"Il
latino è una lingua di cristallina purezza. Incisiva e veritiera, sa
condensare in poche parole universi d'emozioni. Per tale motivo
abbiamo scelto come titolo di questo breve incipit una frase di
“Livio che non erra” (“Ab
Urbe Condita, libro XXII).
Abelux, nobile ispanico
fedele a Cartagine, al mutare delle condizioni politico-militari nella penisola
iberica, tradisce l'alleato per schierarsi con Roma vittoriosa. Un gesto giudicato
sotto la forma di breve sentenza che d'un
balzo ci riporta alla memoria vicende a noi ben più vicine:
quelle dell’8 settembre di settant'anni fa. Evento nefasto e
cruciale per la nostra Nazione, in cui si condensano tutte le future sciagure,
in primis et ante omnia la perdita della sovranità: politica, militare,
economica.Ovvero
la linfa vitale d'ogni Stato che voglia definirsi tale.
Lo sciagurato 'armistizio' e i tragici eventi che ne conseguirono, sono una ferita aperta sulla pelle di chi ancora non si vergogna d'esser italiano. Rivivere un'altra volta quei giorni, ricordarne i significati profondi, vuol dire reimmergersi in un dolore collettivo di cui ormai, purtroppo, molti di noi non si rendono più conto.
Sarà dunque giusto rifare i conti con un passato misconosciuto, celato anche dalla cattiva coscienza di tanti suoi protagonisti che ne hanno edulcorato, a posteriori, le drammatiche conseguenze. Perché la luce del passato, anche se torbida, ha il dovere d'illuminare le tenebre dell'odierno, donando nuove prospettive di speranza e di lotta. Scavare fino all'origine del male per rendersi consapevoli del morbo che ci attanaglia. Non per adagiarsi su esso e versare lacrime di coccodrillo; ma per superarlo."
LA CAPITOLAZIONE
estratto da: "DALLA PARTE DOVE SI PERDE"
di Ferruccio Bravi
Mancò la fortuna, mancò un po' di tutto, si peccò di ottimismo, si sbagliò il calcolo. Si era prevista una rapida vittoria e ci si imbarcò in una tragica avventura. La delusione di chi si aspettava un decorso della guerra breve e facile e lo sgomento di chi disperava della vittoria maturarono il clima della resa badogliana e il collasso interno.
È paradossale che proprio nella primavera del '43, nell'imminenza della grave crisi politico-militare, vi fu una decisa ripresa nella nostra produzione di materiale bellico, in specie di quello destinato alla X Mas, la quale aveva il compito di conseguire successi spettacolari col minimo dei mezzi e il massimo del sacrifici, mettendo a segno «tutte e solo quelle azioni che, per la loro insidiosità, per l'impiego di mezzi minuscoli, di rapida fabbricazione, di costo e consumi irrisori, traevano prevalentemente il loro potere distruttivo non dalla potenza del mezzo, ma dall'ingegnosità, dalle risorse d'iniziativa e d'audacia, dalla volontà tenace e dall'aggressività temeraria degli uomini».
Così il Comandante Borghese, che soggiunge: «mentre le nostre forze armate di tutte le specialità e su tutti i fronti, costrette alla difensiva, si andavano sgretolando per effetto dei colpi demolitori dei nemici esterni e per l'azione subdola e corrosiva di coloro che dall'interno tramavano contro la Patria, la Xa Flottiglia Mas manteneva con inesausta ed accresciuta lena il suo potenziale combattivo, moltiplicando ed estendendo la sua attività operativa in settori più vasti e lontani; tenacemente ricercando il nemico e coraggiosamente aggredendolo ovunque si riuscisse a raggiungerlo; e gettando i piani di nuove azioni ancor più audaci e micidiali delle molte già portate a compimento».129 Per queste azioni era stato messo a punto il siluro pilotato SBB che superava di molto, in prestazioni, l'ormai glorioso SLC. Ben quattro alla volta potevano es-sere trasportati nei contenitori di tre modernissimi sommergibili da 1000 tonn. (Murena, Grongo e Sparide). Imminente la consegna delle due prime motosiluranti da 100 tonn., pure destinate al trasporto di siluri pilotati, e perfe-zionato nei minimi particolari il sommergibile d'assalto C.A.130 Le azioni programmate erano, in ordine di tempo: un attacco a Gibilterra in pieno giorno,131 due missioni contro la base sud-atlantica di Sierra Leone e un'altra contro Nuova York risalendo lo Hudson (unico piano esistente, sembra, per portare la guerra negli S.U.132 Tutto questo, poco prima dell'«armistizio» badogliano, stavano preparando la Decima (del tutto ignara di quanto si tramava a Roma) e il comando della base atlantica di Bordeaux.
