Riccardo Maria degli Uberti
[...]
Trasferitomi a Genova con la
mia famiglia dopo aver terminato i miei studi e disimpegnato il
servizio militare, conobbi anch'io Ezra Pound. Lo vidi
la prima volta a Rapallo, in un circolo sportivo locale – golf e tennis – e
mentre con i miei aspettavamo sulla terrazza con la signora Dorothy Pound, lo
vedemmo arrivare di corsa brandendo una racchetta; era accaldato e il suo gran
ciuffo di capelli arruffati era a stento trattenuto dall'elastico di una
visiera di celluloide bianca. Andammo a colazione nel ristorante che
era loro abituale, poi salimmo al loro appartamento dell'attico. Era pieno di
sole e affacciato sul mare.
Ero imbevuto di cultura classica. L'Iliade
e l'Odissea erano state le mie letture favorite ovviamente nelle
versioni di Monti e Pindemonte fin dalla prima adolescenza. Mio Padre spesso me
ne leggeva brani alternando con la lettura di Carducci e del D'Annunzio. Le
risonanze omeriche dei primi Cantos mi avevano colpito, ora
vedevo in lui un eroe ellenico, il suo stesso fisico gagliardo mi pareva
miracolosamente prefigurato nel grande bronzo dell'Artemisio, uno
Zeus che scaglia il fulmine o un Posidone che squassa il tridente. Mio Padre e
Pound discorrevano, io tacevo e ascoltavo parlando solo se interpellato.
Ascoltavo tanto più attentamente, in
silenzio, se Pound leggeva o recitava i suoi versi. Li
scandiva con un suo particolare ritmo,
la voce bassa e sorda. Non
sempre distinguevo le parole, non sempre afferravo il senso del discorso, ma
tutto mi giungeva come una musica che mi faceva finalmente capire la scansione
della poesia classica, le lunghe e le brevi sulle quali tanto avevano
insistito i miei indimenticabili maestri di cultura classica, De
Berardinis e Luciano Villani. Ecco, avevo di fronte a me un antico
aedo, forse il cieco Omero aveva cantato così i versi dell’Iliade.
Del resto,
anche alla lettura i Cantos
mi riuscivano talvolta oscuri; ma Pound aveva detto a mia Madre, «Non
è necessario capire subito;
leggete, rileggete
ancora e capirete».
Ogni qualvolta
veniva a trovarci a Genova nella bella casa di corso Dogali, egli
sedeva vicino al grande samovar russo, fra mia Madre e mia zia sempre
silenziosa, bevendo una tazza di the dopo l'altra.
Dopo quei primi incontri, vidi sovente Pound,
a Rapallo o a casa nostra a Genova, specie dopo il nostro trasferimento nella
Genova alta, tutta terrazze affacciate sul Porto.
Se confrontavo
la familiarità con Pound, la sua conversazione e gli insegnamenti che
ne derivavano, con le esibizioni dialettiche delle conversazioni che ascoltavo,
di rado prendendovi parte – nel salotto letterario in cui pontificava
Alberto Lumbroso, un poligrafo che viveva letteralmente sull'immensa biblioteca
ereditata da suo padre, docente di ben altra statura – mi rendevo
conto che si trattava di due sfere completamente diverse.
Vi si potevano
incontrare, senza dubbio, personaggi interessanti e di alta cultura; ma gli
orizzonti ne erano limitati, decisamente provinciali. Certo non vi sarebbe stato posto per un uomo come
Pound, che vi sarebbe apparso come il classico
toro nel magazzino di porcellane.
Trovavo apertura assai maggiore nel
mio ambiente di lavoro, che
anche
Pound
apprezzava al suo giusto
valore; mentre la sua opinione sulla intellighentia italiana era, come
ho già detto, molto modesta. In una lettera del 5 novembre anno X ripeteva: «Nel
presente fecondo vivono il Duce e i suoi technichi (sic), i letterati e i
letteratini abitano fra 1890 e 1895 [...]. Gli universitari,
professori ecc. rimangono nel l860».
