare anche le parole
di Mussolini, Spirito, Volpicelli e Gentile sul tema, troppo spesso
trascurate dalla storiografia, oltre che alla voce Corporativismo
del Dizionario di Politica del PNF, redatta da Carlo Costamagna. Come
precursori di spessore indico due nomi: in primo luogo Mazzini (uno
dei «profeti del Risorgimento» di Gentile) e le sue idee di
collaborazione di classe unite a un forte patriottismo e
spiritualismo, avverso a qualsiasi forma di materialismo. Non è un
caso che alcuni personaggi cardine dell’esperienza risorgimentale
divennero dei riferimenti importanti della cosiddetta “sinistra
fascista”, quel variegato mondo di sindacalisti, intellettuali e
giovani impegnato a “spingere fino in fondo” la rivoluzione e
descritto con precisione nei lavori di Giuseppe Parlato. In seconda
battuta indico il sindacalismo rivoluzionario, che giocò un ruolo
importante contribuendo alla sostituzione del concetto di classe con
quello di nazione, tanto da influenzare Mussolini in maniera decisiva
in occasione del primo conflitto mondiale. Corridoni è un nome che
torna spesso nella pagine di «Critica Fascista». Alcuni
sindacalisti rivoluzionari approdarono all’antifascismo, mentre
altri, come Sergio Panunzio, furono protagonisti nel Ventennio
arricchendo il dibattito a proposito del ruolo del sindacato e dello
sviluppo economico della Nazione.
4)
A proposito di sindacato; che ruolo svolgeva all'interno della
concezione politico-economica del corporativismo?
Il
sindacato fascista era un organo di diritto pubblico inserito
organicamente nell’edificio corporativo: «è nella corporazione
che il sindacalismo fascista trova la sua meta», disse Mussolini.
Dalla mediazione sindacale con la controparte sarebbero scaturiti i
Contratti Collettivi, oltre che pareri e decisioni riguardanti il
mondo del lavoro. Intento di molti teorici fascisti e funzionari
sindacali era quello di contribuire all’elevazione tecnica e
spirituale dei lavoratori, così da farne elemento responsabile e
consapevole del processo produttivo e della vita della Nazione. Nelle
memorie di molti sindacalisti, come Mario Gradi e Francesco Grossi,
emerge chiaramente lo sforzo continuo per discutere ogni problematica
sociale e approdare a una collaborazione consapevole. Ovviamente tra
teoria e pratica ci fu distanza, e soprattutto nei primi anni del
regime gli industriali si distinsero spesso per egoismo e scarso
spirito comunitario, mentre le difficoltà salariali erano all’ordine
del giorno. Ma il sindacato produsse costantemente molte eccellenze
che saranno l’architrave della classe dirigente fascista, dagli
anni Trenta in particolare: pensiamo a Pietro Capoferri
(vicesegretario del Partito allo scoppio della Guerra), Tullio
Cianetti (ultimo ministro delle Corporazioni) o Giovanni Spinelli
(ministro del Lavoro della RSI), tutti autori di proposte (come
quella della partecipazione agli utili dei lavoratori) degne di nota.
Sabino Cassese ha notato che all’epoca «il dirigente sindacale
assunse uno status di funzionario semi-pubblico, che consentiva una
notevole mobilità, sia verticale che orizzontale». Ancor più
significativo il fatto che «in nessun periodo precedente della
storia unitaria era stata aperta una strada così larga all’accesso
di sindacalisti al governo».
5)
Torniamo a «Critica Fascista»: chi furono i suoi principali
collaboratori?
Il
periodico di Bottai si avvalse delle migliori firme del tempo, dando
vita ad alcuni dibattiti di alto livello. Sergio Panunzio e Augusto
De Marsanich furono protagonisti di alcune pagine significative a
proposito del ruolo del sindacato, così come un giurista quale
Costamagna. La rivista ospitò le polemiche tra liberali e
corporativisti a proposti della «nuova scienza economica» fascista,
fino agli articoli di Ugo Spirito, uno dei filosofi più noti e
controversi dell’epoca. Altri nomi degni di menzione sono Camillo
Pellizzi, Ugo Manunta, Agostino Nasti, Gherardo Casini. Un posto
speciale occupò Berto Ricci, una delle intelligenze più vitali e
anticonformiste del regime («Affogare nel ridicolo chi vede nella
discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia;
chi confonde unità e uniformità. Muoversi, saper sbagliare. Sapere
interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da
conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore
eterno, incancellabile, fondamentale»), ferocemente antiborghese,
capace di criticare i ritardi del regime, discutere con rigore il
concetto di Impero e soprattutto di corporazione quale organo di
selezione delle classe dirigente e accorciamento delle distanze
sociali. La sua coerenza e la sua passione anticapitalista erano tali
da trovarlo sempre in prima fila quando c’era da combattere, tanto
da trovare la morte in Africa nel secondo conflitto mondiale. Un
esempio non solo culturale, ma anche di vita, in contrasto con i
molti che dopo averlo seguito abbandonarono la causa nel momento
della crisi del fascismo e della Nazione, come Indro Montanelli.