Nel settembre del '43 l'esito della campagna d'Italia non era affatto scontato e si poteva resistere benissimo all'invasore, gigante dai piedi d'argilla che per ben due volte – a Salerno e ad Anzio – fu sul punto d'essere ributtato in mare dai tedeschi restati soli a fronteggiarlo, e altrettante volte fu inchiodato dai soli tedeschi e da pochi reparti italiani davanti a Roma e alla linea Gotica. Resistere si poteva, forse a minor prezzo di lutti e rovine, e di sicuro senza infamia.
Combattere ed essere sconfitti è una disgrazia, non una vergogna. La guerra – diceva Benedetto Croce – «che scoppi o no è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o un altro fenomeno tellurico»;133 ed è scontato che una delle due parti in conflitto debba perderla. Possiamo rammaricarci, possiamo rattristarci a morte, inveire contro i responsabili veri o presunti, ma vergognarci no.
La vergogna sta invece nel modo come siamo usciti dalla guerra. C'è purtroppo chi anziché vergognarsi se ne gloria. Che un evento disonorevole come il tradimento badogliano sia presentato come normale dagli organi di propa-ganda a sostegno della classe politica beneficiaria della disfatta, non deve meravigliare più di tanto: l'8 settembre è presupposto imprescindibile del 25 aprile che è per l’anzidetta classe politica giorno di liberazione e per l’Italia invece è giorno di cocente sconfitta. Sconfitta invero "provvidenziale" per gli sciacalli al potere che ne ha ricavato copiosi profitti a nostre spese. E, unico al mondo ma coerente, la festeggia ormai da più di mezzo secolo sia pure nell'indifferenza o nel disprezzo dei più.134
Ciò che chiamano "armistizio", ma di fatto è una capitolazione, sarebbe di per sé un atto normale se fosse stato chiesto nel momento opportuno e nelle debite forme. Sondaggi per una sospensione delle ostilità erano stati avviati anche dal governo Mussolini con l'intenzione, penso, di rispettare l'art. 5 del trattato di alleanza con la Germania (firmato da Ciano, plenipotenziario del Re, il 22 maggio 1939), che impegnava le parti contraenti «a non concludere armistizio e pace se non in pieno accordo fra loro».135
Esisteva dunque, non so quanto realizzabile, un progetto pulito per far uscire l'Italia dalla guerra, un progetto che trovava d'accordo lo stesso Mussolini ben consapevole che ciò implicava l'uscita sua e del suo regime dalla scena politica, condizione necessaria, e forse anche sufficiente, per salvare il salvabile e cioè l'onore e gli interessi della Patria; ma Mussolini fu scavalcato una settimana prima dalla congiura antifascista che – dal Re allo Stato Maggiore, dai dissidenti fascisti ai relitti della decrepita combutta partitica136 – lavorava all'opposto per i propri interessi sacrificando popolo e nazione.
