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venerdì 4 novembre 2016

Ricominciare da Trieste - Maria Cipriano

Perché ricominciare da Trieste? Forse perché nel novembre del 1953 ben sei dei suoi concittadini - il settimo morì alcuni mesi dopo per le ferite ricevute negli scontri - persero la vita rivendicando il sacrosanto diritto di tornare a far parte dell'Italia? O forse perché tanti di quei Dalmati e Istriani esuli dalle loro amate terre occupate dallo straniero trovarono qui rifugio, dimostrando di fonte alla Nazione di non provare vergogna, bensì orgoglio, professandosi Italiani? Si.. probabilmente anche per questo. A Trieste affondano le più tenaci radici della nostra Identità nazionale. Eppure anche nella splendida Piazza Unità d'Italia, dove sul finire dell'ottobre 1954 centinaia di migliaia di cittadini sventolarono il tricolore per festeggiare il tanto agognato ritorno alla Madre Patria, negli ultimi anni i triestini hanno visto avanzare sigle indipendentiste capaci di suscitare interesse tra la popolazione. Gruppuscoli vogliosi di ribalta, pronti a sfruttare il malcontento, ma dietro cui si celavano i soliti loschi affari e che sono via via scemate, ridimensionandosi, nel breve arco di un paio d'anni. Questo non solo per intrinseca fragilità interna, ma grazie anche, e soprattutto, al costante impegno di un'associazione cittadina, Trieste Pro Patria, a cui va il grandissimo merito di aver saputo riportare nella propria città l'Italia in primo piano.
Ma crollato il nemico del momento, che fare? Ecco il più grande dilemma. Ed al contempo la maggior sfida: come sconfiggere l'indifferenza? Pure nella patriottica Trieste sfidare la noncuranza, la sfiducia e il menefreghismo dei cittadini odierni resta il più grande ostacolo da superare. Anche di questo abbiamo parlato gli scorsi 21 e 22 ottobre nel capoluogo della Venezia-Giulia, dove Trieste Pro Patria in collaborazione con il gruppo facebook Essere Italofoni, sorto per riunire e dar voce a tutte le comunità italofone che ancora vivono in territori un tempo italiani come l'Istria, la Dalmazia, Fiume, Nizza o che con l'Italia hanno sempre avuto uno strettissimo rapporto (Corsica e Ticino), si è fatta promotrice di una due giorni all'insegna di tematiche di primaria importanza, quali Sovranità, Lingua e Identità. Teatro delle conferenze la storica sede della Lega Nazionale, un vero e proprio monumento vivente innalzato al patriottismo, che sarebbe auspicabile avere in ogni capoluogo d'Italia. Venerdì sera, Federico Zamboni e Valerio Lo Monaco de La Voce del Ribelle, ci hanno intrattenuto su Globalizzazione e Sovranità; sabato mattina, sotto l'egida del presidente della Lega Nazionale, l'Avv. Paolo Sardos Albertini, vari esponenti delle comunità italiane d'Istria, Ticino e Dalmazia hanno fatto un resoconto delle loro esperienze di italiani fuori dai patrii confini.
La nostra Maria Cipriano, presente con noi a Trieste, ha voluto con l'occasione raccogliere le sue impressioni su questa esperienza ed elaborare delle considerazioni in merito, al fine di farci riflettere sul cammino da intraprendere. Lo pubblichiamo in occasione della Festa della Vittoria, con la speranza che non solo sia di buon auspicio, ma foriero di proficue decisioni, affinché gli oltre seicentomila morti della Grande Guerra e i martiri di Trieste di sessanta tre anni or sono non abbiano versato il loro sangue invano.

Sandro Righini


RICOMINCIARE DA TRIESTE





Si potrebbe ricominciare da Trieste.
