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martedì 5 dicembre 2017

FIGLI DI UN DIO MINORE. Breve storia degli Agenti dei Consorzi Agrari.




Un tempo, e mi riferisco ad un epoca compresa tra la fine del XIX° secolo e gli anni '70 del secolo scorso, erano quattro le autorevoli figure di cui non si poteva fare a meno in paese durante le grandi occasioni, fossero esse matrimoni, inaugurazioni, feste o sagre: il sindaco, il prete, il maresciallo e l'agente del locale Consorzio Agrario. Inutile dire che tutti sanno bene perché le prime tre figure non potessero assolutamente mancare. Si resta invece perplessi riguardo la quarta, che forse nemmeno si conosce. Eppure, quando i paesi e le cittadine di provincia erano ancora vive comunità rurali e non semplici ed anonimi luoghi residenziali, la figura dell'agente del Consorzio Agrario rappresentava qualcosa di più che un semplice negoziante.
Esistono diversi libri sul ruolo svolto dai vari Consorzi Agrari italiani e dalla sua potente federazione – la Federconsorzi - nella storia dell'agricoltura nazionale. Libri in cui si evidenzia l'importanza del loro operato per il progresso delle tecniche agronomiche, il ruolo fondamentale svolto per lunghi anni nella politica degli ammassi del grano, il lavoro di promozione dei più moderni macchinari agricoli, gli stretti legami con la politica, l'apertura al credito agrario e molto altro ancora. Libri che s'incentrano per lo più sul ruolo della struttura consortile e sui quadri dirigenti che ne hanno determinato, nel bene o nel male, il cammino. Nessuno di essi si è però mai soffermato più di tanto sul motore vivo, territoriale ed umano dei Consorzi Agrari: i suoi Agenti. Bisogna fare una breve premessa, onde spiegare meglio ai nostri lettori di cosa e di chi stiamo parlando. I Consorzi Agrari sono oggi società cooperative a responsabilità limitata, per lo più strutturati in ambiti territoriali provinciali – un tempo in realtà anche più piccole, a cui il Fascismo pose termine nel 1939 raggruppandoli su base provinciale – , interprovinciali e ultimamente anche su base regionale e interregionale. Essendo strutturati in forma cooperativa i soci-agricoltori formano un consiglio di amministrazione e sono suddivisi in un Presidente, uno o più Vice-Presidenti, un consiglio dei soci, i Sindaci effettivi, i Sindaci supplenti e i Probiviri. Poi viene tutto il reparto amministrativo – Direttore, uffici commerciali, uffici contabili, segreteria etc etc – formato da personale dipendente. Infine, quelli che potremmo definire come le “vacche da latte” di tutta la struttura: gli Agenti. La loro figura professionale s'inserisce appieno nella categoria degli agenti e rappresentanti di commercio. Come questi sostengono un corso di formazione con relativo esame, a conclusione del quale viene loro rilasciato un attestato valido a vita per l'esercizio dell'attività professionale. Sono dunque iscritti alla camera di commercio, hanno una propria partita IVA, emettono fatture per le provvigioni loro spettanti e come ogni buon rappresentante versano i propri contributi tanto all'INPS - personalmente - quanto all'ENASARCO (Ente Nazionale di Assistenza per gli Agenti e Rappresentanti di Commercio) secondo un'aliquota contributiva sulle provvigioni maturate, per metà a carico dell'agente, con una detrazione sull'imponibile provvigionale e per metà della casa mandante. Tale formula contrattuale, esistente diciamo fin da principio, fu probabilmente scelta per due semplici motivi: il primo di natura economica, giacché un agente non costava e non costa, soprattutto adesso, all'azienda quanto un dipendente; il secondo perché tale inquadramento contrattuale implica per l'agente un impegno, una dedizione, un attaccamento e una partecipazione al proprio lavoro molto superiore a quanto potrebbe, in teoria, avere un dipendente. L'agente/rappresentante con deposito svolge dunque un lavoro in forma autonoma e indipendente, ma nell'osservanza delle istruzioni e delle regole impartite dal proprio Consorzio, cercando di mettere in pratica uno stretto spirito di collaborazione con la casa mandante. Suo obbligo ed incarico è quello di custodire con la cura del buon padre di famiglia le merci e i prodotti del Consorzio e promuovere e concludere affari per esso in una determinata zona, ultimando l'esecuzione delle vendite concluse con la consegna ai clienti. L'acquisto della merce, gli affitti dei locali (qual ora non siano di proprietà del Consorzio), il pagamento delle bollette (salvo una quota spettante all'agente sulle utenze telefoniche), le assicurazioni di tutto quanto sia proprietà del Consorzio e tutto quello che riguarda la cassa contabile e i terminali informatici per la gestione del deposito, sono spese a carico dell'azienda preponente. L'agente deve provvedere invece, come dicevamo, all'organizzazione dei magazzini di deposito e vendita a sua disposizione secondo le norme di legge e sono a suo carico tutte le spese connesse alla custodia e alla corretta conservazione delle merci. Suoi anche i mezzi di trasporto – solitamente furgoni e camion –, i mezzi di scarico (carrello elevatore) e di movimentazione della merce in magazzino (traspallet manuali o elettrici). I punti vendita sono dunque gestiti da agenti/rappresentanti, il cui guadagno consiste in percentuali, varie a seconda del gruppo merceologico, maturate sugli incassi (non sul fatturato) e che quindi hanno tutto l'interesse ad occuparsi non solo della vendita fine a sé stessa, ma anche della riscossione.


Il muletto è un mezzo vitale per gli agenti dei Consorzi Agrari


La prima differenza che intercorre però tra un agente di commercio come siamo normalmente abituati a pensarlo ed uno dei Consorzi Agrari è che quest'ultimo, salvo alcuni casi, è custode di un deposito merci. Se per un normale rappresentate il pane quotidiano sono la macchina e l'autostrada, per quello di un Consorzio Agrario è il magazzino o, meglio, l'Agenzia. Questa è davvero la sua seconda casa, se non a volte addirittura la prima (laddove i locali del consorzio dispongono di un appartamento limitrofo o soprastante il magazzino, sono frequenti i casi di agenti che li abitano). Da una parte abbiamo quindi la continua mobilità; dall'altra un punto fisso, una base da cui partire e a cui fare ritorno. L'agente/rappresentante di un Consorzio Agrario promuove e conclude affari come ogni altro rappresentante e deve quindi cercare i clienti nel suo ambito territoriale, muoversi, essere dinamico; ma al contempo può anche accoglierli, richiamarli in un punto di raccolta ed incontro. L'agenzia è qualcosa di più che un semplice negozio: è un piccolo microcosmo di uomini e merci, un terreno di battaglia, di liti, di infinite discussioni, di amicizie vere e profonde. Sui loro piazzali, dentro quelle stanze, tra l'odore dei mangimi e i bancali dei fertilizzanti, sono state scritte alcune delle fondamentali pagine della moderna agricoltura nazionale. Non dobbiamo dimenticare che l'Unità d'Italia pose la Nazione di fronte ad una drammatica verità: secoli e secoli di divisioni avevano creato non solo un divario enorme tra le diverse realtà agricole della penisola, ma addirittura una differenza abissale tra l'una e l'altra. Il quadro presentava poche eccezioni positive e tanta arretratezza. In molte regioni l'agricoltura si era fermata non dico al basso, ma all'alto medioevo, dove i contadini conducevano una vita miserabile, denutriti, analfabeti, vessati e sottomessi. Solo a partire dalla fine del XIX° secolo, nello sforzo di superare e vincere la terribile crisi agraria che attanagliò l'Europa intera, si prese a spingere verso un progressivo ammodernamento dell'agricoltura italiana. Uno sforzo in cui molto si deve all'opera di uomini lungimiranti, che nonostante le enormi difficoltà dell'epoca ed uno Stato italiano ancora giovane, alle prese con tante problematiche da risolvere e spesso restio ad intervenire in campo economico, seppero prender spunto dalle esperienze estere e tradurle in maniera originale in Patria. Questa borghesia agraria, animata da spirito imprenditoriale, ma dotata anche di una certa sensibilità verso le problematiche delle masse rurali, diede vita ai primi progetti di associazionismo, di credito agrario e soprattutto di propaganda tecnica nelle campagne. Se le Accademia Agrarie – la più famosa quella dei Georgofili di Firenze - furono per lo più cenacoli aristocratici di studio un po' autoreferenziali, le Cattedre Ambulanti, che nacquero in seno a questa borghesia attiva, invece fecero tanto per promulgare in campo le nuove e scientifiche tecniche di coltivazione tra i ceti rurali. Le Cattedre furono per lo più patrocinate dai Comizi Agrari, fondati con decreto governativo nel 1866 allo scopo di individuare idonee forme di sviluppo per le diverse realtà agricole italiane. Seppur meno efficaci, i Comizi Agrari più intraprendenti e fattivi diedero vita ai primi esperimenti di acquisti collettivi e sono definibili come una sorta di progenitori dei Consorzi Agrari. Ma poco si sarebbe potuto fare se questi ultimi, sempre più numerosi ed operativi sul finire del secolo, grazie alla creazione della Federconsorzi – avvenuta a Piacenza il 10 aprile del 1892 – e alla sua spinta propulsiva, non si fossero espansi come una macchia d'olio a livello nazionale, saldando in un unico corpo i tre capisaldi del progresso agricolo nazionale: credito, commercio e tecnica. Come dicevamo, è proprio all'interno dei Consorzi Agrari, così capillari e radicati sul territorio, presenti fino ad una trentina d'anni fa anche nei più sperduti comuni d'Italia, che i nostri agricoltori sono finalmente usciti dal loro alto medioevo ed hanno intrapreso una nuova strada. Sono gli agenti dei Consorzi Agrari ad averli cercati in campagna ed accolti tra le mura dell'agenzia, radunandoli per riunioni tecniche - come nella migliore tradizione delle mitiche cattedre ambulanti – o per presentare nuovi e più efficaci mezzi di produzione. Sono sempre gli agenti ad essersi fatti carico dei problemi degli agricoltori, fungendo più di una volta da diaframma tra l'amministrazione e la clientela, spesso e volentieri prendendo le difese di quest'ultima, fosse per prolungare un credito o trovare un giusto prezzo alla merce. Sempre loro, negli anni del boom economico, hanno introdotto nelle case contadine i primi elettrodomestici – frigoriferi, televisori, lavatrici –, portando così una ventata di modernità in un universo per troppi secoli immoto ed isolato. I Consorzi Agrari hanno rappresentato il fulcro attorno a cui è ruotato l'ammodernamento agricolo italiano e gli agenti le figure mercuriali, imprescindibili punti di comunicazione tra l'azienda e il territorio fisico e umano in cui essa opera, attraverso le quali promuoverlo e attuarlo.