L'infamia dell'8 settembre sta nel fatto che Badoglio non solo prese contatti col nemico ad insaputa dell'alleato, ma operò un rovesciamento di fronte provocando l'ira tedesca e il disgusto degli anglo-americani, il quali, ad esprimere il tradire più abietto, coniarono il verbo to badogliate. E il disprezzo investì tutta l'Italia, con giudizi offensivi anche nei riguardi del nostro popolo.137
L'entità del disastro, in tutta la sua tragica dimensione, balenò subito alla mente del Principe Borghese appena venne a conoscenza, tardivamente, del comunicato Badoglio: «Quel giorno io vidi il dramma che si andava ad aprire per questa disgraziata Nazione che non aveva più amici, che non aveva più alleati, non aveva più nessuno, non aveva più l'Onore, era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa: non ci si batte solo quando tutto va bene».138
Il ribaltamento badogliano creò gravi casi di coscienza non tanto fra la truppa e fra i subalterni quanto fra gli alti ufficiali moralmente responsabili della sorte dei loro reparti. L'assurdo fu compreso nella sua interezza dalla Medaglia d’Oro Carlo Fecia di Cossato, il comandante del smg. Tazzoli che aveva affondato in Atlantico novantamila tonnellate di naviglio nemico: dopo aver obbedito all'or-dine di trasferirsi a Malta e compiuto varie azioni contro la Marina tedesca per il rimorso e la vergogna si uccise a Napoli il 21 agosto 1944.139
«[...]
Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione
morale in cui mi trovo in seguito alla resa ignominiosa della
Marina [...]. Tu conosci che cosa succede oggi in Italia e
capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad
aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. [...] Da
mesi penso ai miei mari-nai del “Tazzoli” che
sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è
con loro [...]».
M.O.
Carlo Fecia di Cossato
(Napoli, 21 agosto 1944).139
(Napoli, 21 agosto 1944).139
Lo sciagurato 'armistizio', cui è seguita l'instaurazione di un governo dispotico e spregevole, aveva gettato i combattenti del Nord come quelli del Sud in una immane tragedia che si può comprendere solo se contemplata – direbbe Shakespeare – da una tale altezza da cui nessuno appare colpevole, ma tutti sono vittime.
Più d'uno ha voluto accostare la figura di Badoglio a quella di Pétain, ma Plutarco rifiuterebbe il parallelo. Quanto siano antitetiche le loro stature, soprattutto la statura morale, risulta evidente da un sommario esame biografico.
L'eroe di Verdun, quando la nazione era del tutto esausta e il proseguimento della guerra avrebbe apportato solo ulteriori lutti e rovine, chiese alla Germania se era disposta a «cercare mezzi onorevoli per la Francia per porre fine alle ostilità» e lo chiese senza sotterfugi e in accordo con l'alleato inglese; poi, concluso un armistizio a condizioni miti, condusse ragionevoli trattative ottenendo da Hitler, la Gran Bestia, di poter sopravvivere come «Potenza europea e coloniale» e fino all'ultimo difese, in una difficilissima situazione, l'interesse dei francesi «né venduti, né traditi, né abbandonati».140
Il vecchio Maresciallo non voleva la sconfitta della Francia e, coerentemente, pochi mesi dopo l'armistizio, istituì una Corte suprema di giustizia per stabilire le responsabilità degli uomini che avevano condotto la Francia alla disfatta. L'occupante gli avrebbe consentito di dare una nuova costituzione ai francesi, ma egli – innanzitutto francese – dichiarò schiettamente, spiacendo ai tedeschi, che una costituzione poteva essere promungata solo da Parigi, in una Patria del tutto sovrana.141 Subì la deportazione in Germania nel '44 e la condanna a vita dai vincitori gollisti nel '45 affrontando la sua sorte con stoicismo e dignità .
All'opposto, il marchese del Sabotino – capo d'un governo illegittimo nato da intrigo di palazzo142 – ingannò l'alleato («la guerra continua!») condusse alla resa nel modo più ignobile un paese demoralizzato, ma ancora dotato di un potenziale bellico da poter resistere a lungo, e l'ottenne senza condizioni; poi, proditoriamente, rivolse le armi contro l'alleato col risultato di attirare su di noi disprezzo e vendetta. Non chiamò a rendere conto del loro operato i responsabili dei rovesci militari, essendo egli più responsabile degli altri. Esempio unico nella nostra storia e inaudito in quella mondiale, per cui fu coniato il verbo infame 'badogliare'.
