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sabato 23 aprile 2016

LO STATO NEL RISORGIMENTO - Maria Cipriano

Quando sente parlare di Stato, la prima cosa che salta in mente all'italiano odierno sono le tasse. Infatti, per la stragrande maggioranza dei cittadini, Stato è sinonimo d'imposte e poco più. La fiducia degli italiani nelle istituzioni governative, nonostante ciò che dicono giornali e televisione, è ridotta ai minimi storici. Ci ritroviamo in una situazione che paradossalmente non è tanto distante da quella che l'Italia visse nei secoli prima della sua agognata riunificazione. Eppure non è sempre stato così. Torna a ricordarcelo, con il suo stile lucido e tagliente, la nostra Maria Cipriano. Dalla sua nascita, fino alla conclusione della seconda guerra mondiale, tra alti e bassi, l'Italia ha cercato di tracciare il suo destino di nazione sovrana lungo i sentieri della storia. E lo ha fatto di contro ad un'Europa che l'ha sempre guardata con sospetto, osteggiandola e denigrandola. E' bene ricordarlo una volta di più, questa piccola penisola, questo lembo di terra incastonato nel cuore del mediterraneo, nonostante tutti gli ostacoli, in pochissimi anni è stata capace di balzi in avanti sbalorditivi, fino ad assurgere a vera e propria potenza su scala mondiale. E questo fu possibile soltanto grazie ad uno Stato degno di definirsi tale, unito e coeso, che promosse ed indirizzò il Genio Italico in maniera congrua e costante. Un processo che a piccole tappe stava costruendo la nostra via di grandezza e civiltà. Percorso - ahimè - bruscamente interrotto da una guerra che ci ha spezzati e divisi, consegnandoci nelle mani di potenze che fanno il loro gioco, difficilmente in linea coi nostri interessi (basti pensare, in merito, cosa è successo quelle poche volte che nel dopo guerra abbiamo provato ad alzare la testa). Lo scritto della Cipriano c'invita allora a riflettere e a considerare che anche in questi tempi bui è pur sempre possibile scorgere la luce della riscossa. Possiamo e dobbiamo meritarci uno Stato migliore, ma dovremmo esser noi a volerlo davvero.


Sandro Righini


LO STATO NEL RISORGIMENTO


L'aula del primo parlamento del Regno d'Italia a Palazzo Carignano a Torino.



Che l’unità, la compattezza, la solidità e la forza di uno Stato influiscano sulla nazione, sulla sua autostima, sulla sua maggiore o minore capacità di farsi largo nel mondo, di reagire ai soprusi, alle invadenze e alle soperchierie altrui, e siano determinanti per favorire lo sviluppo non solo economico ma anche morale, civile e culturale della nazione, penso non ci sarebbe bisogno di dimostrarlo se, oggi, non fossero tornate in auge spinte centrifughe secessioniste, indipendentiste, comunque disgregatrici, manovrate dall’esterno e puntualmente eseguite all'interno, le quali, per quanto possano attirare gli scontenti, gli arrabbiati e i delusi, rappresentano una pericolosa strada senza uscita per l’Italia, che la porterebbe a divenire un frammento disperso della Storia. E’ piuttosto la strada esattamente contraria che bisogna battere, giacchè è precisamente la debolezza dello Stato e la sua latitanza ai doveri fondamentali a creare tutti i problemi che ci angustiano.
Per secoli l’Italia, principalmente per colpa del Papato che si era inventato la “donazione di Costantino” come base territoriale del suo dispotico potere, fu una nazione senza uno Stato unico, divisa e dunque debole, esposta alle continue mire e invasioni straniere, che, per quante sanguinose rivolte, guerre e insurrezioni si opponessero, non furono scongiurate fino a quando non si concepì l’assoluta urgenza di uno Stato unico, di un Esercito unico, di identiche leggi e di un Governo centrale, come ben fu messo in luce da Mazzini, e, prima di lui, dall'intellettuale piacentino Melchiorre Gioia (poi arrestato dagli austriaci assieme a Pellico e Maroncelli), il quale già nel 1796 scriveva: “tutto ci invita a unirci con la massima possibile strettezza nel seno di una repubblica indivisibile.” Proprio in quel periodo, favoriti dalla rivoluzione francese che tentava di espandersi in Europa e che nel 1796, con la prima discesa di Napoleone in Italia (allora era un semplice generale del Direttorio), portò alla nascita di piccole repubbliche giacobine -la più importante delle quali fu la repubblica partenopea-, poterono balzare fuori allo scoperto tutte le idee ferocemente represse sull'unità e indipendenza della penisola a lungo covate, che l'importante occasione storica della rivoluzione francese permetteva per la prima volta di esternare liberamente in pubblico. Nacque così ufficialmente la grande corrente unitaria italiana, che in Milano e Napoli ebbe i sui centri maggiori, rappresentata dai più svariati esponenti nel campo letterario, scientifico e intellettuale, dal Foscolo al Manzoni, dall'Alfieri al Monti, preceduta dall'unione degli scienziati italiani già costituitisi in associazione ancor prima della rivoluzione francese, per iniziativa dell'ingegnere della Serenissima Antonio Maria Lorgna. Tra i tanti scampati alla spietata repressione attuata nel Regno di Napoli, vi fu l'illustre studioso Matteo Angelo Galdi, fondatore del “Giornale dei patrioti d'Italia” che uscì con ben 143 numeri nel 1797 a Milano, e autore del libro “Sulla necessità di stabilire una repubblica in Italia”.