Le cattedre ambulanti.
Il progresso agronomico incontra le masse contadine italiane


L'attività svolta dagli agenti è stata ed è tutt'oggi a dir poco intensa, passando dalla gestione del magazzino, alla promozione e conclusione dei contratti; dalla contabilità, alle consegne nelle aziende; dall'assistenza ai clienti, al facchinaggio. Gli agenti sono il motore sempre accesso e pulsante della struttura e vivono a 360 gradi il mondo agricolo in cui operano. Spesso e volentieri sono essi stessi agricoltori o figli di agricoltori e quindi sanno bene cosa vuol dire sporcarsi le mani e lavorare duro, non mancando mai di assistere i propri clienti anche negli orari più assurdi - la domenica, nei giorni di festa - offrendo così un servizio impagabile, ligi al più puro spirito che diede vita ai Consorzi Agrari: la cooperazione attiva verso tutti i produttori agricoli. E per questo venivano e vengono ascoltati, seguiti e ripagati con stima e affetto dagli agricoltori. Sia chiaro: non mancano e non sono mai mancati elementi smaliziati e furbi, sempre pronti a fare i giochi sporchi, anche a discapito dei propri colleghi. Questo rientra nell'animo del commercio e nell'indole, nel carattere di chi lo esercita. Ma nella maggior parte dei casi gli agenti sanno di non dover tirare troppo la corda, perché hanno a che fare con una clientela tutta particolare - conservatrice, cocciuta e sospettosa - con cui trattare è spesso e volentieri una vera e propria arte, in cui è necessario sapere fin dove spingersi e dove arrestare il passo. Fidelizzare gli agricoltori è molto difficile. Perderli, invece, un baleno.
Questo pezzo di Storia umana ed agricola d'Italia langue però oggi, come tante altre realtà imprenditoriali, in una posizione scomoda. La globalizzazione, la deregolamentazione dei mercati, l'asfissiante burocrazia europea e nazionale, unita all'assoluta inconsistenza politica dello Stato italiano, sono andati via via distruggendo quel tessuto agricolo che per lunghi anni era stato la base economica e civile della nostra Nazione. Di pari passo i Consorzi Agrari, prima travolti da scandali politici, poi lenti e farraginosi nel ricostruirsi, hanno perso spesso e volentieri terreno di fronte al dinamismo di molti concorretti privati e di numerose cooperative. Esistono ancora strutture propositive ed attive, ma per lo più il sistema consortile stenta e soffre. Sopratutto nel meridione sono andate via via scomparendo molte realtà consortili, segnando una grave perdita di capillarità territoriale e un'importante quota di mercato agricolo. Il crollo della Federconsorzi nel 1991 ha rappresentato un trauma epocale per tutti. In molti, in troppi, hanno continuato ad avere un atteggiamento sbagliato, burocratico, clientelare e piatto, quasi non si fossero accorti dei cambiamenti in atto. Si è inoltre continuato a concentrare troppo i propri sforzi aziendali verso il mondo cerealico-zootecnico, tradizionale nocciolo duro degli affari consortili, mentre questo sprofondava lentamente in un vicolo cieco. Scarsa e disorganizzata - ovviamente con le dovute eccezioni - l'attenzione verso i settori orto-frutticoli ed il comparto amatoriale, ambito quest'ultimo da non sottovalutare vista la sua continua espansione e la garanzia d'immediato denaro contante per strutture che, in molti casi, ancora utilizzano strumenti di pagamento quali le cambiali agrarie e sono in costante e fisiologica penuria di liquidità. Si sono fatti al riguardo alcuni timidi passi negli ultimi anni, anche se i Consorzi Agrari, invece d'istituire un apposito settore interno di sviluppo e ricerca per il settore amatoriale, hanno preferito affidarsi ad un franchising esterno (Tutto Giardino) per la cura e la gestione dei propri punti vendita impostati sul Garden. Scelta che ha sicuramente sgravato i Consorzi da investimenti e spese, ma che condanna comunque le strutture consortili e i suoi agenti a raccogliere poco più che le briciole. Ennesima dimostrazione della sopravvivenza di uno spirito apatico e privo d'intraprendenza costruttiva nei propri reparti amministrativi e commerciali. Bisogna infatti ricordare che i Consorzi Agrari sono stati, almeno dal dopo guerra in poi, feudi della Coldiretti – i cui iscritti rappresentano ancora oggi la maggior parte dei soci - e quindi posti sotto l'egida crociata della Democrazia Cristiana, la quale li ha spesso usati come ultima spiaggia dove piazzare figli o parenti di personalità del partito e dell'associazione, con tutte le conseguenze negative del caso in ordine d'efficienza e competenza professionale. Danni di questo clientelismo vengono pagati ancora oggi. Senza tra l’altro dimenticare che spesso le insolvenze più grosse per i Consorzi Agrari derivano proprio dai suoi stessi soci, i quali creano così un ulteriore circolo vizioso di cui paga le conseguenze non solo il sistema aziendale, ma anche e soprattutto i produttori stessi, quelli più onesti, che per le colpe di pochi si vedono ridurre gli affidamenti e i crediti e magari aumentare i prezzi. Questi sono gli amari frutti di una mentalità sbagliata che considera i diritti dei privilegi e i doveri cose superflue; una mentalità durissima da cambiare in tutto l’universo del associazionismo italiano. 