Non che l'Italia non avesse diritto, specie per essere stata in più circostanze offesa e umiliata dall'albagia tedesca, di uscire dal conflitto. Ma doveva uscirne a tempo e luogo, nei dovuti modi, onorevolmente come la Francia nel 1940. Se Badoglio fosse stato un Pétain non avremmo avuto il disonore che pesa ad ogni scelta di politica internazionale, non avremmo avuto il diktat, le stragi, l'odio civile, la perdita d'identità, la soggezione coloniale agli Stati Uniti, i guasti di mezzo secolo di malgoverno prolungato agl’inizi del nuovo millennio. Quanto poi ad un futuro ordine costituzionale del paese vinto, egli non se ne curò minimamente e si limitò a tenere a freno il flagello dei partiti solo perché non disturbassero il manovratore.
Comunque gl'italiani del sud, e poi del centro-sud, hanno dovuto subire frastornati e sbigottiti le disposizioni di un governo fantoccio che fra l’altro prospettava la 'cobelligeranza' col nemico come unica possibilità di salvare il sal-vabile. L’assurdo stato di cose creato da Badoglio indusse non pochi di noi a scelte insensate di cui non ci si rendeva conto.143 La misura del conseguente degrado morale fu l’ac-conciarsi alla capitolazione e al voltafaccia anche da parte di alcuni eroici combattenti.144
Ma al di là dei principi morali che la politica sacrifica sovente ai suoi fini, Badoglio e i suoi generali non si preoccuparono nemmeno di predisporre un minimo di misure militari per tenere a bada l'alleato tradito, per evitare lo sbaraglio delle Forze Armate e proteggere la popolazione inerme. E i tedeschi che con tempestiva preveggenza avevano attuato il piano Alarich, portando da 4 a 18 le divisioni di stanza al di qua del Brennero, «presero l'Italia col gesso». Il bottino di armi, mezzi e approvvigionamenti fu tale che il Capo di S.M. tedesco, gen. Jodl definì lo sfascio delle Forze Armate italiane il più grande servigio reso dall'ex alleato alla Germania nazista.145
Questo il risultato di una condotta vile e insipiente che dopo aver portato l'Italia allo sfacelo ebbe il suo epilogo nel gran fugone finale, il tradimento nel tradimento. Ne seguì una «presa di coscienza» del popolo, sì, ma non proprio nel modo goffamente sostenuto dagli autori che trattano le ombre come cosa salda e farneticano di rivolta antifascista e antitedesca. «La realtà della ricerca storica di quel periodo – scrive Ciarrapico146 – rivela semplicemente una presa di coscienza popolare della inutilità di sofferenze e sacrifici per una guerra sino allora mal condotta [...]. Coinvolgere la coscienza popolare per una sua partecipazione a determinare gli eventi dell'agosto-settembre 1943 significa addossarle responsabilità che non le appartengono per gli eventi stessi che vide piombarsi addosso attraverso la condotta irresponsabile ed incapace di quanti avevano l'onere della responsabilità di governo [...]».
