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sabato 3 dicembre 2016

La Rivista del Bottino. Intervista a Marco Allasia

Questa intervista nasce dalla volontà di presentare ai nostri lettori un libro di memorialistica sulla IIª Guerra Mondiale scritto da Guido Allasia, classe 1921, volontario negli alpini e poi aderente alla R.S.I. Il libro di colui che viene giustamente definito dal curatore dell'edizione, Federico Prizzi, “il Guareschi Repubblicano”, è un volume postumo (Guido è morto nel 2001) la cui pubblicazione è stata fortemente voluta dal figlio Marco. A lui il nostro sodale Francesco Preziuso ha posto una serie d'interessanti domande con l'obbiettivo non solo di stimolare i nostri lettori ad immergersi tra le pagine di questo prezioso testo, ma anche di gettare un ulteriore sguardo su un pezzo di storia italiana per troppo tempo nascosto nell'ombra.

Gruppo di Studio AVSER



1) Per prima cosa vorremmo chiederle come e quando nasce in suo padre l'idea di scrivere questo libro?

Si tratta, in verità, non di un libro vero e proprio, bensì di una specie di taccuino di ricordi dedicato ai commilitoni che mio padre scrisse una volta andato in pensione. In realtà in origine non era destinato a un vasto pubblico e mio padre ne fece girare qualche fotocopia tra gli amici. Era desiderio di mia madre che vedesse la luce come un libro. Sono riuscito a realizzare questo desiderio grazie all’amico Federico Prizzi che cura una collana della NovAntico Editrice, solo dopo che entrambi i miei genitori sono passati nel Silenzio Solenne.

2) Può spiegare a coloro che non hanno ancora letto il libro l'origine e il significato del titolo “La rivista del bottino”?

Mi pare che questo sia ben spiegato nell’introduzione di Federico Prizzi e nella premessa, ovvero si tratta di un vocabolo del gergo militare che definisce l’inventario del materiale fornito dallo Stato e di cui il militare deve rispondere fino alla riconsegna alla fine del servizio (chi ha fatto il militare lo sa bene). Mio padre ha raccontato i suoi sessanta mesi di naja dando conto degli eventi accaduti, in modo anche ironico ed umoristico ed evitando volutamente considerazioni di tipo politico, quasi si trattasse di rendicontare le dotazioni ricevute.

3) Per suo padre la scelta di partire volontario per il fronte fu avvalorata dall'appoggio materno. Quanto fu determinante in ciò il clima familiare e quali valori gli erano stati trasmessi?

Mio padre era figlio di un ufficiale del Genio che combatté nella Prima Guerra Mondiale e che, per un caso, fu tra i primi sette ufficiali ad entrare in Trieste libera: mio nonno Mario, infatti, a fine guerra venne mandato in ricognizione su una macchina scoperta dotata di bandiera bianca con altri sei colleghi per vedere fin dove si fossero ritirati gli austriaci: si ritrovò inaspettatamente a Trieste. Lì conobbe mia nonna, discendente da una famiglia storica di Cortina d’Ampezzo, che aveva sentimenti irredentistici. Se a questo clima familiare assommiamo quella che fu l’educazione che poté ricevere dalle istituzioni del tempo, credo si possa così avere un quadro completo.

4) Facendo un confronto con gli attuali modelli educativi si evidenziano notevoli differenze. Secondo il suo parere quali sono i motivi di un così progressivo cambiamento?

Bella domanda! Qui, però ci vorrebbe una vita per rispondere, tanti e tali sono gli argomenti che si potrebbero portare per sottolineare le differenze. Diciamo semplicemente che mentre al tempo esisteva un’educazione familiare, che ormai si è smarrita, e poi un’educazione scolastica, ora gli insegnanti devono appena iniziare ad educare i bambini alle buone e sane abitudini che una volta venivano, appunto, dall’educazione familiare. Il clima dell’educazione nelle famiglie e anche scolastica risentiva, inoltre, del pathos patriottico risorgimentale: ricordiamo che la stessa Prima Guerra Mondiale era considerata la Quarta Guerra d’Indipendenza nazionale. Poi venne uno, Mussolini, che provò, una volta fatta l’Italia, a fare gli Italiani, per concludere amaramente che “governare gli Italiani non è difficile, è inutile”. Tuttavia dobbiamo rilevare che l’educazione impartita durante quegli anni tramite istituzioni quali il Ministero dell’Educazione Nazionale (è importante cogliere la differenza anche nel nome con l’attuale Ministero della Pubblica Istruzione…) è rimasta nel tempo anche dopo il 1945; infatti molti politici formatisi allora, portavano con sé comunque una formazione che si è proiettata inerzialmente negli anni successivi, sebbene poi questi abbiamo mutato le proprie idee ed ideali. Inoltre si dovrebbe aggiungere che mentre ante 1945 vi era spazio per tutto ciò che fosse spirituale e non semplicemente sentimental-religioso o materialistico, l’impronta imposta dai vincitori e da noi successivamente subita fu proprio con le caratteristiche di una vacua sentimentale religiosità, ora scaduta in un ancor più vuoto buonismo e in una forma di astratto intellettualismo con le stimmate del materialismo più gretto ed ottuso.