Ma poco più
tardi conobbe e apprezzò un giovane crociano, Niccolò Cuneo, che mio Padre
aveva estratto, per presentarglielo, dal
salotto lumbrosiano. Fu
questo un primo esempio del suo intuito
geniale in fatto di persone: più tardi doveva intuire in due
giovanissimi, Giuseppe Maranini e Piero Buscaroli, intellettuali sui quali in
avvenire si sarebbe potuto fare affidamento.
Pound, che
si era entusiasmato
per
il
discorso del Duce agli operai
di Milano (6 ottobre 1934-XII) incomincia la sua lettera del 9 con una fanfara
trionfale: «Gloria, Gloria! DUCE, DUCE!
dopo il discorso di sabato scorso a
Milano l'economia della carestia è morta e sepolta!».
Da questo momento l'argomento «economia»
compare sempre più spesso nella corrispondenza e negli scritti poundiani che mio Padre
traduce. Pound pensa che le sue concezioni economiche, mutuate da Douglas e da
Gesell, possano essere realizzate nell'Italia fascista. Non è questo il luogo –
e chi scrive non ha necessaria competenza – per giudicare le sue concezioni,
che gli specialisti disprezzavano.
Non si può non osservare, tuttavia, che
oltre cinquant'anni fa Pound intuiva l'approssimarsi della crisi economica che
ha travolto il mondo, senza che gli economisti accademici riuscissero
a suggerirne la soluzione, mentre lui già da allora cercava di
proporre un rimedio. Gli stessi economisti continuano ancora a dissertare, mentre
con la sua economia empirica della fiducia e del coraggio, il
Presidente Reagan ha ottenuto un successo nel combattere la crisi negli Stati
Uniti.
Frattanto, gli eventi
incalzavano. In una cartolina datata 18 novembre 1935-XIII, a un invito di
Pound a Rapallo, mio Padre risponde: «In questo momento, non sono
più un libero cittadino ma, con molti galloni d'oro sulla testa, provvedo ad
aiutare anch'io alla difesa della Patria».
Era stato il suo
primo richiamo in servizio attivo: ne seguiranno altri, per
prestar servizio in mare o in terra, che tuttavia non faranno interrompere la
loro corrispondenza. Fin dal primo episodio che condusse al
conflitto italo-etiopico (Ual-Ual)
mio Padre aveva detto: «Sono
incominciate le guerre puniche».
Pound definì
quella etiopica «
una piccola guerra
molto pulita» (lettera
del 7 maggio) e
mio Padre il 10, a proposito delle denigrazioni della stampa
straniera circa la guerra di Spagna, gli scrisse: «Siamo sempre alle colonne dei giornali che si oppongono alle colonne
dei legionari».
Dopo la «piccola guerra» di Pound, e
i movimenti delle
«colonne dei legionari» citate da mio Padre, il
mondo arriva alla svolta decisiva con
l’irruzione tedesco-sovietica in
Polonia. Richiamato per un corso d'istruzione, seguii con i colleghi ufficiali
d'artiglieria i notiziari e i bollettini radio delle due parti. Un
collega « grande ebreo»
triestino, un
uomo coltissimo e importante dirigente di assicurazione, ascoltando ripeteva fino alla monotonia: «Un
bel match, stiamo
assistendo a un bel match». Del bel match diventammo poco più tardi
partecipanti, e le mie personali vicende in tali
occasione non hanno nulla a che vedere con queste memorie poundiane. Mio
Padre fu chiamato a Roma, a dirigere l'Ufficio Collegamento Stampa
dello Stato Maggiore della Marina,
mentre Pound preparava i bagagli
per rientrare in America. Congedato temporaneamente dopo le
operazioni sul ‘fronte occidentale’,
avrei dovuto pensare io a sistemare
nel mio studio di scultura (velleità giovanili),
due casse di manoscritti ed alcuni
disegni e sculture di Brzeska cui Pound teneva molto, ma a sospendere tutto
arrivò una lettera da Roma, amara e concitata: «Caro
Dick, non è il mio dovere andare in America perché
non si può». Sugli
aerei Clipper che riportavano in patria la colonia americana, non
c'era posto per il poeta. Forse il suo posto occorreva per il cuoco
dell'ambasciatore [...] o forse Roosevelt preferiva lasciare il
suo oppositore nelle mani del nemico [...].