Un discorso parallelo si può fare per la repentina dissoluzione delle ignare e tradite Forze Armate. Lo sbandamento non si spiega con il semplicistico «Tutti a casa!». Per quanto ne sappia, nell'Esercito nessuno aveva ricevuto ordini chiari, nessuno riusciva ad afferrare la situazione. Trovarsi dalla sera alla mattina nemici dell'alleato appariva madornale, anche se i sentimenti verso i tedeschi non erano teneri. L'eclissi degli alti gradi, la baraonda di ordini e contrordini persuase ognuno di noi che tutto era finito e restava un solo dovere che che in fondo era un diritto: riportare a casa la pellaccia. Questo in Italia. In Balcania, a quanto si è saputo, la situazione era, se possibile, ancora più caotica e allucinante. I comandi non ricevettero nemmeno la famigerata memoria OP.44, cioè l'ordine di resistere ai tedeschi, né i promemoria orientativi per rispondere all'eventuale aggressione tedesca che implicavano ma non denunciavano lo stato armistiziale. Si trascurò la situazione alle nostre frontiere orientali abbandonate alle atrocità delle bande comuniste e alla mercè di tedeschi e croati. Nella R. Marina, invece, tutto era stato predisposto ai vertici che si preoccuparono anche di saggiare il morale del personale imbarcato, prima della consegna della flotta a Malta, ma tennero il segreto all'estremo limite; tragicomica suona una comunicazione dell'amm. Bergamini147 il quale alla vigilia della resa, del tutto ignaro di ciò che bolliva in pentola, assicurava Supermarina che comandanti ed equipaggi erano preparati e decisi ad affrontare la squadra 'alleata' in navigazione verso Salerno. Nell'Aeronautica vi fu sentore dell'armistizio e sconcerto nel personale di volo poco disposto ad atteggiamenti ostili nei riguardi dell'alleato a fianco del quale si era valorosamente battuto per più di tre anni.148
Stupì l'incoscienza del Comando supremo che non impartì direttive alle forze impegnate sul fronte meridionale, per cui quelle allertate nel settore di Salerno vennero a trovarsi inopinatamente tra due fuochi e il gen. Gonzaga che co-mandava la difesa costiera nel Salernitano cadde sacrificando la vita per nulla appena dopo l'armistizio.
Che dire poi della tragica farsa intitolata Difesa di Roma? Dal momento che Badoglio e la Real Casa già in agosto, d'intesa con l'amm. De Courten, avevano predisposto la fuga da Roma, come si può prendere sul serio la loro intenzione di difendere la Capitale?149 Attorno alla città era stato schierato il Corpo d'armata motocorazzato costituito da sei delle migliori divisioni al momento disponibili e comandato dal peggiore dei nostri generali, il famigerato Giacomo Carboni orditore esperto, sì, ma assolutamente negato al comando e digiuno di strategia.
Le operazioni possono essere così riassunte: un'ora dopo che il gen. Carboni ha allertato i suoi, una Compagnia di paracadutisti tedeschi appoggiata da due Panther si impadronisce in pochi minuti, sulla Via Ostiense, del più importante deposito di carburante mettendo in crisi i mezzi corazzati italiani. Il gen. Cadorna fa defluire la div. Ariete verso nord e va ad insaccarsi in quel di Tivoli. Unico gesto epico, nello spirito di Pietro Micca, quello del tenente Rosso e di quattro volontari che si sacrificano saltando in aria su uno sbarramento di mine per ostacolare il passo alla 3ª Panzer. Le altre unità, senza appoggio e senza ordini superiori agiscono di propria iniziativa e si fanno onore. Il gen. Solinas, malgrado i suoi sentimenti fascisti e la riluttanza a rivolgere le armi contro l'alleato, tiene duro con i Granatieri della sua divisione e così anche le altre unità, quanto mai etero-genee, dalla PAI al Btg. Volontari Tunisini, dalla 3ª Cmp. del 10º Rgt. Arditi alla Cmp. d'Assalto Italiani all'Estero, dal Btg. Chimico agli artiglieri della 18ª Legione della Milizia Volontaria. Questi in particolare si battono con abnegazione degna di miglior causa.150
A sostegno dei reparti regolari erano accorsi, fra la Montagnola e la Piramide Cestia, cittadini in borghese mossi da spontanea solidarietà. La tradizione resistenziale ne ha tratto un blasone e straparla di "partecipazione corale" del popolo, di "migliaia" di proletari accorsi ad affrontare il "tedesco invasore" sotto le bandiere dei risorti partiti anti-fascisti. Questi, per la verità, si limitarono al consueto vaniloquio, tenendo riunioni nei quartieri alti, molto alla larga dalla linea del fuoco.