Ma fu soprattutto Francesco Lomonaco, l'intellettuale lucano nato a Montalbano Jonico in provincia di Matera nel 1772, anche lui sfuggito per miracolo alla cruenta repressione appoggiata dagli Inglesi di Ferdinando I e di Maria Carolina, uno dei maggiori precursori del Risorgimento Italiano, oltrechè genio precocissimo in svariate discipline: il più famoso dei tre Francesco Lomonaco lucani, nativi tutti e tre di Montalbano e appartenenti allo stesso casato, che, con uno scarto di pochi anni, presero parte in vesti diverse al Risorgimento nazionale. Uno dei tre morì in prigione a Potenza nel 1823 come carbonaro. Un altro fu sindaco di Montalbano Jonico con il Regno d'Italia.
Il Francesco Lo Monaco intellettuale, filosofo e politico, morto suicida nel 1810 perchè perseguitato dalle autorità francesi napoleoniche a causa delle sue idee d'indipendenza dell'Italia da ogni straniero, è considerato con ragione uno dei più illustri antesignani del nostro Risorgimento, in quanto affermò che la nazione senza uno Stato indipendente, anche se coesa su basi geografiche, etniche, storiche, linguistiche e spirituali, corre gravi rischi di sopravvivenza ed è perennemente in pericolo. Peggio: è destinata a inevitabili divisioni localistiche, apportatrici di rivalità, diffidenze e chiusure reciproche com'era appunto l'Italia del suo tempo, da lui deprecata. E proprio a una nuova Italia rinnovata nell'unità, il grande pensatore lucano rivolse costantemente i suoi pensieri, i suoi auspici, le sue più ardenti speranze.
Nella giungla della Storia, perciò, lo Stato è lo scudo necessario, è la casa condivisa presso cui trovare tutela, sicurezza, leggi comuni e omogeneità d’intenti. La prova eclatante di ciò l’abbiamo sotto gli occhi oggi, dove, con l’esautorazione dello Stato che è garante supremo della sovranità, dell’unità e dell’indipendenza della nazione, e l’abbattersi delle sue alte prerogative, l’Italia è diventata una barca allo sbando il cui timone viene mantenuto solo per garantire certi introiti finanziari, ridotta a una pedina in mani altrui, la cui mente dirigente non è più a Roma. Il che ha pesanti ripercussioni in tutti i campi, non solo in quello politico ed economico, ma in quello morale, culturale, psicologico, scientifico e militare.
Se i nostri antenati che hanno fatto il Risorgimento vedessero come, grazie alle forze anti-Risorgimentali rientrate in pista trionfanti dopo la sconfitta bellica del ‘45, l’Italia sia finita sull’orlo di una situazione pre-unitaria, costretta a ubbidire a un padrone straniero e chinare il capo al primo rimbrotto d’oltreconfine, fremerebbero di rabbia e di livore e farebbero un secondo Risorgimento. Né la globalizzazione può giustificare tutto questo, dal momento che le nazioni che si mantengono protette da un vero Stato, cercano di sfruttare il mercato globale solo per i vantaggi che può comportare, e sono in grado di far sentire normalmente la propria voce nei casi di vertenze reciproche, in cui invece lo Stato italiano, come insegna la vicenda dei due marò non ancora conclusa dopo quattro anni, ha dimostrato di non avere nessuna voce in capitolo.