Il palazzo della Federconsorzi a Roma, in piazza Indipendenza


Non è quindi esagerato dire che i Consorzi Agrari, in molti casi, si reggono ancora in piedi grazie al solerte impegno dei suoi agenti, che si spendono per il proprio lavoro fino all'ultimo, ricavandone spesso delusioni e magri guadagni. Perché quest'ultimo è un altro, forse il fondamentale, dramma: essere agenti/rappresentati con deposito di un Consorzio Agrario è un'attività, oggi, quanto mai rischiosa a livello economico. Le provvigioni sono di media molto basse, attestandosi attorno a percentuali lorde del 4-5%, mentre al contempo le spese sono lievitate. Oltre ai mezzi di trasporto, di scarico e movimentazione, bisogna ricordare ai nostri lettori che quando si parla di conservazione e custodia delle merci, s'intende inoltre che ogni eventuali ammanco, ogni sacco rotto, vengono addebitati all'agente al termine dell'obbligatorio inventario annuale. Ma ancor più delle spese di gestione sono le tasse ad esser cresciute a dismisura, attestandosi oggi attorno al 50-60% sul redditto, delineando così un quadro economico estremamente difficoltoso. Per fare due conti e monetizzare le difficoltà di cui stiamo parlando, prendiamo ad esempio un'agenzia con un fatturato medio annuo di 1.000.000€. Secondo quanto abbiamo poc'anzi detto soltanto di provvigioni restano in tasca all'agente tra i 20 e i 25.000€. Ma da qui dobbiamo togliere le varie spese annuali, gli ammanchi di magazzino (che nelle agenzie più transitate, dove è difficile avere un controllo capillare sul deposito, possono raggiungere cifre ragguardevoli) e, se vogliamo, anche il costo di un operaio, che seppure part-time può comportare una spesa, stando molto bassi, intorno ai 15.000€ annui. Un'agenzia con un volume di fatturato intorno al milione di euro è considerabile come medio-piccola. Eppure di queste strutture ve ne sono ancora molte, perché non tutti i comprensori agricoli italiani muovono volumi importanti, anzi ne sussistono ancora di ben più piccole. Ora capiamo bene entro quali spazi economici si ritrovano a lavorare gli agenti dei Consorzi. Dunque se un tempo era più facile per essi avere a proprio carico anche del personale dipendete, oggi ciò è sempre più raro; aumentano anzi gli agenti senza deposito e si dilatano a dismisura le zone di competenza. Il risultato, in un caso o nell'altro, è quello di doversi sobbarcare sulle spalle un'impressionante mole di lavoro in più, dal quale ottenere come abbiamo visto una magra remunerazione. Se poi il proprio Consorzio Agrario non solo non versa gli oneri contributivi ENASARCO, ma addirittura le provvigioni stesse, allora il quadro si aggrava ulteriormente, mettendo in seria difficoltà intere famiglie, giacché sono tante le agenzie gestite a livello familiare. Non è raro trovare madri che aiutano i figli nella cura e nella pulizia del punto vendita; padri in pensione che per sopperire alle carenze logistiche, corrono da un'agenzia a l'altra per recuperare merce da consegnare ai clienti; mogli dedite a tenere ordinata la contabilità per i mariti. Tutto un lavoro sommerso che ancora oggi è la spina dorsale di molte, troppe agenzie. Ma non è finita qui. Vogliamo parlare della facilità con cui vengono disattese le norme contrattuali? D'altronde prendersi gioco di un agente è sempre più facile che provare a giocar sporco con del personale dipendente. Guai a non pagare un contributo INAIL ad un impiegato! Guai a ritardare la busta paga anche soltanto di un paio di giorni! Mentre ci sono agenti che lavorano, incassano e formano gli stipendi dei reparti amministrativi e della direzione, ma devono aspettare dei mesi prima di ricevere ciò che gli spetta. 




Una situazione grave che passa sotto silenzio, da pochi conosciuta ed in cui queste violazioni avvengono nonostante gli agenti siano inquadrati all'interno di una struttura sindacale e siano regolamentati da un contratto economico collettivo. L'ANSACAP (Associazione Nazionale Agenti dei Consorzi Agrari Provinciali) è una struttura nata nel 1965 in seno ai Consorzi Agrari, con sede nazionale a Bologna, ma costituita territorialmente dagli agenti stessi, volta a tutelare la loro attività, vigilando sul rispetto delle norme contrattuali. Ogni tre anni si riunisce con l'ASSOCAP (Associazione Consorzi Agrari Provinciali) per redigere e rinnovare il contratto economico collettivo in comune accordo tra le due parti. Ma nonostante il suo spirito battagliero e gli innumerevoli miglioramenti contrattuali ottenuti nel tempo, è sempre difficile per ANSACAP far rispettare gli accordi presi ed ottenere anche soltanto piccole modifiche a favore degli agenti. Molti Consorzi Agrari dimostrano verso di essi una colpevole irriconoscenza, quand'anche una dichiarata sfiducia, arrivando a sostenere che gli agenti rubano, imbrogliano il Consorzio e mirano soltanto a fare i propri interessi. C'è sicuramente una piccola verità in questo, ma è una posizione che non tiene però conto delle difficili condizioni in cui spesso si trovano ad operare gli agenti, costretti ad arrangiarsi alla bene e meglio per sopperire alle carenze funzionali, logistiche e commerciali dei propri Consorzi. Una posizione tesa soltanto a sminuire l'importanza del loro operato all'interno della struttura consortile, in barba al principio cooperativo che ne sta alla base. Tutto questo mentre sarebbe invece tempo d'istituire nuovi tavoli di confronto al fine di considerare soluzioni diverse per dare maggiori tutele e migliori certezze agli agenti. Anche alla luce dei recenti accorpamenti e della politica di fusione delle classiche realtà provinciali in agglomerati interprovinciali e regionali che sta investendo la maggior parte dei Consorzi in tutta Italia. I decenni a cavallo tra il XX° e il XXI° secolo hanno visto crollare molte delle vecchie certezze, ponendo tutto il tessuto economico e sociale italiano ed europeo di fronte a nuove e complesse problematiche. Come negli anni '70, quando le prime difficoltà aziendali spinsero i Consorzi Agrari ad intraprendere una politica di fusione – ottenendone però scarsi risultati -, oggi stiamo vivendo una nuova fase di concentrazione, dove si punta alla nascita di grandi centri organizzati e multifunzionali improntanti ad una maggiore efficienza. Modifiche e cambiamenti su cui purtroppo aleggia il sospetto che siano l'ennesimo rimpasto politico e non il frutto di una vera e propria strategia commerciale di ampliamento e miglioramento. Modifiche su cui sarebbe comunque utile tenere in maggior considerazione gli agenti stessi, rendendoli partecipi dei cambiamenti e non, come spesso avviene, tenerli all'oscuro fino all'ultimo minuto, quando si ritroveranno di fronte al fatto compiuto senza aver potuto dire una parola. Lo stesso dicasi delle provvigioni dove, presto o tardi che sia, sarà necessario intavolare una discussione sulle diverse specificità consortili. E' vero, fino ad oggi ogni realtà, ovviamente nel rispetto dell'accordo economico collettivo, si è riservata di pattuire proprie tabelle provvigionali ai suoi agenti; così che tra il Consorzio dell'Emilia e quello del Lombardo-Veneto esistono differenze, seppur minime, tra le percentuali delle provvigioni. Così come differenti sono le quote che i vari Consorzi garantiscono per i carichi e gli scarichi della merce in entrata ed uscita dai magazzini (facchinaggi). Ma sarebbe giusto e doveroso impostare a grosse linee una nuova direttiva nazionale in merito. Se è vero che aumentano le grandi agenzie, a causa della politica di accorpamento in atto, è altrettanto vero che stanno crescendo anche le agenzie medio-piccole, incentrate principalmente sul settore amatoriale. Queste agenzie, quando non inserite nel circuito di Tutto Giardino, sono preziose per la buona marginalità che possono garantire all'intera struttura aziendale, ma i ricavi degli agenti che vi lavorano spesso non sono sufficienti a garantire una remunerazione dignitosa rispetto all'impegno e alla costanza dedicatavi. Questo perché le tabelle provvigionali sono identiche a quelle messe a punto per agenzie con volumi d'affari maggiori. Anche per ovviare a tali situazioni sarà utile riconsiderare gli apporti provvigionali in maniera diversa da come fin qui fatto. Col tempo, sono andate inoltre crescendo anche le competenze tecniche degli agenti stessi, spesso periti agrari o periti agrari laureati che, laddove non esistono servizi tecnici – e purtroppo vi sono Consorzi che non ne hanno –, suppliscono in prima persona alle carenze dell'azienda preponente, sobbarcandosi l'ennesimo compito in più senza ricevere nessun tipo di riconoscimento o remunerazione. Andrebbero riviste anche le norme contrattuali riguardanti gli ammanchi di magazzino, prevedere una percentuale di tolleranza sulla merce rovinata, sui furti e molto, molto altro ancora. E per far questo ci sarà bisogno che la rappresentanza sindacale riesca a rinnovarsi per aumentare il suo peso contrattuale e spingersi ulteriormente avanti. Non sarà facile smarcasi da ricatti d'ogni sorta, ma diverrà necessario se vorrà fungere da superiore collante tra gli agenti stessi, non di rado restii ad iscriversi all'associazione e a farsi la guerra tra loro. Serve una piattaforma forte e decisa per affrontare le nuove sfide e le tante questioni, i tanti problemi che ANSACAP dovrà discutere con ASSOCAP per la stipula del nuovo accordo economico collettivo, il prossimo 31 dicembre. Una forza sindacale capace anche di ridiscutere e porre di nuovo all'attenzione i principi base dei Consorzi Agrari, richiedendo con decisione che vengano nuovamente ristabiliti i suoi sani principi cooperativi, di contro al vecchio clientelismo che li affossò e ad ogni sorta di possibile iper-aziendalismo futuro. Se esistono ancora delle possibilità di rinascita per la nostra agricoltura, queste passeranno attraverso tutte quelle strutture capaci di traghettarla oltre questa difficile e confusa fase storica, indicando una strategia e un'alternativa al predominio del libero mercato, in assenza di uno Stato capace di farlo. E chi meglio dei Consorzi Agrari, nati proprio con lo stesso intento sul finire del XIX° secolo, eredi di una tradizione cooperativa e aziendale ultra centenaria, potrà trovare nuove e valide soluzioni alle domande e alle incognite del settore agricolo italiano? 