6)
Da più parti il Fascismo viene presentato come un regime
dittatoriale in cui la discussione e il dibattito sono banditi dalla
vita politica e culturale della Nazione. Il tuo lavoro sta qui a
smentire questa tesi. Quali furono su Critica Fascista i confronti
più accesi intorno all'elaborazione delle teorie corporative?
Giovanni
Belardelli studiando il fascismo ha parlato di «Ventennio degli
Intellettuali» e «Ventennio delle Riviste», e basterebbe questo
per capire che all’epoca non mancarono studi rigorosi e confronti
dialettici. «Critica Fascista» è uno degli esempi più lampanti in
questo senso, seppur alcuni elementi (come la fedeltà al Duce) non
venissero mai messi in discussione. Nei primi anni del regime non
mancò la confusione teorica a proposito delle impostazione
economiche del fascismo, e la rivista diede spazio alle più diverse
posizioni in merito, fino a quelle più conservatrici espresse da
Volt. I sindacalisti spingevano per massimizzare il coinvolgimento
della loro organizzazione nell’architettura sociale dello Stato,
mentre altri si battevano per il “primato” del Partito, quale
garante e custode dei principi rivoluzionari. Una tensione che andò
avanti per anni, con lo “sbloccamento” (1928) quale peggiore
bastonata che colpì il sindacato stesso. Ogni passaggio ufficiale
(come la creazione del ministero delle Corporazioni) veniva
analizzato e commentato dai redattori, mentre si scatenavano
polemiche con socialisti (come Rigola) e liberali (come Einaudi) in
nome della rivoluzione corporativa, che ambiva a mettere in
discussione i presupposti stessi della scienza economica classica e
concetti come l’homo
oeconomicus.
Grande risalto fu dato al Congresso di Ferrara (1932) e alla teoria
della «corporazione proprietaria» di Spirito, contestata da Bottai
senza negare l’importanza di tesi e fermenti che “smuovessero le
acque”. Nel corso degli anni Trenta possiamo trovare inoltre
dettagliate analisi riguardo ai casi esteri messi a confronto con il
corporativismo, fino al sogno di un nuovo ordine europeo impostato
proprio sui principi sociali della terza via.
7)
Su Critica Fascista venne aperto anche un confronto con l'Unione
Sovietica, che destò non poche critiche negli ambienti più
conservatori del regime. Quali i punti di contatto e quali le
differenze tra le due esperienze?
«Roma
e Mosca o la vecchia Europa?» fu il titolo di un articolo che
sintetizza alla perfezione un dibattito apertosi sulle pagine della
rivista. Bruno Spampanato aprì la polemica descrivendo il
bolscevismo come una sorta di «preludio al fascismo», che si
sarebbe gradualmente avvicinato alle concezioni italiane liberandosi
dal materialismo. Al regime di Mosca veniva riconosciuto il valore di
essersi opposto al decadente modello di Stato liberale e alle
«plutocrazie borghesi» allora dominanti. Non a caso, proprio in
quel periodo Mussolini aveva detto: «Contro il fascismo si è
schierata la Vandea reazionaria di tutta Europa, che si sente battuta
in breccia dall’implacabile procedere vittorioso di un regime
saturo di giovinezza e di vita, maestro di energia, assertore di
sincerità e forza. L’Italia e la Russia sono i due soli (per
quanto antitetici) principi di rinnovamento del mondo moderno. O con
Mussolini o con Lenin: non c’è altro scampo per la società
borghese che ci odia, ma deve ammirarci e soprattutto temerci».
Accanto a Spampanato, Riccardo Fiorini fu tra i più accesi
sostenitori delle somiglianze tra le due rivoluzioni prevedendo
«futuri incontri», in una discussione che, nel corso degli anni,
interessò un grande numero di personaggi e posizioni diverse, tanto
che quasi per porre un freno alla cosiddetta “moscofilia”, nel
1933 il PNF promosse una pubblicazione di spiccata impostazione
antisovietica: Fascismo
e Bolscevismo,
ad opera di Pietro Sessa. L’opposizione al capitalismo per molti
giovani e intellettuali fu sempre di gran lunga più forte rispetto a
quella al comunismo. Se lo sforzo antiliberale e totalitario può
lasciar pensare a qualche somiglianza, però, le differenze rimasero
insanabili: lo spirito “egualitario”, livellatore, burocratico e
materialista del comunismo rimaneva radicalmente opposto ai principi
fascisti. In ogni caso le analisi sui piani quinquennali della Russia
sovietica effettuate da Ettore Lo Gatto, le traduzioni promosse da
Bottai, la figura di Bombacci restano quali esempi della capacità di
un’Italia dalla forte identità di studiare con passione e
competenza il quadro internazionale senza pregiudizi. Una vitalità
che attirò l’interesse di molti socialisti e comunisti in Europa,
come testimonia il famoso «Appello ai fratelli in camicia nera»,
firmato anche da Togliatti. Suggestioni destinate a spegnersi nel
sangue della guerra di Spagna e infine della catastrofe del secondo
conflitto mondiale, ma che restano, ancora una volta, quale
testimonianza del lascito culturale di una «rivoluzione sociale»
autenticamente italiana.