Proprio l'attuale opera di sistematico infangamento del Risorgimento, portata pervicacemente avanti da gruppi i più disparati ed eterogenei, ma tutti compatti nella denigrazione di quel grandioso avvenimento, non è chi non veda si associ pienamente a questa congiura contro l'Italia unita che è anche congiura contro lo Stato, inteso come forza superiore, come scudo incoercibile della nazione. Non a caso, molte delle pretestuose polemiche e recriminazioni lanciate avverso il Regno d'Italia nato dal Risorgimento si appuntano sulla centralizzazione piemontese e il mancato decentramento amministrativo che avrebbero condannato le regioni, in particolare quelle meridionali, a un'unione forzata, nell'assorbimento di leggi estranee ed inique, e nella rinuncia a benevole e benefiche consuetudini, usi e normative precedenti che il Regno d'Italia avrebbe brutalmente abolito. Considerato che la coscrizione obbligatoria (da cui per ovvi motivi erano esclusi i siciliani in quanto l'avrebbero usata per immediatamente ribellarsi ai Borboni) e la tassa sul macinato preesistevano all'arrivo degli “invasori piemontesi”, i protestanti anti-risorgimentali non hanno ancora redatto un elenco serio e convincente né delle famigerate leggi “piemontesi” fatte ingoiare a forza ai meridionali (e a tutti gli altri Italiani), né delle tanto declamate leggi, usi e consuetudini pre-unitarie che Torino avrebbe cassato con un colpo di spugna onde soggiogare tutta l'Italia sotto il suo protervo tallone, consuetudini fra le quali vi era quella, assai comune nel mezzogiorno, della monacazione forzata, del baciamani, e della fustigazione del contadino disobbediente, poi scomparse -guarda caso- con il Regno d'Italia e ancor prima con Garibaldi.
Il deputato Giuseppe Ferrari, che nel Parlamento del nuovo Regno sedeva tra i banchi della Sinistra, dunque in un'ala piuttosto critica verso il Governo, narrò in aula con raccapriccio di aver veduto per strada a Napoli (ovviamente prima della riunificazione) un vetturino frustato con veemenza in volto da un nobile, e che, pur col viso tutto insanguinato, non osava assolutamente reagire. Riguardo al Codice Penale piemontese, per esempio, esso non fu esteso alla Toscana che si tenne il proprio, né fu esteso “tout-court” neanche all'ex Regno delle Due Sicilie, anzi venne integrato da alcune disposizioni di questo laddove esse erano più innovative giacchè di derivazione napoleonica-murattiana, senza contare che il Codice Penale piemontese del 1859 aveva già abolito i reati contro la religione, ancora operanti invece nella legislazione meridionale. Entrambe, poi, contemplavano ancora il suicidio come reato: un'aberrazione inconcepibile, finalmente abolita dal Regno d'Italia con il nuovo Codice Penale Zanardelli, promulgato nel 1889, ma già, di fatto, caduta in disuso nel Regno di Sardegna.
Fu dunque davvero il Regno d'Italia la “piovra piemontese” che di tutto si appropriò e tutto “piemontesizzò”, oppure esso fu la provvida risultante dei contributi di tutti gli Italiani che fin dall'inizio, addirittura prima ancora che il Regno d'Italia fosse proclamato, già sedevano sui banchi del Parlamento di Torino? Non era forse Torino la città che li aveva generosamente accolti, quando, braccati, condannati, inseguiti, là avevano trovato un tetto, un lavoro e i salotti e le case che si aprivano?
Eppure oggi si parla di questa “piemontesizzazione” come fosse un'infamia, senza pensare che fu grazie ad essa che il neonato Regno approvò da subito spese ingentissime soprattutto per il mezzogiorno, senza avere nemmeno la copertura finanziaria. Tra un accesso di febbre e l'altra, negli ultimi giorni della sua vita, il conte di Cavour si preoccupava delle cose urgenti da fare, in particolare del prestito di 500 milioni che aveva richiesto, e di altre mille incombenze alle quali, nella dura lotta contro il male che l'avrebbe portato da lì a poco alla tomba, insisteva a interessarsi, gridando a chi lo implorava di desistere: “Ho l'Italia sulle braccia!”.
I detrattori odierni, che non presentano nulla di nuovo rispetto ai detrattori che li hanno preceduti ma ripetono ossessivamente le loro invettive, non hanno mai spiegato, fra gli innumerevoli indici economici dell'indubbia crescita e progresso del Regno d'Italia che si possono citare, come mai aumentarono i consumi, diminuì la mortalità, decrebbe l'analfabetismo, aumentò la statura fisica degli italiani, ci fu un'impennata demografica del 30%, crollò la mortalità da vaiolo dopo l'introduzione della vaccinazione obbligatoria nel 1888, vaccinazione che negli Stati pre-unitari era fluttuata tra mille incerti (il Papa l'aveva esplicitamente condannata come cosa del demonio assieme all'illuminazione a gas e al telegrafo) e che solo lo Stato unitario impose a tutta la penisola con la sua autorità. Dati che possono sembrare marginali e invece sono significativi, comprovano un eccezionale sviluppo in pochi anni: l'ammontare dei vaglia telegrafici, per esempio, quale mezzo rapido e sicuro di trasferimento dei valori, aumentò vertiginosamente: da 44 milioni nel 1861, a 68 milioni nel '62, a 139 milioni nel '63, a 160 milioni nel '64. Anche la rete telegrafica, strumento indispensabile della nuova epoca, fu estesa in pochi anni a tutto il territorio nazionale. Così gli uffici dell'Anagrafe, base certa dello stato civile e simbolo dell'era moderna, in breve volgere di anni furono posti in tutti i Comuni. Quattro compagnie marittime nazionali sussidiate dallo Stato, di cui una meridionale, già nel 1866 coprivano ben 24 linee marittime di collegamento fra i vari porti continentali e insulari, arrivando fino in Grecia e in Egitto. E si potrebbe andare avanti di questo passo per molto ancora.