Quali orizzonti per l'agricoltura italiana?


Ma ciò comporterà uno sforzo ulteriore per l'intera struttura e un serrato dialogo tra tutte le sue parti in causa, senza nascondimenti. La nascita nel 2009 di Consorzi Agrari d'Italia (CAI), una società formata da una ventina di Consorzi Agrari, principalmente del nord, volta a creare un nuovo organismo associativo efficiente e funzionale, è stata un primo tentativo di cambiamento. Senza voler ripetere le vicissitudini della Federconsorzi, c'è sicuramente necessità di un nuovo attore forte sulla scena agricola italiana, che agisca da propulsore ed indirizzi i vari Consorzi verso un obbiettivo comune, lavorando sulle leve della razionalizzazione della rete commerciale, l'ampliamento dei servizi, l'acquisizione di nuove fette di mercato, l'aggregazione dell'offerta e la creazione di marchi a proprio nome – tanto nella produzione di mezzi tecnici, quanto nell'agro-alimentare. Tutti progetti ed intenti validi, ma che rischiano seriamente di essere lettera morta o, peggio, belle parole da spendere per il politicante di turno. Se non si finirà di considerare gli Agenti come figli di un Dio minore, lasciandoli alle prese con le difficoltà quotidiane del proprio lavoro, lontani ed alieni da ogni sfera decisionale o anche soltanto consultiva, resterà aperta una ferita difficile da rimarginare. Chi meglio degli agenti stessi conosce la realtà agricola in cui opera? Chi meglio di loro sa quello che vogliono gli agricoltori, intuisce le loro aspirazioni, i loro pregi e i loro difetti? Privarsi di un simile apporto non è soltanto una scelta folle a livello aziendale, ma significa apportare un nuovo tassello a quel muro d'incomprensione e incomunicabilità che da troppi anni separa agenti e Consorzi. Una dura realtà da affrontare e che rischia seriamente, se non verrà trovata una giusta soluzione, di compromettere nei prossimi decenni una storia lunga più di un secolo. Una storia imprenditoriale ed umana che nonostante tutto, vicissitudini, scoramenti e problemi di ogni sorta, i protagonisti di questo nostro breve racconto continuano imperterriti a vivere giorno dopo giorno, macinando chilometri e chilometri su e giù per i magazzini e le campagne, solerti e attivi verso i propri clienti, in fin dei conti orgogliosi del proprio duro mestiere. E se anche non troverete mai i loro nomi nei libri di storia, ogni qual volta varcherete la soglia di un agenzia sarete di fronte ad un insostituibile attore della storia dell'agricoltura italiana: l'Agente di un Consorzio Agrario.


Sandro Righini



martedì 1 agosto 2017

Cesare Battisti a Viareggio

 
Ritratto di Cesare Battisti - Duilio Cambellotti

Immersi come siamo nel mortifero torpore della nostra quotidianità, è assai difficile anche soltanto immaginare quale clima si respirasse nel lontano 1915. L'Italia intera era percorsa dal fremito di una parola forte e terribile che agitava le coscienze degli italiani: guerra! Da nord a sud si susseguivano comizi e conferenze; i giornali erano in continuo fermento; nelle piazze gli scontri tra la fazione neutralista e quella interventista erano all'ordine del giorno. L'Italia di allora era una Nazione incandescente in preda ad un turbinio di passioni e sull'orlo di esplodere da un momento all'altro.
Una delle più autorevoli voci del settore interventista fu senz'ombra di dubbio quella di Cesare Battisti. Sinceramente convinto della necessità della guerra all'impero austro-ungarico per riscattare il suo Trentino e le altre provincie ancora schiacciate dal tallone imperiale, fu determinante nel convincere molti italiani alla causa interventista. Ma i comizi di Battisti non furono esenti da critiche e contestazioni; il partito socialista italiano, a differenza della maggioranza di quelli europei, esclusi alcuni suoi membri ed una corrente minoritaria – capeggiata da Mussolini – che si scisse dal partito, era per la maggioranza neutralista. Battisti aderì al socialismo fin dalla sua giovinezza, ma a quel socialismo intriso d'amor di Patria che vedeva una continuità con la miglior tradizione risorgimentale, lontano dalle derive internazionaliste che pervadevano invece larga parte del partito. Suoi numi ispiratori furono Mazzini, Garibaldi e Pisacane più che Marx ed Engels. Nel suo Trentino, dove l'oppressione assumeva i caratteri etnici della contrapposizione fra italiani e tedeschi più che quelli di classe, la lotta per la giustizia sociale e l'elevazione del popolo si sposavano alla perfezione con la questione nazionale e quindi con l'irredentismo. Per Battisti dunque la guerra contro l'Austria significava al contempo il compimento delle battaglie risorgimentali e la fine di un governo dispotico e reazionario solo attraverso la quale si sarebbe potuta realizzare l'emancipazione del popolo dall'ignoranza e dalla servitù. Mentre per la maggioranza dei socialisti italiani la guerra rappresentava l'ennesimo strumento borghese di sfruttamento delle masse proletarie. Fu così che in giro per l'Italia Battisti vide molti di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi compagni di partito criticarlo aspramente ed arrivare, in alcuni casi, addirittura allo scontro fisico pur di non farlo parlare. Le due contestazioni più eclatanti e clamorose furono indubbiamente quelle di Reggio Emilia e Viareggio. Nella prima città il forte nucleo di neutralisti, nel tentativo d'impedire la conferenza interventista, si scontrò con le forze dell'ordine ed uno dei manifestanti rimase ucciso. Era il 25 febbraio del 1915. Il comizio a Viareggio, il secondo per la precisione, si sarebbe svolto pochi giorni dopo quei drammatici avvenimenti. Ma procediamo con ordine, giacché proprio sulla conferenza nella città toscana abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione, non solo perché riguarda il territorio in cui viviamo, ma anche per la curiosità di approfondire meglio quelle vicende storiche su cui solitamente si scrivono giusto due righe. 