L'Italia delle ciarle e della menzogna ebbe i primi vagiti ai Parioli in quel lontano funesto otto settembre. Nella circostanza, fra l’indifferenza generale dei romani, i comunisti si esibirono in una ridicola piccola parata nei pressi di San Pietro creando un clima da Repubblica Romana e di barricate svanito al primo sentore della repentina irruzione tedesca nel centro storico. Chi fu tanto ingenuo da credere alle sparate dei rivoluzionari da salotto pagò di persona.
Un professore idealista, accorso a Porta San Paolo, dopo aver subissato di telefonate i comitati antifascisti per sapere se quando e qualmente sarebbero arrivati i rinforzi popolari, aspettò inutilmente fino all’ultimo in quell'affocato pomeriggio del dieci settembre e, sparati gli ultimi sei colpi, cadde sul vecchio 'novantuno’ alla Piramide Cestia. Nei pressi, una tabella stradale ne tramanda il nome: Raffaele Persichetti.151
NOTE
130.x Ibidem; Bordogna 1995, 20.
131.x L'operazione doveva aver luogo il 2 ottobre 1943: a notte inoltrata il Murena avrebbe mollato nelle acque di Algesiras quattro barchini esplosivi che dovevano risalire la rada e celarsi fra i canneti alla foce dei fiumi per uscire in pieno giorno e attaccare quattro piroscafi ormeggiati nei pressi. L'allarme avrebbe provocato l'uscita di naviglio in soccorso delle navi colpite e attra-verso l'ostruzione aperta un nostro siluro pilotato di nuovo tipo, partito dalla base clandestina dell'Olterra, approfittando del disordine e della distrazione della vigilanza interna avrebbe attaccato la massima unità presente nel porto di Gibilterra. – Bordogna 1995, 21.
132.x Borghese 1971, 347-350; Bordogna 1995, 19-22.
133.x Benedetto Croce, Pagine sulla guerra, 1916, 91.
134.x Coerenza vorrebbe che proclamassero ‘solennità civile’ anche l’infame data dell'8 settembre. Qualcuno ha avanzato una proposta in questi termini: «Il Governo Badoglio [...] ha prodotto l'evento che meglio rappresenta gli ultimi 50 anni di storia d'Italia e la cui ricorrenza, per questo motivo dovrebbe essere elevata a festa nazionale...». E ancora: «Il Governo Badoglio [...] ebbe soprattutto un merito: quello di aver realizzato quel capolavoro di organizza-zione e di coraggio che è stato l'8 settembre, data che meglio di ogni altra dovrebbe rappresentare la nostra festa nazionale». – P. Napolitano in «Nuova Repubblica», ii, 5 e iii, 7.
C'è da stupire nel leggere quanto sopra in un foglio che si dice "mazziniano" e non tien conto della parte avuta dal Re nel "capolavoro", nel solco d'una tradi-zione che, per quanto ci riguarda, è iniziata due secoli fa, quando per ben tre volte i Savoia commisero la "incredibile viltà", come la definì Cesare Balbo, di uscire malamente dalla guerra pur avendo i mezzi per continuarla. Anche l'arresto di Mussolini ha un precedente nell'album di famiglia sabaudo, precisamente in Carlo Alberto che consegna alla polizia i patrioti italiani dei quali aveva condiviso gli ideali.
Sull'armistizio: Kogan 1963 (* Bibliografia).
135.x Badoglio stesso, nel radiodiscorso del 19 settembre '43, accennava all'in-tenzione di Mussolini – dopo il convegno di Feltre, 19 luglio – di «sganciarsi dai tedeschi per il 15 settembre, giacché Hitler lo aveva tradito» e ripeté que-sta asserzione un mese dopo in un indirizzo agli ufficiali a Brindisi e nel dicem-bre '44 nella sua deposizione davanti alla commissione d'inchiesta sulla man-cata difesa di Roma (stranamente non ricordando la fonte della notizia).