Analogamente le leggi per la tutela del lavoro minorile, una piaga sociale endemica diffusa ovunque (lo è tuttora), ma particolarmente virulenta nell'ex “paradiso” borbonico ove gli inglesi godevano di enclavi privilegiate, e dove donne e bambini di ogni età venivano sfruttati senza scrupoli dall'alba al tramonto in opifici malsani e insicuri (proprio quelli che l'anti-Risorgimento decanta) e nelle famose zolfare siciliane (nelle quali venivano impiegati anche bambini di 4 anni), trovarono una graduale applicazione e portarono a una lenta progressiva remissione di quella disastrosa piaga con le numerose leggi varate dal Regno d'Italia a partire dal 1869, leggi che furono osteggiate in particolare proprio al Sud ov'era assai difficile per le autorità statali convincere i genitori a mandare i figli negli asili e a scuola, e che ciò nonostante indussero pian piano un irreversibile cambiamento (poi ulteriormente progredito col Fascismo), corredate da altre leggi quali l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l'abolizione del maggiorasco (cioè della trasmissione al primogenito dell'intero patrimonio, che cominciò a colpire il latifondo), l'abolizione dei lavori forzati nel 1889 (si tenga presente che negli Stati uniti i lavori forzati erano in piena applicazione ancora negli anni trenta del XX° secolo), l'abolizione della pena di morte nel 1889 (ma di fatto non era stata più applicata fin dal 1877), la nascita nel 1885 della S.A.I., società degli agricoltori italiani, ai quali si attribuiva per la prima volta un ruolo soggettivo nel piano generale nazionale di modernizzazione dell'agricoltura, molto arretrata in tutti gli stati pre-unitari, dove era normale per un contadino andare scalzo: leggi alle quali, in un paese pieno di così gravi problematiche, sarebbe maggiormente giovata una dittatura illuminata come quella auspicata da Garibaldi o una democrazia popolare come quella auspicata da Mazzini per risolvere i problemi in modo più efficace, rapido e radicale, ma che pure ottenne indubbi e sorprendenti progressi, altrimenti inattuabili in un contesto europeo che esigeva l'omologazione dell'Italia ai suoi parametri.
La legge per il risanamento della città di Napoli, immersa in disastrose condizioni igienico-sanitarie -la cosiddetta legge “Napoli”del 1885- che prevedeva ampi lavori di bonifica, ristrutturazione e abbellimento per un costo che partiva da un fondo di 100 milioni di lire e per la prima volta fece ricorso all'esproprio per pubblica utilità, non si rese più procrastinabile di fronte all'ennesima epidemia di colera che tornò a colpire la città nel 1884, in un contesto sovraffollato, cresciuto disordinatamente, dove i malanni si erano sedimentati l'uno sull'altro nei secoli, dove al tempo della riunificazione stazionavano dai 25.000 ai 40.000 mendicanti -detti “lazzari”- senza dimora, abituati ad arrangiarsi a vivere d'espedienti, e dove la camorra, nata durante il malgoverno del vicereame spagnolo durato oltre due secoli, si era comodamente insediata, più o meno tollerata dai Borboni e dalla popolazione che non ci faceva quasi caso, come fosse una manifestazione folckloristica della città. Il Regno d'Italia, pur con molta fatica, riuscì a far entrare pian piano il principio di legalità, il rispetto delle leggi e dell'autorità e i primi concetti di educazione civica e di civile convivenza, come dimostra il maxiprocesso di Viterbo (il cosiddetto processo Cuocolo) contro la camorra, che fece epoca e rappresentò uno vero e proprio spartiacque, con l'adozione di un'energica squadra di Carabinieri creata apposta, e si concluse nel 1912 praticamente con la decimazione di quella consorteria criminale che viveva di estorsioni, la quale, dopo aver subito un altro definitivo colpo durante il Ventennio, ritornò in auge dopo la seconda guerra mondiale, in particolare dal 1970 in poi, e adesso, con la definitiva abdicazione dello Stato divenuto europeista e immigrazionista, sembra sia entrata addirittura nel PIL.