Verso
la
fine
del
'41
fui
destinato anch'io a Roma
presso il XVII Corpo d'Armata. Lasciavo un reggimento che sembrava destinato a
coltivare gli orticelli di guerra, per un comando di una grande
unità che si diceva dovesse sbarcare in Siria. In effetti, mentre
il mio Gruppo partì improvvisamente per la Russia, il XVII Corpo
rimaneva a Roma e dintorni con compiti di difesa del territorio. Mi
addolorava il non essere in Ucraina col mio buon colonnello Centóre, ne
provavo un senso di vergogna.
Ma l'entusiasmo d’un tempo era finito.
Trovandomi a
Roma, al centro delle «segrete
cose», vedevo da vicino sobbollire la melma del tradimento. Nel
viaggio di trasferimento mi ero fermato a Genova e nel mio vecchio ufficio dell'Ansaldo due alti dirigenti mi dissero:
«Abbiamo i magazzini pieni, ma l'Esercito non ritira».
A Roma abitavamo
un bel primo piano in via Chelini. Al mezzanino abitava un prete, tal Monsignor
Montini. Non potevamo immaginare che fosse destinato ad abitare nel più
prestigioso palazzo della Cristianità.
Mia Madre doveva spesso redarguire
i nipotini di lui che giocavano in giardino cantando «bandiera rossa»; io
incontravo talvolta quel prete scendendo le scale ma, nell'or-goglio
dell'uniforme e nella prestanza della mia statura, lo guardavo appena,
salutandolo distrattamente con la mano tesa alla visiera.
Nel gennaio del '42
venne a Roma anche Pound, che aveva pregato mia Madre di trovargli un
alloggio. «Come lo volete?» aveva chiesto mia
Madre. «Che abbia una porta, da
poter chiudere», rispose Pound; evidentemente
cercava solo la Privacy tanto cara agli anglosassoni. Nel suo volume Colpo
di Stato, Yvon de Bégnac ha così ricordato Pound e mio Padre, in
quell'epoca: «Lo studio dell'Ammiraglio degli Uberti era nei quartieri alti
di Roma. I libri [...]salivano fino al soffitto. L'Ammiraglio
degli Uberti era un uomo stanco,
credeva in quello che
faceva, aveva scritto con maestria di cose
marinare. Ma la flotta italiana da lui tanto amata era quasi tutta a fondo.
Ora, nel meriggio domenicale, riceveva
amici. Accanto a lui si trovava il poeta americano
Ezra Pound».
Erano
incominciate da poco (ottobre
'41)
le sue radiotrasmissioni bisettimanali, che negli Stati
Uniti gli valsero l'accusa di alto tradimento;
in Italia erano guardate da
qualcuno con sospetto: si temeva che,
con un codice da tempo concordato, trasmettesse
notizie al nemico. C'era poi quel suo nome biblico, Ezra: era
forse ebreo?
Il racconto di Yvon de Begnac si riferisce
alla primavera del l943; nell'ambiente da lui descritto lasciai, ai
primi di giugno, mio Padre che non dovevo più rivedere, e
il Poeta. Ero stato trasferito in Francia, tra
Frejus e St. Raphaël: fu là che ebbi la notizia del
colpo di Stato del 25 luglio. Pound ritornò a Rapallo e la sua
corrispondenza con mio Padre riprende con una sua lettera in italiano datata 6
agosto. In essa cita un articolo di mio Padre che credo si riferisse al
bombardamento di Roma. «Caro Ub 2, mi ha confortato il tuo
articolo 'Ci vuol altro', vedo anche che la poesia della guerra comincia...». Chiude
la lettera con «Dio ti benedica, e Corinna e Dick». Il
27 agosto mio Padre mi scriveva:
«Dobbiamo essere preparati a
tutto e brutte figure non ne faremo in nessun caso [...] non
è il momento dei se e dei ma».