Teatro Politeama, luogo della prima conferenza di Battisti a Viareggio


La nostra ricerca ha incontrato subito un'incongruenza. La prima fonte consultata è stata quella di Leone Sbrana, scrittore e deputato del partito comunista, con un articolo sul n.9 del periodico Viareggio Ieri anno 1965 ed intitolato “Battisti riattizza il fuoco”. A cinquant'anni esatti da quella tumultuosa giornata del 1915, Sbrana ricordava ai suoi concittadini quando Battisti scese a Viareggio, indicando una data ben precisa: 7 marzo 1915. La seconda fonte consultata è stata quella di Ernesta Battisti Bittanti, moglie dell'Eroe, che descrisse l'opera di propaganda del marito in un voluminoso testo intitolato “Con Cesare Battisti attraverso l'Italia. Agosto 1914 – Maggio 1915” edizioni Fratelli Treves 1938. Nel libro, riguardo l'intervento a Viareggio, si parla di ben due conferenze tenute dal socialista trentino e non di una sola. La prima - 31 gennaio 1915 (anche se in un punto del libro si parla del 28, ma è sicuramente un errore o una svista) – è quella in cui Battisti fu contestato e non riuscì a parlare; la seconda - 27 febbraio – si tenne al Regio Casino e si concluse invece in maniera del tutto pacifica. È sorta immediatamente in noi una spontanea domanda: possibile che Leone Sbrana non fosse a conoscenza dell'opera di Ernesta Bittanti? Da quale fonte avrà tratto la data del 7 marzo? Gli stessi giornali d'epoca da noi rintracciati presso la Biblioteca Statale di Lucca, - trattasi di Libeccio, Gazzetta della Riviera e La Gazzetta di Lucca – sono concordi nel riportare la data della prima conferenza al 31 gennaio. Inoltre è d'uopo ricordare che il consiglio dei ministri, in particolar modo dopo i fatti di Reggio Emilia, decretò il divieto di riunioni e di qualsiasi altra manifestazione pericolosa per l'ordine pubblico. Tant'è che la seconda conferenza di Battisti, che doveva svolgersi al Teatro Pacini, venne proibita dal prefetto di Lucca, costringendo gli organizzatori a spostarsi nel Regio Casino proprio per evitare nuovi disordini. Inoltre, come testimonia la Bittanti, nel mese di marzo le conferenze del marito scemarono, un po' per il decreto ministeriale, un po' perché Battisti era ormai convinto che le sue parole avessero ottenuto il risultato sperato. L'interventismo stava infatti riscuotendo sempre più consensi tra la popolazione e l'opinione pubblica, tanto che la guerra appariva ormai ogni giorno più vicina. Il 7 di marzo resta quindi un piccolo mistero irrisolto. Probabilmente Sbrana avrà fatto confusione con la data del secondo comizio, di cui però non parla, riducendo la venuta di Battisti a Viareggio alla sola volta delle contestazioni. Ma torniamo ora a quel 31 gennaio del 1915. Seppur in due date differenti, tanto la Bittanti quanto Sbrana, sono concordi nell'indicare il Teatro Politeama quale luogo in cui avrebbe dovuto svolgersi l'intervento di Cesare Battisti. Viareggio nel 1915 era una cittadina in forte crescita. Aveva ottenuto lo status di città soltanto nel 1820 per concessione di Maria Luisa di Borbone, Infanta di Spagna e Duchessa di Lucca, sviluppandosi a vista d'occhio nel corso del XIX° secolo e passando da poco più di 3.000 abitanti ad oltre 20.000 al principiare del nuovo secolo. Era un centro moderno in continuo fermento, dove alla vocazione turistica e balneare si univano le attività produttive cantieristiche e marinare. Politicamente le città fu per lo più retta da giunte democratico moderate o liberali¹, ma in città erano forti tanto le componenti repubblicane, quanto quelle anarchiche e socialiste (queste ultime sviluppatesi soprattutto a cavallo dei due secoli). Bisogna ricordare che Viareggio fu probabilmente il primo comune d'Italia ad adottare il tricolore nel proprio stemma e lo fece nel 1848, quando ancora non esisteva lo Stato unitario italiano, a dimostrazione del sincero patriottismo che al tempo pervadeva la crescente cittadina, dove trovarono rifugio e dimora molti patrioti d'ispirazione mazziniana nel corso del Risorgimento.


Gonfalone cittadino


Furono infatti gli esponenti della democrazia interventista ad invitare ufficialmente l'On. Battisti a tenere una conferenza in città. Ma altrettanto forti erano le compagine dei socialisti neutralisti, che per l'occasione richiamarono a Viareggio molti iscritti e simpatizzanti dei comuni limitrofi (soprattutto dalla Versilia storica, comprendente i comuni di Seravezza, Forte dei Marmi, Stazzema e Pietrasanta). Anime che verranno inevitabilmente a scontrarsi proprio in quei primi mesi del 1915. Il teatro politeama era gremito di gente. Da una parte i repubblicani, i radicali e qualche nazionalista, uniti alla presenza di alcuni anarchici interventisti tra i quali spiccava il poliedrico artista Lorenzo Viani, convinto assertore dell'entrata in guerra dell'Italia; dall'altra i moderati giolittiani e i neutralisti ad oltranza, accaniti socialisti pronti a tutto pur d'impedire il comizio di Battisti. Secondo la testimonianza della Bittanti, che riferisce quanto raccontatogli dal marito, ad ingrossare le fila dei neutralisti vennero mandati anche molti contadini coloni di Zita di Borbone², moglie di Carlo d'Asburgo – futuro ultimo imperatore d'Austria – che nelle campagne a ridosso di Viareggio aveva una grossa tenuta. Ma la notizia è inesatta, giacché la Tenuta situata nel cuore della pineta di levante non era un possedimento di Zita, ma di Bianca, Infanta di Spagna e moglie dell'arciduca d'Austria Leopoldo Salvatore d'Asburgo-Lorena. Inoltre al tempo la Tenuta arciducale, esclusa la chiesetta, era occupata dalla Marina Militare di La Spezia. Ciò non toglie che essendo ancora proprietà dei Borbone e degli Asburgo, due famiglie storicamente avverse ai destini d'Italia, i contadini a loro sottoposti furono in qualche modo “sollecitati” a dar manforte alla corrente neutralista. Fatto non riportato però dai giornali dell'epoca, se non velatamente accennato in un piccolo trafiletto de La Gazzetta della Riviera in cui si definisce i socialisti locali come “ i tedeschi di Viareggio³. Neppure Sbrana né fa menzione. Forse, vista la sua militanza nel partito comunista, poteva risultare imbarazzante ricordare come i predecessori del suo partito avessero stretto legame con i coloni dei “signori”, soltanto per impedire ad un sincero socialista di parlare. Non lo sapremo mai. Ad ogni modo potrebbe essere davvero verosimile, tant’è che lo stesso Sbrana nella prima pagina del suo articolo parla del “sacro furore dei repubblicani viareggini” i quali, dopo la barbara uccisione di Battisti, avrebbero voluto spingere la giunta comunale a chiedere il sequestro “..della pineta e Tenuta Borbone, oggi detenuta dall'arciduca Leopoldo Salvatore, sedicente Duca di Toscana che combatte contro i nostri eroi del Trentino, a solo spirito di malvagia brama d'austriaca barbarie. Segno comunque inequivocabile di una presenza ostile all'Italia sul territorio.
Ad ogni modo, coloni o meno, quella domenica di gennaio la tensione era palpabile nell'aria. La presenza di un nutrito gruppo di neutralisti e la scarsissima vigilanza da parte delle autorità competenti, furono lo scenario ideale per far esplodere la situazione. Il racconto di Sbrana si concentra sui personaggi chiave, le figure cardine delle due correnti: Viani e Salvatori. Il primo, come abbiamo già accennato, era un artista il cui genio spaziava dalla pittura alla scultura e dai romanzi alle poesie. Le sue opere pittoriche, dal gusto e dal tratto espressionista, iniziavano a farsi strada nel fecondo humus culturale dell'Italia del tempo. Nativo di Viareggio e d'indole focosa e ribelle, sposò ben presto l'anarchismo che nel 1914, sull'onda delle parole infuocate dei sindacalisti De Ambris e Corridoni, lo spinse ad abbracciare la causa interventista.


Tristo (Il mietitore) - Lorenzo Viani


Il secondo era sicuramente il più autorevole esponente socialista della Versilia. Nativo di Querceta, frazione del comune di Seravezza e di professione avvocato, era una figura sicuramente carismatica, stimato per il suo impegno politico e civile anche da molti avversari. Esponente dell'ala massimalista del partito, fu fino all'ultimo tra i più intransigenti assertori della “neutralità senza se e senza ma. Viani e Salvatori erano amici, si conoscevano da tempo e facevano ambedue parte di quella “Repubblica d'Apua” che fu un cenacolo di artisti e intellettuali animatori della scena culturale versiliese, capitanati dal poeta ligure, ma apuano d'adozione, Ceccaro Roccatagliata Ceccardi 6. Ma quel 31 gennaio si videro frontalmente contrapposti. Il titolo della conferenza di Battisti avrebbe dovuto esser “L'Italia e l'attuale momento storico. A quanto riportato da Sbrana, una volta introdotto l'oratore sul palco da parte di un concittadino, il socialista trentino ebbe appena il tempo di proferire poche parole che dalle platea un marinaio, inserito tra le file socialiste “ruttò con posa e voce tragica” così: “perché non vi siete ribellati all’Austria trent'anni fa, quando hanno ucciso Oberdan?. Si alzarono le voci tra le poltrone del politeama e iniziarono a scaldarsi gli animi. Luigi Salvatori, sempre secondo quanto riferisce Sbrana, cercò di calmare le acque ed invitò i compagni socialisti a lasciar parlare Battisti, di modo che si potesse poi fare un contraddittorio al termine della conferenza. Secondo invece sia la Bittanti, che i due giornali - Libeccio e La Gazzetta della Riviera – a tentare la pacificazione delle acque non fu Salvatori - di cui nemmeno si parla - bensì lo stesso Battisti. Infatti su espressa volontà del relatore la conferenza, che doveva essere privata, venne aperta al pubblico allo scopo di suscitare un dibattito; poi al crescere della tensione Battisti stesso cercò di sedare gli animi in platea tanto che “aveva dichiarato due volte e ad alta voce di accettare qualunque contraddittorio 9. Sbrana – fatto non confermato dalle altre fonti consultate – scrive che allora intervenne direttamente Lorenzo Viani, ribattendo a muso duro verso Salvatori e la sua schiera che non ci sarebbe stato nessun contraddittorio e che Battisti avrebbe parlato senza essere interrotto da nessuno. Sia come sia, la situazione iniziò a degenerare velocemente e in men che non si dica fu tutto un parapiglia, con cazzotti e sedie che volavano in platea tra le diverse fazioni. Battisti, attonito, si vide costretto a lasciare il palco, terminando così la sua conferenza mentre nel teatro divampava la rissa che si protrasse per una buona mezz'ora e al termine della quale si contarono diversi feriti, tra cui lo stesso Viani. La moglie dell'Eroe trentino sostiene la tesi secondo cui venne fatto ben poco per sedare l'incresciosa situazione e che le autorità governative, forse ligie alla corrente neutralista, lasciarono sfogare ed esplodere l'ala socialista più oltranzista. I socialisti dal canto loro risposero sulle pagine del Versilia¹º, settimanale diretto proprio da Salvatori, di aver fatto tutto il possibile per lasciar parlare l'oratore e di non aver ordito niente a discapito gli interventisti. Fatto sta che su La Gazzetta della Riviera venne riportata un'esternazione di Battisti, che pare abbia proferito tali parole all'uscita dal Teatro: “Se un tedesco andasse a Parigi ad esporre il suo punto di vista non sarebbe accolto cos씹¹. Si concludeva così amaramente il primo soggiorno di Cesare Battisti a Viareggio. Ma di lì a poco nuove proposte da parte di viareggini indignati per il comportamento di “pochi sconsigliati” arrivarono sul tavolo di Battisti. Il 16 febbraio, secondo la Bittanti¹², dopo una riunione privata da parte di quattordici cittadini appartenenti a vari partirti, venne rinnovato l'invito a parlare in città, onde fare ammenda della volta precedente. Fu stabilita la data del 27 febbraio.