Con tono meno reciso l'ambasciatore Bastianini riferisce che il Duce, alla vigi-lia dell'incontro di Feltre, ascoltò con attento interesse ed ermetico silenzio la proposta vaticana per un distacco dalla Germania vantaggioso sia per questa che per gli anglo-americani («Mussolini, senza aver staccato il suo sguardo dal mio, non pronunciò parola»). – Bastianini, 1959, 118. In argomento: Mario Zamboni, Diario di un colpo di Stato – 25 luglio/8 settembre; Toscano 1967, passim; Santi Corvaja, Mussolini nella tana del lupo (i diciassette in-contri con Hitler, dal 1934 al 1944), Milano (Dall'Oglio) 1982.
136.x Mors tua vita mea è l’imperativo delle fazioni politiche che nei momenti critici affrettano il crollo della nazione per arraffare il potere. È avvenuto do-po Caporetto e dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia nel ’43. Avviene tut-tora attraverso il catastrofismo e il linciaggio politico praticato da marxisti e clericali contro qualsiasi avversario che impedisca loro di tornare al governo del Paese e metterlo a sacco. L’accanimento contro Silvio Berlusconi, inten-to a restaurare un minimo di ordine ed efficienza in un’Italia disastrata dalla corruzione politica e travolta dalla crisi economica mondiale, è preciso quello che negli Anni ’20 contrastò Mussolini che riuscì a mettere pietra su pietra sol-tanto dopo aver emarginato gli sciacalli. I disagi che ne conseguono ricadono sempre sul ‘popolo sovrano’ al quale non si offre altra alternativa che la ditta-tura o il caos.
137.x Con ribrezzo, ma per dovere di studioso, riporto qui alcuni severi giudizi degli ex nemici:
«Penso che l'armistizio di Badoglio sia il più grande tradimento della storia. [...] Non è vero che la capitolazione dell'Italia fu dettata da movimenti popolari o da disordini in-terni. Vi erano veramente e continuamente voci di disordini [...] diffuse da "politicanti italiani in esilio" che si accreditavano il merito di aver provocato la caduta di Mussolini attraverso tali disordini. Il fatto è che il governo italiano decise di capitolare non perché nell'impossibilità di resistere, ma perché ritenne fosse arrivato il momento di ac-correre in aiuto del vincitore». – Montgomery 1958, 58.
«L'Italia è diventata antifascista non appena la guerra prese ad andare male [...] Ebbene: cosa ha fruttato all'Italia il sacrificio dell'onore consumato l'8 settembre 1943? De-porre mestamente le armi davanti alla preponderante forza materiale di un nemico, può essere il destino d'ogni nazione; ma schierarsi sfacciatamente al fianco dell'avversario è un disonore che merita e raccoglie solo disprezzo... È un quadro ripugnante per chi nu-triva delle illusioni sulla grandezza latina». (Sir Edmund S. Parson, Lord inglese).
«L'Italia fu fedele al suo carattere di sciacallo internazionale; sempre in cerca di com-pensi per i suoi tradimenti». Così ci insulta, nella sua Storia della diplomazia, l’amba-sciatore sovietico a Roma Potemkin. Evidentemente egli giudicava l'intero Paese sul me-tro di certi 'sciacalli' di sua conoscenza al servizio dell'Urss, come D’Onofrio e altri aguz-zini del compagno Togliatti che, con blandizie e poi con la tortura, volevano indurre i prigionieri italiani a collaborare coi sovietici. Chi si rifiutava, come nel caso del ten. Ita-lo Stagno nel campo di Susdal, era condannato a morire di stenti ("marce del dawai", vagoni piombati dei "treni dei morti"); chi si piegava era considerato un verme. E per tut-ti un sovrano dispezzo: «Porci italiani che avete perduto la guerra, siete nulla, meno che nulla!». Così ebbe a dire il magg. Musitienco al cappellano don Bravi che pur ebbe un dignitoso contegno. – Leonida Fazi, Viva la festa, signor presidente, in «Italicvm», XI, v-vi (maggio-giugno 1995. – La ‘festa’ era il 25 aprile, data della nostra definitiva disfat-ta, il presidente un inquilino del Quirinale trattato e pagato meglio di un re per rappre-sentare degnamente questa repubblica democratica sorta sulle rovine d’una guerra per-duta. Con gli apprezzamenti basta così.