Ma un ulteriore grave ostacolo veniva a intralciare, fra i tanti, il novello Regno d'Italia: l'isolamento internazionale. Una volta placati gli entusiasmi popolari dell'opinione pubblica straniera che aveva spontaneamente sostenuto il Risorgimento italiano con generose collette e donazioni in danaro e in natura, l'Italia si trovava circondata dalla gelosia della Francia, dalla guardinga vigilanza dell'Inghilterra appollaiata sull'arcipelago di Malta che era sempre appartenuto all'Italia e dove i disordini e le proteste dei maltesi che si sentivano italiani venivano soffocati con la forza e la lingua inglese imposta per legge, dall'ansia di vendetta dell'Austria, dal sussiego della Russia, dall'ambiguità tedesca, nonchè dal più duro ostracismo del Papa e della Chiesa che faceva di tutto per ostacolare le riforme della pubblica istruzione e qualsiasi altro passo in direzione della laicizzazione e modernizzazione dello società, intromettendosi continuamente nelle opere e intenzioni del legislatore e del Governo, usando del ricatto della religione, e premendo perfino sulla figlia di Vittorio Emanuele II, la principessa Maria Clotilde, notoriamente religiosissima. Non si contano le infami lettere anonime che S.M. Il Re ricevette nel corso del Risorgimento e dopo, in cui gli si minacciava l'inferno e la dannazione eterna (a lui e a tutti i ministri), il crollo della dinastia, l'ira divina, e ogni sorta di disgrazia. Poco dopo la morte di Cavour, il giorno 28 giugno 1861, il giornale “Civiltà cattolica” usciva con questo infelice commento: “Se vi è morte che porti seco chiarissimamente l'impronta di un verdetto celeste, questa è la morte del Conte di Cavour.”. Ma, paradossalmente, proprio a smentire tale asserzione, il celebre e rigoroso fondatore della rivista gesuita “Civiltà cattolica”, il napoletano Carlo Maria Curci, sempre pervicacemente schierato con la sua rivista contro il Risorgimento per la difesa del Trono e dell'Altare, nel giro di pochi anni si convertì radicalmente alle idee nuove, all'Unità d'Italia che tanto aveva osteggiato e all'abolizione del potere temporale dei papi che tanto aveva difeso, abbandonando la rivista, uscendo dall'Ordine e scrivendo in sostegno delle nuove idee libri come “Il Vaticano regio, tarlo superstite della Chiesa cattolica”, propugnando una conciliazione tra modernismo e fede per un rinnovamento del cristianesimo e della società. Perciò fu sospeso a divinis, vessato, emarginato, costretto in parte a ritrattare prima di morire, il che era ciò che solitamente accadeva ai religiosi onesti che vivevano il travaglio dell'amor di Patria.
L'abolizione del “foro ecclesiastico” (attuata dal Regno di Sardegna già prima dell'unificazione), che intendeva sancire il ruolo preminente dello Stato nel campo dell'amministrazione della giustizia da ritenersi uguale per tutti i cittadini, rappresentò uno dei più agguerriti motivi di scontro con la Chiesa, la quale pretendeva per i religiosi il mantenimento di una giurisdizione speciale separata (il “foro ecclesiastico”, appunto) non in materia di disciplina interna o religiosa, bensì in materia civile e penale, il che per lo Stato risorgimentale era inammissibile, essendo coloro che vestivano l'abito religioso da considerarsi cittadini come gli altri. Ebbene questi principi moderni, che dai detrattori del Risorgimento fin d'allora vennero superficialmente ascritti a un'immaginaria Massoneria internazionale atea e malefica che agiva dietro le quinte per abbattere il cristianesimo, costituivano invece la spontanea, improcrastinabile manifestazione di un popolo oppresso che si scrollava di dosso secoli e secoli di soffocante invadenza religiosa, imposizioni, ubbìe, analfabetismo e miseria. Era precisamente lo Stato che per la prima volta dopo tanti secoli faceva sentire la sua presenza a spaventare la Chiesa, perchè le sottraeva gli spazi vitali sui quali da sempre aveva padroneggiato. E questo Stato, a parte un'esigua fronda di federalisti che non ebbe mai peso, fu concepito dal Risorgimento, pur con diverse sfumature, all'incontrario di come lo si concepisce oggi, dove, a fronte di un potere centrale debole, lassista e lontano dai problemi reali del paese, pullula una pletora di enti locali costosi, rissosi e spesso finanziariamente in rosso, focolai di clientele e favoritismi, microcosmi di partiti e corruttele, che spesso non riescono a risolvere i problemi più elementari dei propri luoghi di riferimento. La mancata ricostruzione della città dell'Aquila, che ancora langue nel suo abbandono a sette anni dal terremoto che fece poco più di 300 vittime (un piccolo terremoto a confronto di quelli che ci presentano le cronache storiche italiane), quando la città