Se la notizia
del colpo di Stato non mi aveva troppo sorpreso,
quella della capitolazione dell'8
settembre non mi
trovò
impreparato spiritualmente. In
tale occasione, né mio Padre, né io stesso facemmo «brutte figure» ; senza
sapere l'uno dell'altro prendemmo la stessa decisione; e
la prese contemporaneamente mio cugino Fabio che dalle pendici dell'Himalaya, dove
era prigioniero (e dove morì cinque anni dopo) dichiarò
la sua adesione alla
Repubblica Sociale Italiana, quando seppe
che si era costituita.
De Bégnac continuava: «Pound andò a
conversare col suo amico Ubaldo degli Uberti [...] l'Ammiraglio lo ascoltava [...]
il suo sorriso era
stanco come il volto, adesso.
Si volgeva, forse, al
pallido mattino in cui, due anni più tardi, fucili
di non si seppe mai qual parte,
per sempre l’avrebbero
separato dagli amati libri,
dai cari ricordi».
I fucili appartenevano
ad un drappello di militari russi dell'armata di Vlassov incorporata nella
Wehrmacht che operava in quella zona; essi presidiavano un posto di blocco
sulla strada tra Montecchio Maggiore
e
Vicenza e aprirono il fuoco sulla
macchina di mio
Padre, credendo che si trattasse di partigiani.
Colpito da raffiche di mitra, mio Padre fu trasportato in gravi condizioni
all'Ospedale di Vicenza, dove si spense due giorni dopo.
Dalle lettere di
mio Padre, che mi erano giunte quando già mi trovavo
a Berlino, nella carica di Federale del P.F.R. per la
Germania Nord, avevo saputo che l'8 settembre Pound, calzato
un paio di miei scarponi da sci avuti da mia Madre, si
era avviato verso l'Alto Adige per raggiungervi la figlia Mary, ancor
bambina. Appena la R.S.I. ebbe
conseguito un certo assestamento,
aveva ripreso la sua attività
scrivendo su diversi periodici, traducendo Confucio e continuando i
Cantos.
Quando mio Padre
era giunto a Vicenza, dove si era trasferito il Ministero della Marina della R. S. I.,
mi aveva scritto che sulla facciata di una chiesa, San
Lorenzo, aveva visto un'arca con lo stemma
fiorentino della famiglia. Aveva accertato che si trattava della tomba
di Lapo degli Uberti, morto
«esule ghibellino a Vicenza
seicento anni prima». E
mi scriveva: «Chissà che anch'io non debba morire esule ghibellino
a Vicenza, per
qualche vento di siepe».
L'ultima lettera
di Pound a mio Padre, datata 4 aprile XXIII.
Una lettera di ordinaria amministrazione
che parla di refusi di stampa, di errori e omissioni editoriali. Ma
parla anche dei versi di Pound per F. T. Marinetti, pubblicati
da mio Padre su «Marina Repubblicana» (15
gennaio 1945). Questi versi fanno parte del Canto LXXII, uno
dei Cantos italiani ancora praticamente inediti;
l'altro, il
LXXIII, lo pubblicò per intero sul numero
successivo. Dopo questa lettera mi risulta soltanto una cartolina scritta da Pound a mio Padre, che
trovai appena giunto nella casa di Vicenza. È andata dispersa nei successivi
spostamenti, ma ne ho un preciso ricordo visivo: a
penna, datata 14 aprile (era
il compleanno di mio Padre, nato nell’anno 1881) diceva «Caro
Ub 2, non
si costruisce
sulla merda. Ez.».
Così Pound
sintetizzava l'ultima delusione che gli
aveva
data
l'Italia tanto amata e sulla quale aveva
fondato tante speranze, perché guidasse la cultura e la società dell'Occidente
verso un mondo migliore.
Quando, attraverso
peripezie che qui non occorre rievocare,
rientrai a Roma, Pound
aveva già incominciato la
sua
dura
odissea che dalla orrenda
gabbia di Coltano doveva portarlo al Manicomio criminale di St. Elisabeth, dal
quale doveva uscire solo quattordici anni più tardi.
Continua...
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