138.x Borghese, p. Nesi 2006, 9-10.
139.x La lettera scritta alla madre il giorno in cui si tolse la vita è allegata ad un appunto dei carteggi di Borghese e integralmente riprodotta dal Bordo-gna 1995, 133-134.
Non rassegnato alla vergogna della consegna delle navi italiane a Malta, si tol-se la vita anche il comandante Milesi Ferretti il quale – come ricorda Tori-nese 1993, 77-78 – era riuscito ad evadere dal campo di Jol insieme con il leg-gendario Cap. Toschi, primatista in evasioni.
Una certa resipiscenza provarono in determinate circostanze molti di coloro che per disciplina più che per calcolo si adeguarono al mal considerato rove-sciamento di fronte. Fra questi, il comandante della Marina del Sud, Raffae-le De Courten e il capitano di fregata Ernesto Forza.
Patetico fu l'incontro fra Forza e un ufficiale dei Gamma catturato in una sfor-tunata azione nel porto di Livorno a metà dicembre '44: «Voi, voi siete la vera "DECIMA" – esclamò il vecchio Comandante della X MAS abbracciando commosso il Gamma della RSI – Voi che combattete per l'Onore di questa Marina [...] Ma noi abbiamo dato per la Marina molto più di voi, noi abbiamo ceduto l'Onore [...]». – Nesi 1987, 256.
140.x Maraldi 1946, 135, 207, 594 @ verificare].
141.x Radiomessaggio di capodanno 1942, ivi.
142. Illegittimità dimostrata, con rigore giuridico, in Lodolini 1953.
Elio Lodolini è fonte ineccepibile. Come già il padre Armando. diresse con prestigio e com-petenza l’Archivio di Stato di Roma nel dopoguerra. Posso affermarlo in fede per diretta cono-scenza: fui dipendente di Armando nel 1949 e poi collega di Elio, questi in cima e io in fondo alla scala gerarchica come reggente e poi direttore dell’Archivio di Stato di Bolzano (1951-70).
143.x Anch’io, volontario men che ventenne, mi smarrii nel dedalo della guer-ra iniziata in un modo e finita in un altro. Per forza di circostanze e scarso discerni-mento militai prima per il Re, poi per la RSI, infine per Badoglio. Avevo due occhi e non vedevo; poi ne perdetti uno e ne vidi le conseguenze. Il caos seguito all'armi-stizio e l'età immatura mi impedivano di capire allora da che parte fosse la Patria.
144.x Cito un caso emblematico, tacendo il nome per carità di Patria: un ardito ope-raore dei mezzi d'assalto della R. Marina (MOVM) catturato dagli inglesi si avvale di una circolare di De Courten per tornare in Italia e, ripreso servizio come cobelligerante, agli ordini degli anglo-americani attaccò nostre unità in un porto del Nord.
Caso opposto: un altro asssaltatore, pure Medaglia d'oro, maledisse dapprima un inciampo burocratico che lo tratteneva in prigionia fino al termine del conflitto, ma tornato in patria e rebus cognitis lo benedisse. Era un marinaio di coscienza scrupolosa a tal segno che nel-l’adempiere servizi d’assistenza ad altri prigionieri, si pose il sottile problema se le sue prestazioni potevano configurarsi come collaborazione col nemico.
145.x AA.VV, 8 Settembre, 1995, 19.
146.x Ivi, 20.
147.x AA.VV, 8 Settembre, 1995, 21.
148.x Ivi, 22.
149. Ivi, 23-24.
150.x Ivi, 29.
151.x Altre notizie p. D'Asaro, in AA.VV, 8 Settembre, 1995.
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