5) Le chiederei, se possibile, di specificare meglio la differenza che intercorre tra spirituale e sentimental-religioso?

Un’altra bella domanda cui rispondere non è facile! Beh, per prima cosa dobbiamo dire che non è possibile definire astrattamente lo spirituale. Sarebbe necessario percepirlo, praticando un’ascesi che conduca a ciò partendo dal pensiero ordinario di cui chiunque dispone e superandolo nell’attività pensante. In questo senso esiste la Via del Pensiero che Massimo Scaligero ha indicato nei Suoi libri. Un’opinione, in quanto tale, è “remota del perfetto”, come si potrebbe dire rammentando l’insegnamento del Canone buddhista. Non bisogna confondere un’opinione di natura religiosa che non supera l’ambito personale con lo spirituale che appartiene a tutti. Per rispondere compiutamente a questa domanda però, è necessario che la domanda non esprima mera curiosità ma una reale e intensa volontà di conoscenza; e le indicazioni non potrebbero non essere tali che portino l’“aspirante”, per così dire, da se stesso al livello in cui si è a ciò che di universale sta nel cosmo e, in considerazione dei tempi, in modo che l’approccio non sia meno scientifico di quanto si richiederebbe in qualsiasi altro campo dello scibile, sebbene il l’oggetto di questa conoscenza possa sembrare sfuggente e inafferrabile e la sua natura non riducibile ai parametri materiali (di peso, di misura, di divisione).

6) Torniamo al libro. Nonostante la drammaticità degli eventi narrati, lungo tutte le pagine si percepisce sempre una venatura ironica. Possiamo definirlo un punto di vista caratteristico di suo padre o la fedele descrizione di una gioventù spensierata che andò incontro alla guerra con una certa inconsapevolezza?

No, era una caratteristica propria di mio padre. Nella memorialistica di guerra credo che in effetti prevalgano gli aspetti più tetri e meno disincantati: con poche eccezioni, direi, come per esempio il celebre Diario clandestino di Guareschi.


Una vignetta di Guido Allasia


7) Scorrendo le pagine, possiamo godere di alcune simpatiche vignette ritraenti la vita militare sempre da un'angolatura umoristica. Dove nasce la passione di suo padre per il disegno? L’ha coltivata per tutta la sua vita?

Sì, mio padre ha sempre avuto una passione per il disegno e ha disegnato sempre per gli amici e per il periodico dell’Associazione dei reduci della Divisione Alpina Monterosa. È una passione che ha coltivato fino all’ultimo periodo della sua vita. Il libro è corredato da queste vignette, ma anche la copertina e il disegno sulla contro copertina, nonché le fotografie allegate sono sue. Ha amato il disegno da sempre, fin da molto giovane. Una curiosità: mio padre era mancino e scriveva con la sinistra, però disegnava con la destra.

8) Una volta inviato al fronte, dopo una breve parentesi in Montenegro ed Albania, suo padre subisce il “battesimo di fuoco” in Grecia. Qui racconta di un ufficiale inadeguato alla tensione dello scontro. Erano mancanze frequenti negli alti livelli dell'esercito?

Posso riferire quella che era l’opinione di mio padre, peraltro confermata dalla mia modesta esperienza di “storico non praticante”: in effetti le nostre gerarchie militari non si erano distinte, già nella Prima Guerra Mondiale, per acume e capacità. Allora, come temo ancora adesso, si faceva carriera per ragioni che esulavano dal merito, dall’abilità e dalla preparazione. Ricordo, inoltre, che mio padre spesso mi citava un libro del gen. Emilio Canevari sullo Stato maggiore tedesco (che peraltro ancora non ho avuto modo di leggere) in cui verrebbe dimostrato come a fronte dei nostri rari esempi di eccellenza, presso l’ufficialità germanica questa superiore scuola di guerra formava gli individui garantendo una base minima comune di ottimo livello.

9) Domanda secca. Come vissero suo padre e gli altri commilitoni la tragedia dell'8 settembre?

Credo sia ben descritto nel libro: prima con sconcerto in quanto appresero la notizia dai tedeschi con i quali fino alla sera prima erano alleati e commilitoni al fronte, poi con rabbia per il modo con cui le nostre autorità condussero la cosa senza tener conto delle truppe schierate su vari fronti accanto a quello che sarebbe dovuto diventare da un momento all’altro il nuovo nemico, infine con vergogna nei riguardi dei tedeschi. La maggior parte dei quadri degli ufficiali dei reparti alpini si ritrovarono poi nella Divisione Alpina Monterosa della RSI.