Teatro Pacini, dove avrebbe dovuto svolgersi la seconda conferenza di Battisti


Soltanto due giorni prima di quella data accaddero i fatti di Reggio Emilia ed il consiglio dei ministri, come dicevamo, si pose sulle difensive. A Viareggio il clima fu nuovamente teso. Nello stesso giorno degli scontri di Reggio, la città fu teatro di una grossa manifestazione socialista al grido di “pane e lavoro”! Dopo il concentramento ed il comizio nella piazza del mercato, un folto corteo si diresse compatto al comune deciso ad ottenere udienza. Dopo numerose sassaiole contro il municipio e scontri con le forze dell'ordine il Sindaco, esasperato, decise di ricevere una commissione guidata da Salvatori per discutere sul prezzo del pane e cercare una soluzione contro la crescente disoccupazione in città. I socialisti riuscirono a strappare un accordo per calmierare il prezzo del pane e la promessa di nuovi lavori pubblici tesi ad assorbire la manodopera disoccupata¹³. Ottenuto questo successo tornarono a farsi sentire, seppur non ufficialmente, anche il 27 febbraio, facendo girare tra il popolo un volantino dai toni forti contro il nuovo comizio di Battisti. Nel libro della Bittanti venne riportato per intero così come era stato trascritto, con viva deplorazione, su Il Popolo d'Italia del 3 marzo del 1915. Lo riproduciamo anche noi, con l'intento di dimostrare come siano passati gli anni, ma una certa linea di pensiero, mutate forme e contenuti, nella sostanza non sia cambiata.

Cittadini, Lavoratori, Cesare Battisti in un comizio a Reggio Emilia ha provocato un eccidio. Un morto e parecchi feriti sono stati il frutto della sua conferenza. Stasera ad ore 9 parlerà al nostro Teatro Pacini e chiederà nuovo sangue proletario a mezze de' suoi sicari, i quali sono coloro che vogliono la guerra. Il popolo italiano è già troppo affamato, colui che lavora e lotta per la rivendicazione sociale non deve permettere che i capi di famiglia vengano tolti alle proprie case e mandati al grande macello della guerra europea. Tutto questo vuole Cesare Battisti e i pochi che lo seguono anche stasera tenteranno di scagliqarci contro le baionette. Vi invitiamo dunque per questa sera sabato, ad ore 8,30, in Piazza Grande, per dimostrargli che Viareggio non ha bisogno di novelli assassini. Vogliamo solo pane e lavoro.

I padri di famiglia”¹

La firma è di un generico padri di famiglia, ma non è difficile vedervi gli stessi elementi che provocarono l'annullamento della precedente conferenza. Ed anche in questo caso ottennero un piccolo successo, allarmando ulteriormente le autorità competenti che, come dicevamo, proibirono lo svolgimento del comizio presso il Teatro Pacini. Battisti giunse comunque in città e secondo quanto riportato dalla cronaca de Il Libeccio¹ venne condotto all'hotel Royal, dove gli fu offerta una cena dal comitato organizzatore. Qui venne pubblicamente elogiato dall'Ing. Guarneri, che parlò a nome del comitato e a cui Battisti rispose lusingato, ribadendo la speranza di vedere finalmente l'Italia prendere una decisione risoluta e certa di fronte alla “prepotenza teutonica minacciante la pace mondiale”. Al termine della cena il deputato socialista fu accompagnato dai membri del comitato a visitare il Regio Casino, situato nello stesso edificio del Municipio, di cui la maggior parte dei presenti erano membri. 


Il vecchio Municipio di Viareggio


Ivi, su richiesta dei convitati e in forma strettamente privata, Battisti venne esortato a proferire alcune parole sui territori irredenti. Di buon grado accettò la richiesta, pronunciando un discorso breve e misurato, ma vibrante e deciso, sulle condizioni delle terre italiane sotto il dominio austriaco e sul dovere dell'Italia nel momento attuale. Tanto la Bittanti quanto Il libeccio sono concordi nel riportare il successo di quella piccola conferenza, intervallata da sinceri applausi e da grida di “Viva Trento e Trieste”! Poi, vista l'ora che incalzava e il diretto per Napoli che lo attendeva (dove l'indomani avrebbe tenuto un'altra conferenza) venne accompagnato “da gran folla entusiasta” e “salutato e acclamato dagli astanti” fino alla stazione. Dei neutralisti stavolta, a parte il volantino, neanche l'ombra. Probabilmente gli sforzi e la soddisfazione per i risultati ottenuti con la protesta del 25 febbraio, uniti al fatto che questa sarebbe stata una conferenza strettamente privata, avevano un po' placato gli animi. Ma siamo convinti che fu soprattutto l'onta di quel tumultuoso 31 gennaio ad incidere di più sulla loro assenza. Salvatori sapeva bene in cuor che quella mancata conferenza di Battisti pesava come un macigno sulla reputazione non solo del partito, ma di lui stesso che era riconosciuto come uomo di grande liberalità sempre pronto a dare ascolto e parola anche a chi la pensava diversamente (si ricordi il numero del Versilia lasciato interamente redigere a Viani per spiegare le motivazioni del suo interventismo 16). Macchia che andrà via via allargandosi, rendendo sempre meno efficace la sua linea di condotta soprattutto a livello nazionale, tanto che quando la direzione del partito socialista si riunirà il 16 maggio a Bologna, sarà soltanto lui a votare per “l'immediato sciopero generale politico rivoluzionario”.