8)
E' oramai assodato dalla storiografia, anche se non sempre messo in
giusta evidenza, che gli Stati Uniti d'America prestarono somma
attenzione verso il fenomeno fascista e le sue risposte alla crisi
del '29. Cosa nel New Deal si richiama direttamente alle elaborazioni
socio-economiche del Fascismo?
Professori
e tecnici del New Deal si recarono in Italia per studiare le riforme
corporative, in un momento storico in cui la Nazione era al centro
dell’attenzione di tutto il mondo per i suoi principi
rivoluzionari. D’altro canto, praticamente in ogni paese d’Europa
e del mondo sorsero movimenti che si rifacevano apertamente al
fascismo, con il corporativismo visto come elemento di primario
interesse. Economisti e intellettuali spesso si avvicinarono a questo
ideale proprio perché aveva tentato di offrire soluzioni innovative
e credibili alla crisi del
sistema capitalistico. In America gli studi sul corporativismo furono
ben più numerosi rispetto a quelli italiani a proposito del New
Deal, elemento non poco sorprendente. Bottai fu invitato a esprimere
le sue posizioni sulla prestigiosa rivista Foreign
Affairs.
L’istituzionalizzazione del sindacato, la promulgazione di codici
per la concorrenza leale e la massiccia presenza dello Stato sono
passaggi molto vicini alle elaborazione socio-economiche delle
camicie nere, in stridente contrasto con il retaggio liberale del
paese. Proprio per questo la Corte Suprema dichiarò
anticostituzionali alcune parti del New Deal, contribuendo a
rallentare la strada intrapresa. Alla fine gli Usa usciranno
veramente dalla crisi solo con la seconda guerra mondiale.
9)
Quanto venne realizzato e quanto rimase soltanto sulla carta del
programma corporativo?
In
questi ultimi tempi diversi autori stanno cominciando a descrivere il
corporativismo e i suoi risultati per quelli che furono i reali
contorni, sebbene rimanendo all’interno di un giudizio negativo.
Non potrebbe essere altrimenti, visto che Santomassimo (La
terza via fascista),
Gagliardi (Il
corporativismo
fascista)
e Cassese (Lo
Stato fascista),
hanno un’impostazione culturale di fondo che cozza
irrimediabilmente con la tensione spirituale che animò uomini come
Ricci e Gentile e il tentativo di costruzione di Stato etico,
armonico collettivo e partecipazione corporativa. In ogni caso,
Gagliardi in particolare ha dimostrato come le corporazioni non
furono vuoti organi burocratici ma luoghi di discussione e
collaborazione: «le istituzioni corporative non risultarono affatto
ininfluenti, perché costituirono la sede in cui vennero discussi
provvedimenti relativi alla politica economica e industriale e ai
temi del lavoro e dell’assistenza». Per quanto indirizzati dalla
politica, i lavoratori trovarono un canale di espressione e
confronto, e il sindacato svolse un ruolo autonomo e originale. Le
rappresentanze corporative arrivarono fino al parlamento con la
creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939). Proprio
questo humus
culturale diede vita alla socializzazione delle imprese della RSI
(1944), nient’altro che un «momento del corporativismo» che
permise ai lavoratori l’ingresso nella gestione dell’azienda
estromettendo il capitale puramente speculativo. A rimanere solo
sulla carta ovviamente fu molto, come riconobbero molti redattori di
«Critica Fascista» negli ultimi anni del regime, facendo un’onesta
e a volte pesante autocritica. La continua tensione sociale e i
compromessi della classe dirigente con forze conservatrici come la
Corona e l’alta industria sono stati descritti tra gli altri da
Anthony G. Landi in Mussolini
e la Rivoluzione sociale.
Lo stesso Bottai fu uno dei più lucidi commentatori a proposito
degli errori delle riforme fasciste, rivendicando però allo stesso
tempo la bontà di un esperimento che aveva dato tanto all’Italia,
divenuta esempio a livello internazionale. Di lì a poco il gerarca
farà però una scelta totalmente opposta a quelle che furono le sue
parole e i suoi convincimenti per più di vent’anni.