Si dovrebbe ricominciare da Trieste, a ricucire i fili dispersi e spezzati dell'identità nazionale, ferita oramai, e non da oggi, da una valanga di oltraggi a conteggiare i quali non basterebbe un intero ufficio di ragionieri. La natura stessa si è levata a simbolo delle nostre fratture interiori, e guarire le faglie vacillanti dello spirito sarà fondamentale per guarire anche quelle della materia.
In un secondo Risorgimento che è il grande miraggio della nostra sete di liberazione, Trieste sarebbe il principio, l'input, il segnale di un'aurora o quantomeno di una fiamma che non è morta e non sa morire.
Adesso, questa città che in 500 anni di dominazione asburgica mai divenne austriaca, questa città simbolo che nel 1813 gli Austriaci dichiararono terra di conquista, che Francesco Giuseppe nel 1915 dichiarò territorio nemico, e i cui abitanti il 30 ottobre 1918 abbatterono le aquile asburgiche per innalzare il Tricolore, è solo un bel capoluogo di regione ricco di palazzi e negozi eleganti, splendido sotto il sole, rigurgitante di giovani che vogliono divertirsi, ma clamorosamente assente e latitante a certi doveri. Una città a cui la globalizzazione e le astuzie della politica hanno tarpato le ali della memoria, una città interiormente spenta dietro l'apparente vivacità e l'andirivieni di un turismo in crescita costante.
Il rischio grave è quello di estinguersi in questa vetrina delle apparenze, di languire nell'assuefazione all'inevitabile, di guardarsi allo specchio di un presente che ha tradito e sconfessato il passato, nel disordine delle idee creato apposta per sballottare e disorientare gli spiriti che potrebbero ridestarsi.
La denigrazione del Risorgimento, la rinnegazione dell'Irredentismo, la banalizzazione della Grande Guerra, lo strizzar l'occhio agli indipendentismi, la propaganda della nuova dittatura, il finto pacifismo, l'ipocrisia dell'accoglienza, le doppie scritte a pochi passi dal Sacrario di Redipuglia, il sussiego del nuovo individualismo egocentrico, edonista e depresso che ha orrore di qualsiasi impegno patriottico, tutto ha congiurato e congiura contro il dovere della memoria, tutto congiura contro l'Italia. Coloro che si oppongono sono pochi, isolati, in un certo senso braccati, costretti a gridare, magari disordinatamente, la loro opposizione, la loro fedeltà all'Italia, la loro identità. I soliti fascisti , dirà la gente, che della politica ne ha piene le tasche, ma che proprio per questo dovrebbe partecipare e mettersi in mezzo, invece di mandare, appunto, i soliti fascisti in avanscoperta. Basterebbero poche idee chiare e da mettere in chiaro. Anzi una sola idea: l'Italia. Che viene prima di qualsiasi europa, che è al di sopra di qualsiasi europa e a prescindere da qualsiasi europa. L'Italia sulla cui dignità di popolo e nazione si è rovesciata recentemente l'invettiva becera e arrogante di un rappresentante delle attuali istituzioni: “Se gli italiani non vogliono accogliere i profughi, se ne vadano ad abitare in Ungheria, staremo meglio senza di loro.
Siamo ridotti a questo. Come disse il padre del grande patriota napoletano Luigi Settembrini, inorridito di fronte allo spettacolo dei carbonari fustigati a sangue per le strade della città partenopea affinché tutti vedessero e tremassero. “A tanto ci siamo ridotti!” A subire cioè simili offese, che dovrebbero scoperchiare le tombe di chi è morto per la Patria. In Ungheria ci vada chi ha pronunciato questa frase, anche se non credo che l'accoglierebbero.
Ma ciò che manca a Trieste è ciò che manca al resto della nazione: la forza, la volontà e il coraggio di reagire per rifondare un secondo Risorgimento. E poiché sono dei giganti quelli che diressero il primo, magistralmente combinati insieme in una misteriosa alchimia vincente, oggi come oggi non si vede né intravede non dico un gigante, ma nemmeno un qualcuno di spessore e levatura medio-alta che potrebbe emulare o riprodurre in qualche modo il principio di quelle gesta. Gesta che richiesero una fatica immane e uno smisurato dispendio di energie che a noi, stanchi e depressi ancor prima di cominciare, mancano totalmente.