di Ragusa in Dalmazia fu ricostruita in breve tempo nel XVI° secolo, ne è la dimostrazione più lampante. Il terremoto di Messina e Reggio Calabria che il Regno d'Italia si trovò a fronteggiare nel 1908 con ben diversi mezzi degli attuali, fu un cataclisma di proporzioni bibliche che fece 120.000 vittime. Non è dunque contro il Risorgimento e il Regno d'Italia che vanno dirette le lamentele di chi non ha trovato di meglio da fare che intentare processi a Garibaldi, a Cavour e a Nino Bixio, quanto contro i propri amministratori locali e contro uno Stato che con il Risorgimento ha poco a che vedere, in quanto è nato da una grave sconfitta militare che ha condizionato il futuro dell'Italia, da una resa incondizionata peggiore della sconfitta, da una frattura fra italiani non ancora sanata nel corpo della nazione, nonché da una presa del potere repentina da parte delle due forze da sempre nemiche del Risorgimento, le quali hanno innescato nel corpo della nazione un persistente anti-patriottismo di cui stiamo pagando tuttora le nefaste conseguenze.
Ebbene Cavour, che molte cose avrebbe da insegnare ai nostri governanti (si alzava alle quattro di mattina per lavorare), concepiva lo Stato come un corpo con un'unica testa decisionale, che si faceva carico di tutti i problemi della nazione, dal centro alla periferia, e che della nazione aveva una visione non già localistica e municipale, frammentaria e frammentata, ma una visione d'insieme, veramente nazionale, che fu precisamente quella che fece uscire l'Italia dal suo provincialismo e dalla sua emarginazione, garantendole un posto di rispetto nel consesso delle altre nazioni, un ruolo internazionale e l'ascesa economica e militare.
Ma in un Paese rimasto forzatamente diviso per tanti secoli, separato da recinti, dove per spostarsi da uno Stato all'altro o anche all'interno di uno stesso Stato bisognava recarsi dalla Polizia a spiegare dove, come, quando e perchè ci si spostava, questa concezione moderna non poteva non incontrare diffidenze e resistenze, in particolare al Sud, perchè principalmente proprio lì l'idea dello Stato era del tutto assente e sconosciuta in vaste plaghe del territorio soprattutto rurale, e perchè soprattutto lì l'ignoranza diffusa nelle popolazioni, specie all'interno, rendeva incomprensibile e anzi sospetta questa idea, considerata invadente e opprimente in quanto tale. Al contrario, il monarca assoluto verniciato da un po' d'illuminismo, con il suo paternalismo e le sue graziose concessioni, era l'idea semplice del potere che la gente ignorante del tempo meglio concepiva: un sovrano incoronato da Dio, alleato dell'Altare, cioè del Papa vicario di Cristo, intoccabili e sacri entrambi. Il Risorgimento fece piazza pulita di tutto ciò, e in tal senso può considerarsi una “rivoluzione”, perchè introdusse il concetto moderno dello Stato di diritto: un concetto invero troppo evoluto per poter essere capito e accettato all'unanimità da masse incolte che istintivamente rifiutavano qualsiasi cambiamento, giudicato come un'intromissione diabolica. Spaventati dalla triade di scomunicati di Torino (Cavour, Vittorio Emanuele e Garibaldi), in particolare da “Garubaldo” (dipinto dai borbonici come un pericolosissimo bandito) e i suoi “diavoli” in camicia rossa che venivano a insidiare ataviche superstizioni e malintesi equilibri, i cosiddetti “cafoni”, fortunatamente in numero ampiamente minoritario rispetto al resto della popolazione meridionale, concentrati soprattutto in Molise e all'interno dell'Abruzzo -zone vantate come fedeli ai Borbone-, ebbero fugaci momenti di appariscenza nella controreazione legittimista che si scatenò in alcune zone del Sud disordinatamente, a sprazzi e senza alcuna strategia né coordinazione, nonostante il daffare dei comitati borbonici clandestini, i quali confidavano di rimettere Francesco II sul trono, più che grazie al popolo che gli aveva voltato le spalle, grazie a un intervento armato dell'Europa, che mai si verificò. Al ritiro degli ambasciatori dalla Corte di Torino e ad altre proteste internazionali più o meno vivaci (la Spagna ruppe addirittura le relazioni diplomatiche col Piemonte), non fece infatti seguito nessuna pratica risoluzione delle potenze europee né per fermare Garibaldi né per fermare Vittorio Emanuele quando varcò i confini dello Stato Pontificio. Chiaramente si temeva che, contrastando la politica del conte di Cavour, grandemente stimato all'estero, si aprissero le porte alla rivoluzione di Garibaldi e di Mazzini che brillavano di unanimi simpatie popolari in Italia e fuori, e dunque si spianasse la strada al suffragio universale maschile e femminile da essi voluto, con tutti i ribaltamenti che avrebbe comportato.