10) Sbagliamo nel dire che l'adesione di suo padre alla R.S.I. fu spontanea ed immediata? Ed è vero che non aderirono soltanto i fascisti più convinti?

Sì: mio padre aveva ricevuto un’educazione fascista ma, tutto sommato, direi che pensava più come un conservatore liberale che come un fascista. Ciò che si ribellò in lui all’obbrobrio, come fu chiamato, dell’8 settembre fu qualcosa che veniva dal suo essere più profondo cui era stato insegnato, ad esempio, il valore della parola data. Per questo la reazione della maggior parte dei commilitoni di mio padre e la sua stessa fu quella di continuare la guerra a fianco dei tedeschi, sebbene ancora non sapessero nemmeno come.

11) Quali furono i rapporti con l'alleato tedesco?

Credo buoni, anche se mio padre mi faceva notare le differenze di mentalità. Ad esempio mi raccontò di un episodio in cui il suo reparto, fermato da un crollo presso una galleria, non vide l’ora di potersi fermare a riposare. Di lì a poco sopraggiunse un sidecar della Wehrmacht che voleva passare a tutti i costi: ci volle del bello e del buono per convincere questi soldati tedeschi che non si poteva passare, mentre loro insistevano dicendo che dovevano passare per portare un qualche ordine ai propri commilitoni. Mentre gli Italiani, dunque, tendevano a pensare più a se stessi e, quindi, al proprio riposo, i tedeschi volevano proseguire a tutti i costi pensando che avrebbero potuto esser d’aiuto ad altri militari germanici. Individualismo e senso della collettività a confronto, potremmo dire.


Sottotenente Paolo Carlo Broggi


12) Tornato in Italia suo padre si trovò a combattere lungo la Linea Gotica. Il suo reparto sostenne gli scontri più accesi con l'esercito alleato. Vi furono episodi di scontro anche con i partigiani?

Sicuramente la divisione di cui fece parte mio padre ebbe qualche problema con i partigiani, tuttavia, per quanto lo riguarda, ebbe la fortuna di non doversi scontrare con altri Italiani. Purtroppo altri non furono così fortunati: per esempio possiamo qui ricordare la nobile ed eroica figura dell’alfiere della Monterosa, il sottotenente Paolo Carlo Broggi che venne ferito e catturato, dopo un conflitto a fuoco con un gruppo di partigiani e successivamente fucilato dopo un processo sommario: gli fu chiesto di rinnegare il giuramento fatto alla Repubblica Sociale Italiana (in cambio gli sarebbe stata salvata la vita), ma il valoroso ufficiale gridò davanti al plotone d’esecuzione: “L’Italia può fare a meno di me non del mio onore!”.


13) Alla fine della guerra fu imprigionato a Coltano (PI) insieme a tanti altri aderenti alla R.S.I. Cosa hanno significato per lui quei giorni di prigionia e con quale spirito li affrontò?

Cercò di sopravvivere il più decorosamente possibile, come molti prigionieri. Ricordo che raccontava di essersi occupato dell’orologio del campo che i prigionieri avevano realizzato con una serie di contrappesi e con un meccanismo idraulico. A differenza di altri, tra cui ricordo il capitano Carlo Giacomelli di Udine che riuscì ad evadere e tornare a casa, credo non abbia mai pensato di tentare la sorte con una fuga, anche perché fuori dal campo c’erano partigiani che non aspettavano altro che di poter mettere le mani su qualche fascista per manifestare la propria natura vile ed assassina, come purtroppo capitò a tanti. Ebbe come vicino di tenda il mitico comandante Edoardo Sala dei paracadutisti.


 La prigionia di Coltano attraverso la matita di Guido Allasia


14) Per concludere possiamo dire con certezza che l'esperienza della guerra, in un modo o nell'altro, ha segnato profondamente l'intera generazione di suo padre. Vorremmo chiederle quali furono le sue attività post-belliche? Fu protagonista della vita politica della prima repubblica?


Nell’immediato dopoguerra si ritrovò con altri alpini della Monterosa e, accanto alle immancabili cantate e bevute, organizzarono una associazione che raccogliesse i reduci, che perpetrasse il ricordo dei Caduti, che potesse essere d’aiuto a chi era ancora prigioniero, alle famiglie di chi era rimasto invalido o mutilato oppure di chi era stato privato di ogni sostegno dalla morte di un monterosino. Arrivarono addirittura ad avere un così alto senso del dovere e dello Stato da autotassarsi per pagare a vedove o invalidi una misera pensione di sopravvivenza, laddove la Repubblica antifascista non era disposta a riconoscere nulla a chi era stato dalla parte perdente. Non ebbe invece alcun ruolo di tipo politico; a posteriori, direi, saggiamente, visto quel che han dimostrato di essere i politici, purtroppo anche molti di quelli cosiddetti “di area”.

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