Dentro il nostro animo noi vorremmo in linea teorica poter ripetere quelle vicende, e scoprirci pure noi eroi, guerrieri, martiri, statisti, condottieri, congiurati, rivoltosi, agenti segreti, cospiratori, ma, diciamo la verità, non ne siamo proprio capaci. Come non bastasse, non siamo neanche uniti e compatti in ciò che vorremmo, dal momento che metà della nazione nemmeno si accorge – o finge di non accorgersi – della realtà, e comunque ci ha capito ben poco, e, dell’altra metà che ne ha sentore, i più sono convinti che tanto non c’è più niente da fare, i tempi sono cambiati, e non resta che subire passivamente gli eventi. E nella spoliazione della Patria cui assistiamo è stata presa di mira anche la famiglia: infatti, con la scusa di difendere gli omosessuali, che noi rispettiamo, ma che sono sì e no il 5% della popolazione mondiale, si cerca di sradicare un'istituzione fondamentale che proprio in Italia, con le sue inesauribili risorse, sta tenendo testa alla crisi economica e al decadimento morale generale. Il Governo forse si occupa e preoccupa della famiglia italiana?
Il nostro panorama è diventato insomma così desolante, che, proprio per questo, la psiche tende a sfuggirlo, per rifugiarsi in una quotidianità spicciola dove le più ampie questioni, anche istituzionali, non ultima quella di un Parlamento cui la Costituzione attribuiva un ruolo centrale, garante della democrazia e legiferante, sono destinate a rimanere un pallido ricordo.
Se la nostra debolezza è palese, viceversa il Risorgimento era forte, e per questo vinse. Erano forti le persone. Loro agivano. Noi facciamo il contrario: ci chiudiamo in casa, isolandoci in un bozzolo di silenzio, aspettando non si sa cosa, consolandoci coi tanti palliativi che la società moderna offre – per esempio gli inutili sfoghi sulla rete – sperando in un indefinito “deus ex machina” che verrà dal cielo a risolvere i nostri macroscopici problemi, cui s’è aggiunto anche il terrorismo islamico, saltato fuori in concomitanza a un’invasione extracomunitaria sconsideratamente programmata.
Tre anni fa, qualcuno cercò di alzare la voce con il movimento 9 dicembre di cui nessuno più si ricorda, durato lo spazio di una stagione. In quanto alle “sentinelle in piedi”, organizzatrici di veglie silenziose e pacifiche in pro della libertà di pensiero contro la legge sull’omofobia imbastita dal solito deputato del solito partito che nel suo DNA ha la noncuranza della libertà altrui, sono a rischio costante di sputi, bestemmie, insulti da trivio e pugni in faccia in tutte le piazze in cui si presentano.
D'altra parte, se c'era qualcosa che il Risorgimento non faceva, era spezzettare le proteste in tanti rivoli diversi, staccati l'uno dall'altro. Mancanza di unità e di coordinazione, dunque. Confusione, disordine e divisione negli obiettivi da raggiungere. Quando l'abate Vincenzo Gioberti, che era cattolico, si presentò da Mazzini gli disse: “Nel mio cattolicesimo c'è posto per tutto.” Con ciò intendeva sottolineare che bisognava unirsi per rifare la Patria, e se i cattolici avessero perseguito fini separati, non ci sarebbe stato nessun Risorgimento. Oltre a ciò, la gente di allora non faceva caso ai prezzi da pagare (lo stesso Gioberti era esule ed era stato anche in galera), prezzi che venivano messi tranquillamente in conto (e a quell’epoca erano elargiti a piene mani torture, esili, confische dei beni, pene capitali, ritorsioni alle famiglie), ma per noi è diverso: protettivi come siamo verso i figli e la famiglia, abituati a viver bene, anelanti alla tranquillità, democraticamente ingenui, per noi è impensabile correre certi rischi, e perciò rinunciamo, evitiamo come la peste di metterci nei guai, stiamo attenti a tutto, giacché anche un diverbio con un immigrato può risolversi a nostro danno, anche la legittima difesa contro un malvivente può metterci nei guai, anche una parola contro l’islam o i gay può comprometterci, addirittura la difesa del Tricolore può costar cara, com’è avvenuto due anni fa a Casalduni in provincia di Benevento, dove due giovani orgogliosi difensori della bandiera italiana si sono ritrovati denunciati assieme ai nordafricani che l’avevano oltraggiata, messi sullo stesso piano di quelli.