10)
Forse, oltreché la fortuna, fu il tempo a mancare, ma diversi
storici sostengono che il corporativismo era destinato a fallire a
causa della sua intrinseca nebulosità d'idee e programmi. Alla luce
dei tuoi accurati studi sulla materia, qual è la tua opinione in
merito?
Pensare
che programmi “intrinsecamente nebulosi” possano aver dato vita
alla Carta
del Lavoro,
alle Corporazioni, alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, al
Codice Civile (con la Carta
quale premessa) e infine alla socializzazione delle imprese nell’arco
di appena vent’anni mi riesce difficile. La volontà di cambiamento
era perseguita con indubbia coerenza e andò avanti fino all’ultimo
giorno del fascismo di Salò, dove non mancarono innovazioni,
dibattiti e progetti di Costituzione. La storiografia vorrebbe
dimostrare che comprensibili incertezze teoriche e difficoltà
dettate dagli eventi siano invece fallimentare inconsistenza. Onestà
intellettuale dovrebbe far ricordare che qualsiasi sistema politico
genera differenze tra teoria e pratica, pensiamo a concetti come
democrazia o Unione Europea, cosa “vorrebbero essere” e cosa
realmente sono. Di fronte a questi esempi, l’esperimento
corporativo spicca invece per ricchezza e velocità d’esecuzione,
pur con tutti gli errori del caso.
11)
Hai partecipato anche ad un lavoro collettivo intitolato
“Corporativismo del III millennio”, edito sempre per AGA
Editrice. Cosa possono insegnarci oggi le elaborazioni e l'esperienza
del corporativismo? Sei realmente convinto della loro profonda
attualità?
Il
corporativismo fu il momento centrale dell’insubordinazione
fondante italiana, per usare una categoria coniata da Marcelo Gullo,
attraverso la quale la Nazione si emancipò dalla teorie economiche e
dai condizionamenti delle potenze egemoni per segnare una via
autonoma allo sviluppo. L’insegnamento in questione è chiaro:
abbiamo nel nostro patrimonio culturale la forza per ritrovare la
sovranità e una socialità diversa da quella proposta dai modelli
anglosassoni. L’attualità di quelle teorie è confermata dalla
storia: lo Stato sociale, il sistema pubblico-privato ideato da
Beneduce, l’IRI furono elementi fondamentali del boom
economico e del rilancio del nostro paese dopo la guerra, grazie
anche alla tempra di quella gioventù cresciuta nelle palestre del
regime con l’ONB, l’OND e i GUF. Questi cardini rimasero in
piedi fino agli anni Novanta, quando sono crollati sotto i colpi
delle privatizzazioni e della globalizzazione. Venuto meno il
contraltare comunista (per quanto poco “reale”), il liberismo di
marca americana ha avuto la strada spianata. Ma gli esempi non
finiscono: nel modello sociale di Olivetti (si legga ad esempio Ai
lavoratori
o Democrazia
senza partiti),
nell’esperienza dell’ENI di Mattei, nell’opera di Fanfani
(professore di diritto corporativo nel Ventennio) si possono trovare
molti spunti “corporativi” che avrebbero ancor oggi qualcosa da
dirci. Merito del libro Corporativismo
del III millennio
è proprio quello di far tesoro di tutto questo per rilanciare uno
spirito comunitario nel quadro della società liquida e “precaria”
di questa tempi, con tutte le difficoltà del caso. Il volume
rappresenta una perla rara e uno spunto di riflessione non banale nel
panorama odierno, pur essendo passato sotto silenzio nei grandi
circoli culturali. Sullo stesso piano colloco La
nobile impresa il
libro di un giovane sindacalista, Gianluca Passera, che ha portato
avanti uno dei tentativi più maturi di attualizzare i principi del
corporativismo e della socializzazione. Nella convinzione che «la
solidarietà tra i fattori produttivi, è storicamente dimostrato,
non si crea dall’esterno con la contrapposizione, si crea
dall’interno con la partecipazione, che non vuol dire sottomettersi
al concetto di capitale, vuol dire affiancare in maniera matura la
gestione aziendale, per limare le occasioni di disuguaglianza con
proposte reali e non demagogiche o interessate». Per chiudere cito
il Professor Gaetano Rasi, autore di contributi fondamentali sul
tema, che dopo aver retto l’Istituto di Studi Corporativi (legato
all’MSI) per vent’anni, porta ancora oggi avanti la battaglia per
i temi della partecipazione e della rappresentanza delle competenze
attraverso il CESI, una memoria storica vivente che a più di
novant’anni non smette di essere esempio per rigore e passione.
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