Seguire gli “scoppi” della ribellione legittimista nel mezzogiorno -che nessuno nega, ma che va grandemente ridimensionata sia quantitativamente che qualitativamente- è tutt'altro che facile, dal momento che essa ebbe un andamento a macchia di leopardo, il più delle volte temporaneo e dunque facilmente domabile. Il punto numericamente culminante della partecipazione dei “cafoni” (da non confondersi coi briganti) a questa ribellione, si ebbe quando, in numero di circa tremila, combatterono a fianco di un distaccamento dell'esercito inviato da Francesco II in Molise, al comando del capitano Achille De Liguoro (che poi combatterà nel 1866 a fianco degli austriaci contro l'Italia) per tentare di sbarrare il passo, senza riuscirci, al Re Vittorio Emanuele II che scendeva dalle Marche per andare a raggiungere Garibaldi a Napoli. Era l'ottobre del 1860. In quell'occasione, il Re Vittorio Emanuele in persona potè constatare de visu i danni incalcolabili apportati a uomini e cose: intere masserie distrutte e bruciate, cadaveri mutilati, narrazioni di atrocità contro i cosiddetti “liberali” o “galantuomini”, chiunque fossero, colpevoli di aver esposto il Tricolore, e dunque uccisi a pietrate, a colpi d'ascia, a coltellate, aggrediti in casa dopo aver sfondato forsennatamente le porte. In quella trista occasione, di fronte alla gente che gli si faceva incontro a invocare vendetta, egli disse: “Se non fossi in Italia, mi comporterei come un re barbaro.”
Ma, pur aggredito da più parti anche all'interno di sé stesso, e nonostante tutte le difficoltà che dovette affrontare, il Regno d’Italia risolse sempre i problemi con le sue sole forze e per questo può fregiarsi a buon diritto del titolo di Stato sovrano, padrone delle proprie alleanze, delle proprie decisioni e delle proprie leggi. Quando la Francia, nel 1881, dando sfogo al livore per la nostra riunificazione che mai aveva realmente appoggiato, ci sottrasse a suon di cannonate il protettorato che ci eravamo conquistati sulla Tunisia, colonizzata da tanti abili agricoltori italiani –per lo più siciliani- che l’avevano trasformata in un giardino creando una fiorente comunità di italo-tunisini, il Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli si dimise finendo malamente la sua carriera politica poichè tutta la nazione fu percorsa da un soprassalto di sdegnato orgoglio, pretendendo una risposta militare immediata. Questa ci fu trent’anni dopo con l’occupazione della Libia e la guerra italo-turca, quando, sfidando l'europa, l'Italia entrò di forza nel Mediterraneo.
Oggi, nella pressochè totale indifferenza dei più, non si contano le altrui invasioni di campo, le continue intromissioni, le invadenze di spazi territoriali, aerei e marittimi, gli scandalosi cedimenti che a enumerarli non basterebbe un volume. In tutto questo, una nazione moralmente allo sbando che è tornata succube del Papato e di consorterie localistiche pre-unitarie che spargono la zizzania anti-risorgimentale, non ha mostrato di saper opporre altro che confuse ricette politiche, ingenue congetture di micro o macroregioni che verrebbero spazzate via come sono state spazzate via Cipro dai Turchi e la Corsica dai francesi. Se il Regno d’Italia prima o poi reagiva facendosi sentire, questa repubblica, tranne rarissime eccezioni, nemmeno ci si è mai provata. Anzi: proprio in occasione del centenario appena scorso della dichiarazione di guerra all’impero asburgico, si potrebbe fare con la fantasia uno scambio fra i due Stati, mettendo questo al posto del Regno d’Italia, e considerare le differenze.
La pressochè totale assenza di un’autorità superiore che rappresenti lo Stato, la sua lontananza dai cittadini, il suo esprimere concetti quasi sempre anti-nazionali, sono l’esempio offerto giornalmente ai nostri giovani, i quali non c’è da meravigliarsi si rivolgano ad altro.