C’è una dura realtà che ci sovrasta, che però non è peggiore di quella che sovrastava l'Italia pre-unitaria, anzi è migliore, considerando i mezzi odierni che i patrioti di allora non avevano, e considerando che la superpotenza americana sulla quale semplicisticamente qualcuno scarica tutte le colpe, non è detto sia la causa di ogni male, perché in molti casi questi mali la nostra classe dirigente li ha creati e voluti da sé. Essa è un'oligarchia che non si può più definire di destra, di sinistra o di centro, perché non è più politica, non ha più in sé nulla di politico nel senso etimologico del termine, ma semplicemente fa e disfa, impone e dispone, briga e disbriga senza che il popolo italiano sia non solo minimamente chiamato in causa ma nemmeno considerato: del resto si tratta di un popolo ormai facilmente malleabile, ben lontano dal popolo che fece il Risorgimento.
Dunque non s'intravede nessun Risorgimento all'orizzonte né qualcosa che possa lontanamente assomigliargli, anzi le voci gracchianti che ciarlano contro, portano acqua al mulino opposto, contribuendo ad aumentare il disordine delle idee che blocca ogni possibile azione, facendo il gioco di chi vorrebbe un'Italia ridotta allo stadio pre-unitario. Di fronte a tutto questo ci scopriamo impotenti. Stanchi e sconsolati ancora prima di cominciare. Sta qui la grande differenza tra noi e coloro che fecero l’Italia.
Se Mazzini non avesse mosso un dito, il Risorgimento non ci sarebbe stato, e con esso tutta la folta schiera di patrioti, combattenti, cospiratori, fiancheggiatori, sostenitori e finanziatori, che, al contrario, si sacrificarono, spesso morirono, ebbero i beni confiscati, la famiglia distrutta, la vita compromessa, le carriere stroncate, gli affetti sciupati, la salute rovinata. Mazzini stesso visse da braccato, sempre nascosto, cambiando dimora in continuazione, costretto a sacrificare perfino la sua vita sentimentale. Garibaldi visse inseguito da sei Polizie che gli davano la caccia, spesso separato dai figli, e con una taglia salatissima messa sulla sua testa dagli Austriaci. Cavour stesso morì prematuramente, stroncato dalle fatiche spese per l’Italia e dal dolore per aver dovuto sacrificare ai pesanti ricatti francesi la Contea di Nizza e la Savoia, territori storici della dinastia sabauda. Baldi giovani ancora nel fiore degli anni marcirono nelle segrete con le catene ai piedi, affrontarono torture e interrogatori, si suicidarono per non parlare, furono avvelenati in carcere, perirono o rimasero feriti e mutilati nelle tre guerre d’indipendenza, e soprattutto nei moti e insurrezioni pressoché continue sparse a macchia d’olio in tutta la penisola, dove, contro le bombe dei cannoni, i ribelli opponevano solo qualche fucile e la spanna di un coltello, le nude mani sulle barricate e un Tricolore stracciato.
Né l'analfabetismo di gran parte della popolazione impediva di capire: come avvenne a Cosenza nel 1844, quando tutti gli abitanti, anche i bambini, alle sei di mattina assisterono muti, addolorati e commossi al passaggio dei condannati a morte vestiti di nero condotti verso il macabro vallone di Rovito. Avevano capito perché quegli uomini valorosi erano sbarcati in Calabria, perché morivano, perché erano giunti da così lontano. Nessuno glielo aveva spiegato, non avevano letto libri, consultato archivi, udito conferenze: semplicemente il sentimento li guidava, una voce ancestrale, la coscienza antica di essere italiani, un tutt'uno col resto della penisola.