Luigi Salvatori, esponente di spicco del socialismo massimalista in Versilia


Il dado oramai era tratto. Battisti, fedele e coerente al suo dire, si arruolò volontario pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra negli Alpini, combatté con valore e morì da Eroe. Le terribili immagine della sua barbara esecuzione fecero il giro del mondo, suscitando lo sdegno e la riprovazione di tutti. In molti ritengono che proprio a partire da quelle ripugnanti fotografie del boia austriaco Lang, compiaciuto e sorridente dietro al cadavere di Battisti, andò sempre più cementandosi nel cuore degli italiani la convinzione della necessità alla lotta implacabile contro l'acerrimo nemico d'oltralpe. In tutte le città d'Italia s'intitolarono strade, piazze, palazzi, sorsero targhe, monumenti, cippi, volti a ricordare il martirio di Cesare Battisti. Non fece eccezione Viareggio dove, su iniziativa del sindaco, di quattro assessori e del segretario comunale, venne fatto pubblicare un manifesto in cui si annunciavano le pubbliche commemorazioni dell'Eroe per il 20 settembre. Si scriveva che “Viareggio, al di sopra di ogni competizione della vigilia, comprese ed amò il figlio di Trento, invocante armi fraterne per la liberazione della sua Terra”. Vi si celebrava Battisti “assurto alla gloria dei precursori, tra i Martiri e gli Eroi del Risorgimento nazionale” e morto “per la redenzione di tutti gli oppressi”. Continuando poi: “In cuor gli splendeva l'invitta fede – animatrice di ogni sua Virtù – in un'era di libertà e di giustizia, verso la quale doveva segnar gran passo, per il suo Trentino, la restaurazione del diritto nazionale e, per il mondo intero, la liberazione da ogni giogo di prepotenti e incivili governi¹. Alla manifestazione parteciparono varie associazioni cittadine, esclusi socialisti (neppure invitati), la Croce Verde (per il suo carattere eminentemente filantropico (sic! n.d.a) e apartitico), il Partito Repubblicano (in segno di protesta per la mancata intitolazione del viale che porta alla Tenuta degli odiati Asburgo-Borbone al Martire triestino Guglielmo Oberdan) e il Circolo Juventus (per non unire la propria bandiera di associazione cattolica ad altre anticlericali e massoni)¹. Al termine del corteo, partito dalla piazza del mercato, i partecipanti si recarono a scoprire una targa dedicata a Battisti e posta sulla terrazza del Municipio, dove il socialista trentino, all'interno delle stanze del Regio Casino, tenne quel suo secondo discorso. Gli venne anche intitolata una strada, la vecchia via degli Uffizi, una delle arterie principali del centro cittadino che, partendo dal canale Burlamacca, taglia da sud a nord Viareggio passando attraverso la piazza del mercato per concludersi di fronte alla pineta di ponente. Il vecchio Municipio, il Regio Casino e con loro quella targa, gravemente danneggiati dai numerosi bombardamenti alleati che si susseguirono incessanti dal 12 maggio del 1944, sono oggi scomparsi. Il Municipio in verità, era ancora recuperabile, ma venne purtroppo demolito nell'ansia di rinnovamento che pervase il primo dopoguerra, lasciando il posto ad un orribile palazzone senza arte né parte. Alcune colonne costituenti la facciata del vecchio edificio sono oggi esposte nel parco della piazza 16 settembre all'interno del Monumento alla Resistenza, posto al centro del Largo Risorgimento, mal custodite e inserite in un contesto urbano improprio. Altre giacciono dimenticate all'aperto nei locali del magazzino comunale. Via Battisti, un tempo viva e fiorente di attività commerciali, è oggi un fantasma di sé stessa, con vetrine chiuse, cartelli di affittasi o vendesi e pervasa da un opprimente senso di desolazione. Da via Battisti si arriva in piazza Cavour – o piazza del mercato – dai viareggini chiamata affettuosamente “il piazzone”, perché un tempo ricoperta da un bel prato dove i ragazzi erano soliti giocare. Di lì un tempo partivano cortei, si radunavano folle e si arringava la piazza. Col tempo vennero costruiti sulla piazza dei caratteristici padiglioni con loggiati sotto i quali sorsero innumerevoli negozi, rinomati per la loro qualità. Oggi qui pullulano venditori cinesi e teppaglia nordafricana, dedita a ben altri commerci. 

Il "piazzone" ieri..

Piazza Cavour oggi..


Della targa dedicata a Cesare Battisti crediamo nessuno si sia mai interessato una volta crollata sotto le bombe. Eppure sarebbe forse l'ora che qualcuno lo facesse, proprio in occasione di questo centenario della Grande Guerra. I problemi di Viareggio sono ben altri, certo, ma non dobbiamo mai sottovalutare la forza del ricordo e della memoria, mai. Dopo la lodevole iniziativa di restauro del monumento ai caduti di Viani e Rambelli – probabilmente uno dei più belli ed originali di tutta Italia – perché non pensare anche ad una nuova lapide in memoria del grande Eroe trentino? Magari da apporre proprio al Teatro Politeama o nella stessa via Battisti? C'è un estremo bisogno di vivificare il grigiore contemporaneo con la luce di un fulgido passato, in cui Viareggio era una fucina incandescente colma di artisti ed intellettuali che alle parole e ai disegni univano l’azione; una città giovane e animata da un popolo vivo, operoso che – nel bene o nel male – sapeva esser battagliero. Per questa città, ma così per l'Italia intera, è necessaria una salutare scossa, una scarica capace di farci tornare a credere che niente è ineluttabile e che non bisogna arrenderci all’inerzia e allo squallore. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un primo passo in tal senso ponendo il 12 luglio, insieme ai fraterni amici di Magnitudo Versilia, una corona d'alloro in via Battisti alla memoria del Martire, distribuendo poi tra i passanti dei volantini sul cui fronte si dava un resoconto sintetico delle sue tormentate visite a Viareggio, mentre sul retro era riportata una breve biografia a testimonianza della sua esemplare storia. 

La nostra corona d'alloro deposta in via Cesare Battisti

 
Sempre nella storia dei popoli e delle nazioni sopraggiungono periodi cupi. Non da meno degli odierni lo furono anche quelli vissuti da Battisti, col suo Trentino strozzato dal cappio austriaco. Anche allora fu la memoria la prima arma utilizzata dal giovane socialista per ridare vigore e forza al suo popolo. Dopo l’ennesima legge sopraffattrice degli italiani proposta dalla Dieta di Innsbruck, egli riuscì ad indire un grande comizio di protesta unendo i socialisti e i liberali trentini in una comune lotta. In quel 22 giugno del lontano 1900, nella piazza del Duomo di Trento di fronte a 6.000 persone, Battisti pronunciò un’orazione infuocata. L'attualità delle sue parole è quanto mai inequivocabile e alla luce del suo supremo sacrificio acquistano oggi un più alto significato. Riportiamo allora un estratto di quel discorso a conclusione nel nostro lavoro, con l’augurio che quei concetti, quei sentimenti ivi espressi, tornino ad ispirare ed unire il nostro smarrito popolo.

A scuotere i vivi dell’oggi, occorre lanciare su quest’aria morta l’epico e fatidico verso della rivoluzione: Si scopran le tombe, si levino i morti! Risorgano e passino dinnanzi a noi le figure belle dei Martiri, dei Combattenti, dei Cavalieri dell’ideale. Passate, passate o baldi eroi, che in schiera invitta aveste morte nelle battaglie, mentre l’ultimo vostro sorriso, l’ultima parola erano per la patria!” 19

Gruppo di Studio AVSER

1 – La Versilia dalla neutralità all'intervento – Stefano Bucciarelli, in La Grande Guerra. Il contributo di Versilia, Massa e Lunigiana, a cura di A. De Gregorio, Pontedera 2015, pp. 125-126.
2 – Con Cesare Battisti attraverso l'Italia – Ernesta Battisti Bittanti, cap. I discorso del gennaio 1915, edizioni Fratelli Treves Milano 1938, pp. 333.
3 – La Gazzetta della Riviera, anno II n.6 del 7 febbraio 1915, art. La conferenza dell'On. Battisti.
4 – Battisti riattizza il fuoco. Un episodio di cinquant'anni fa – Leone Sbrana, in Viareggio Ieri n.9 anno 1965, pp. 3.
5 – Un leader del Movimento operaio: Luigi Salvatori fra le due guerre e al confino (1914 – 1946) – Enrico Lorenzetti, in Studi Versiliesi n.XVIII (2012-2013), pp. 18.
6 – Idem.
7 - La Gazzetta della Riviera, anno II n.6 del 7 febbraio 1915, art. La conferenza dell'On. Battisti.
8 - La Gazzetta della Riviera, anno II n.6 del 7 febbraio 1915, art. Conferenza al Politeama.
9 – Il Libeccio, anno XII del 6 febbraio 1915, art. Magre giustificazioni.
10 - La Versilia dalla neutralità all'intervento – Stefano Bucciarelli, cap. Ragioni della democrazia e nota n.55.
11 - La Gazzetta della Riviera, anno II n.6 del 7 febbraio 1915, art. Conferenza al Politeama.
12 - Con Cesare Battisti attraverso l'Italia – Ernesta Battisti Bittanti, cap. Nel febbraio 1915, pp. 370.
13 - La Versilia dalla neutralità all'intervento – Stefano Bucciarelli, cap. Concreti problemi.
14 - Con Cesare Battisti attraverso l'Italia – Ernesta Battisti Bittanti, cap. Nel febbraio 1915, pp. 371.
15 – Il libeccio, 13 marzo 1915, art. Conferenza Battisti.
16 - La Versilia dalla neutralità all'intervento – Stefano Bucciarelli, cap. Interventisti estremisti e nota 33.
17 - Con Cesare Battisti attraverso l'Italia – Ernesta Battisti Bittanti, cap. Nel febbraio 1915, nota n. 1 pp. 371-372.
18 - Battisti riattizza il fuoco. Un episodio di cinquant'anni fa – Leone Sbrana, in Viareggio Ieri n.9 anno 1965, pp. 5.
19 - Con Cesare Battisti attraverso l'Italia – Ernesta Battisti Bittanti, cap. Linea e figura dell'Irredentismo trentino, pp. 32.