Se Francesco Crispi, uno degli artefici meridionali del Risorgimento italiano che fu anche tra i Mille di Garibaldi, poteva scrivere all’indomani della riunificazione: “un’Italia rannicchiata nelle sue frontiere che abbandoni al naviglio straniero i mari che la circondano, che non parli nel consesso dei governi civili pel timore che questi diffidino di lei, che chiuda gli occhi per paura della luce, non può essere l’Italia alla quale hanno aspirato Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele.”, i governanti della repubblica antifascista, eredi diretti di coloro che dopo la sconfitta di Adua si riversarono nelle strade gridando “Viva Menelik!”, reputano giusto l’esatto contrario, e cioè che l’Italia se ne debba stare rattrappita in un angolo senza più nulla pretendere dal destino, schiacciata dall'europa. Ben prima che nascesse l’Europa, questo atteggiamento di rinuncia e di rimessa antinazionale è stato sempre la caratteristica dei due principali partiti anti-Risorgimentali, la DC e il PCI, datando fin dalle loro origini, quando comiciarono a far capolino tra le maglie del Regno d’Italia cercando di eroderlo dalle fondamenta. La sconfitta di Adua contro gli etiopi nel 1896, a tutt’oggi rimarcata come un’onta gigantesca mentre rappresenta tutt’altro che un caso eccezionale, dal momento che sconfitte simili sono normalmente annoverate da ogni nazione, viene citata in lungo elenco assieme alle altre sconfitte (Novara, Lissa, Custoza, Caporetto, Dogali…) tutte esageratamente evidenziate, dimenticando di enumerare le vittorie (Goito, Monzambano, San Martino, Bezzecca, Palestro, il Volturno, il Piave, Vittorio Veneto, e tutta la guerra italo-turca) che sono più numerose delle sconfitte e alcune delle quali portarono a conseguenze ben più stabili e durature per l’Italia.
Immersi nel pantano antinazionale, siamo dunque agli antipodi di ciò che proclamò Giosuè Carducci nel suo discorso “Per il Tricolore”, pronunciato a Reggio Emilia nel 1897 in occasione del centenario della sua nascita: “l’Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo: ella, per vivere, deve avere idee e forze sue, deve esplicare un ufficio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica. Tornate, o giovani, alla conoscenza dei Padri, e riponetevi in core quello che fu il sentimento, il voto, il proposito di quei grandi vecchi che hanno fatto la Patria: l’Italia avanti a tutto! L’Italia sopra tutto!”
Invece di aver fatto nostri questi incitamenti, buona parte della nazione ha ceduto alle arti mistificatorie anti-risorgimentali che hanno trovato terreno fertile in una repubblica che annualmente celebra come vittoria una delle più disastrose sconfitte dell’Italia e ha svenduto l'Italia all'europa, approvando nel 2010 all'unanimità, con un solo astenuto, la polizia sovranazionale -l'”eurogendorf”-, che gradualmente sostituirà la nostra Polizia di Stato e i nostri Carabinieri, e non sarà soggetta a nessun governo nazionale né dovrà render conto a nessun Parlamento o giudice dello Stato.
Nel frattempo, prima che sia completata l'opera di distruzione dell'identità nazionale e la vanificazione dello Stato, nel meridione qualcuno celebra come modelli ed eroi i briganti che tanto vanno di moda: Ninco Nanco e le sue belle imprese (giocare a palla con le teste dei bambini uccisi, per esempio), Cipriano Della Gala (che al processo non ebbe nemmeno il coraggio di confessare i suoi orrendi crimini e rovesciò tutte le colpe sui suoi uomini), Carmine Crocco (che in carcere si pentì di quello che aveva fatto), Cosimo Giordano (il cui lungo elenco di ignobili delitti gli ha appena fruttato la dedicazione di una strada nel suo paese natale, Cerreto Sannita in provincia di Benevento), e i vari mercenari stranieri che incamerarono solo batoste dal Regio esercito, incaricati dal “Supremo Consiglio di Roma” di restaurare i Borboni, ma che, pensando di trovare le popolazioni del mezzogiorno pronte a sollevarsi in massa contro i Savoia, sperimentarono che queste esistevano solo nell’immaginazione degli emissari di Franceso II che li avevano spinti all’impresa.
I disastri dell’oggi non sono certo conseguenza dell’Unità d’Italia, ma della dabbenaggine, della pochezza, dell’ottusità e dell’incapacità di chi non è degno di sciogliere i calzari agli uomini che fecero l’Unità d’Italia, i quali sfidarono imperi secolari, polizie agguerrite, eserciti mercenari, spionaggi astuti, la strapotenza della Chiesa e dell’arcigna Europa, e dunque non possono essere assolutamente giudicati da chi non è in grado nemmeno di opporsi col pensiero allo sfacelo attuale della nazione.
Maria Cipriano

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