Così avvenne a Perugia, quando l'insurrezione del 1859 che si concluse in un massacro, non poteva contare che su qualche fucile sgangherato inviato clandestinamente da Firenze, e tanto meno poteva contare su Cavour, legato alle clausole del trattato con Napoleone III.
Questo è stato il nostro Risorgimento: un'infinita carrellata di anime elette, l'elevazione corale riscattatrice di un popolo.
La contessa milanese Erminia Frecavalli, arrestata dagli austriaci, tenuta segregata in casa, sorvegliata notte e giorno per mesi, riuscì a portare oltre il Ticino una lettera dei congiurati lombardi nascosta nelle sue trecce.
Andando a visitare il fratello nelle carceri di Mantova, il dottor Battista Maggi restò così impressionato dalle condizioni del congiunto che, rientrato casa, mentre riferiva ai familiari si commosse al punto che morì d’infarto.
L’ingegnere veronese Paolo Caliari venne tenuto per giorni sepolto al buio, nelle terribili celle della Mainolda, il peggior carcere austriaco in Italia, affinché parlasse. E non parlò.
Il patriota irredentista istriano Carlo De Franceschi, mentre gli austriaci urlanti ad armi spianate gli circondavano la casa, rimase impassibile in poltrona a leggere un libro.
Il patriota Cesare Braico, di Brindisi, che studiava medicina a Napoli, venne arrestato e processato con altre quaranta persone, e condannato al carcere duro dove la sua pur giovane e forte fibra ne fu compromessa. Nelle sue memorie racconta di come gli insetti più schifosi e repellenti piovessero di notte e di giorno sul suo pagliericcio. Commutata dopo dieci anni la pena dell’ergastolo in esilio perpetuo, rifiutò un rifugio sicuro all’estero per tornare in Italia a combattere a fianco di Garibaldi.
Un minuscolo paese siciliano di contadini, Vita, in provincia di Trapani, si prodigò durante l’impresa dei Mille per ricoverare i garibaldini feriti nelle proprie case, privandosi anche del necessario pur di salvarli, al punto che molti dei combattenti, pur ridotti in gravi condizioni, sopravvissero proprio grazie alla generosità di quella povere gente che spese ben 170 onze (una cifra ragguardevole per l’epoca) per assisterli e curarli.
Nella stessa Trieste, che fu la conclusione del Risorgimento e ora dovrebbe esserne il principio, una lapide affissa sulla facciata del Teatro Verdi ancora ricorda che da lì, il 23 marzo 1848, il patriota Giovanni Orlandini, impugnato il Tricolore, marciò valorosamente alla testa degli insorti contro le immani forze nemiche.
Era la trascinante forza ideale del Risorgimento che accorpava insieme ricchi e poveri, nobili e plebei, religiosi e laici, di tutte le regioni d'Italia, verso un'unica meta. Era una forza immensa, che infondeva coraggio e volontà inesauribili.
Ma oggi bisogna guardare in faccia la realtà, ciò che siamo. Di fronte a nemici numerosi e potenti, sicuri e baldanzosi d’aver già vinto, bisogna riflettere gravemente sulla Storia e misurarsi col destino.
Beato chi ha il coraggio di scegliere, perché la Patria bussa alle nostre porte, e noi non dobbiamo aver paura ad aprire. Fuori, c'è il mare aperto che ci aspetta, il mare azzurro dei destini vaticinati da D'Annunzio, la speranza di un mondo nuovo, della vita nuova, dove niente e nessuno potrà impedirci di armare la nostra piccola vela sotto il Faro della Vittoria, sperando che tant'altre si uniscano, di più e sempre di più, per ricominciare. Ricominciare da Trieste.


Maria Cipriano

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