domenica 2 luglio 2017

Chi ha paura del Risorgimento? - Maria Cipriano

In quanti, tra istituzioni pubbliche, giornali, periodici e telegiornali nazionali hanno ricordato la battaglia di San Martino e Solferino combattutasi il 24 giugno del 1859? Anche sulla rete, solitamente più aperta e attenta alle ricorrenze, la battaglia decisiva della IIª Guerra d'Indipendenza è stata scarsamente ricordata, subissata anche dal ricordo della più eclatante “Battaglia del Solstizio” che vide ribaltare le sorti della Grande Guerra. Sul nostro territorio – la Versilia – il Comune di Pietrasanta si è invece distinto per una meritevole iniziativa al riguardo. Domenica 25 giugno, insieme all'Associazione Reduci delle Patrie Battaglie e Fratellanza Militare, si è svolta nella cittadina una sfilata con deposizioni di corone d'alloro presso vari monumenti, conclusasi con lo schieramento intorno al Sacrario “Reduci Patrie Battaglie” presso il Cimitero Urbano. Lì è avvenuta l'ultima deposizione, seguita dalla benedizione del Sacrario e dal coreografico volo di tre deltaplani a motore sopra il cimitero con rilascio di scie tricolori. Tutto meritevole e degno di nota: una ventata patriottica tra l'asfittica maggioranza delle manifestazioni patrocinate dalle nostre istituzioni pubbliche. Eppure anche qui un neo dobbiamo segnalarlo. La deposizione della corona al Sacrario è stata preceduta da un alzabandiera. Insieme a quella italiana e francese - giacché le truppe transalpine ci furono alleate in quella guerra - è stata alzata anche la bandiera dell'Unione Europea. Non è per fare sterile polemica, ma quella bandiera è un po' come un cazzotto in un occhio, una nota stonata, un'offesa ai numerosi volontari pietrasantini inquadrati nell'Armata Sarda, che per l'occasione si volevano ricordare. Se nei pensieri dei nostri Patrioti dell'800 risuonò il nome di Europa, non è certo a questa costruzione tecno-finanziaria, strangolatrice dei popoli e delle identità, che essi pensavano. Ben ce lo spiega con questo suo nuovo articolo la nostra collaboratrice Maria Cipriano, che per l'occasione traccia un profilo dettagliato dell'attuale situazione servile in cui langue l'Italia all'interno di questa Europa, satellite americano. Sottolineando, altresì, a quale Nazione e a quale Europa guardavano le anime più fervide e lungimiranti del Risorgimento, con l'intento di fare inoltre chiarezza su molti dei luoghi comuni che purtroppo oggi predominano su quel momento storico. Una lettura necessaria, quand'anche dura e severa, per ogni sincero patriota che non voglia fermare lo sguardo alla superficie o lasciarsi abbindolare dai luoghi comuni dei tanti storici da strapazzo che vanno di moda oggi. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, ricordarsi da dove veniamo e chi siamo, per poter trovare una via d'uscita dal vicolo cieco in cui siamo finiti.

Gruppo di Studio AUSER  

CHI HA PAURA DEL RISORGIMENTO?


Umberto Coromaldi - Camicie rosse - 1898 -
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea - Roma

In questi tempi sciagurati dove banchettano indisturbati i nemici della Patria, ben si capisce che non si riesca a celebrare degnamente il Risorgimento con una data apposita ad esso dedicata, come sarebbe doveroso e naturale; anzi i soliti idioti che ormai infestano la penisola hanno suggerito di fissare una data celebrativa opposta, il che la dice lunga su come siamo ridotti. E che siamo ridotti alla frutta e forse al liquorino è comprovato dal fatto che il tanto festeggiato Trump -festeggiato da chi sperava fosse il contrario di Obama-, è atterrato a Roma per la visita solerte al Santo Padre, cui si è presentato raggiante, come noi fossimo ancora uno Stato pre-unitario, o comunque a sovranità secondaria, limitata in qualche modo da una sorta di Stato Pontificio redivivo cui tutti i capi stranieri con tanto di consorti velate di nero (tranne la regina di Spagna che può velarsi di bianco) sono anelanti di porgere omaggio. La sindrome di Carlo Magno e della notte di Natale dell'anno 800 in cui dal papa dell'epoca il Re dei Franchi fu incoronato imperatore di un Sacro Romano Impero che di Romano aveva solo il nome, striscia tuttora nel terzo millennio, unita ai più flaccidi cascami di un buonismo con cui viene continuamente sbacchettato e messo a cuccia un paese che non è più in grado neanche di abbaiare alla luna, figuriamoci di reagire in modo concreto. Da qui la visita di Ivanka Trump alla comunità di Sant'Egidio, l'ennesima accolita di anime caritatevoli a senso unico in giro per il mondo (che però, ahimè, rimane quello che è e delle due peggiora), del tipo “aiuto chi mi pare e piace, decido io chi va in paradiso e chi no, chi è cristiano e chi non lo è”. Non contenta, la first daughter, con l'immancabile contorno delle solite smancerie italofile culinarie, ha visitato, dopo il Pantheon, la sottosegretaria Boschi, che con il superbo monumento degli antichi Padri non si capisce proprio cosa ci abbia a che fare. Quel che ci sembra di capire è che da parte degli americani si è registrato un allineamento perfetto al potere nostrano catto-comunista da far invidia all'allineamento dei pianeti. In tal modo, il messaggio al fido valvassore della penisola di non uscire dal seminato e continuare nella macabra autodafè che toccherà il culmine il 15 giugno con la discussione al Senato dello ius soli (ormai già bello che deciso in barba a noi poveri fessi), è stato riconfermato in modo chiaro, nonostante speranze iniziali di rivolgimenti con questo nuovo presidente d'oltreoceano, speranze puntualmente andate in fumo. Mentre qualcuno s'illude che l'America cessi di contare e le frecciate della Merkel sull'europa che deve fare da sé significhino qualcosa di diverso da “l'Europa dev'essere comandata dalla germania”, il quadro che se ne ricava è ben diverso, e cioè che l'europa comandata dalla germania è ancora peggio di quella guidata dall'america che, almeno, è una superpotenza, e le alzate di testa della cancelliera non serviranno certo a depotenziare gli Usa sul piano internazionale. Il fatto è che Trump, da buon magnate, vuole incamerare i vantaggi e non le perdite, e dunque i gravi problemi del vecchio continente non li sbroglierà certo lui, e li lascerà tutti a frau Merkel che sarà capace solo di peggiorarli, com'è avvenuto per la povera Grecia.
Morale della favola: l'europa da sola non combinerà un bel nulla perché non esiste altro che sulla carta, è una creatura artificiale e artificiosa che persiste nei suoi errori, sorda ai reclami dei rispettivi popoli i quali rivogliono i propri paesi com'erano prima dell'invasione e tanto meno vogliono i comuni centri sovranazionali che fanno comodo a Berlino; intanto gongolano i Sauditi, nel cui paese vige il reato di stregoneria, alleati in pole position degli americani, cui fa da ostacolo solo l'Iran e quel che resta della Siria di Assad, apparsi in forma smagliante felici e contenti, stracarichi di armi e di soldi con cui potrebbero mantenere mezza Africa, usciti dalla visita di Trump più ringalluzziti di prima, mentre il nuovo Medio Evo oscurantista avanza nel cuore di un continente rimbecillito che a suo tempo inventò gli aerei, il cinema, gli antibiotici, il telescopio, il telefono, il computer, l'automobile, il treno, ma a cui oggi ben si attaglia il celebre detto italico “chi è causa del suo mal pianga se stesso.” E dal G7 di Taormina s'è subito capito che le cose rimarranno tal quali e anzi andranno di male in peggio: gli immigrati (pardon migranti) continueranno a sbarcare a frotte, pasciuti e coi telefonini in mano, curati, assistiti e incarcerati a spese nostre, nonché beneficati della cittadinanza per la gioia e gloria dei caduti del Piave e di Vittorio Veneto, di cui peraltro un esercito di cornacchie pacifiste aveva già decretato l'inutilità e cancellato la festa nazionale che li celebrava; i sospetti di estremismo islamico e addirittura gli espulsi continueranno a girellare indisturbati, i terroristi a colpire, le aziende a chiudere, i poveri a moltiplicarsi, la sovranità nazionale a decrescere, la televisione ad ammansire le folle, la sicurezza dei cittadini a fare acqua da tutte le parti, i prodotti del made in Italy, soprattutto in campo agroalimentare, ad essere seriamente danneggiati da trattati come il CETA, che avvantaggiano smaccatamente le multinazionali d'oltreoceano, dove peraltro i controlli sanitari sono piuttosto larghi e si usano pesticidi proibiti qui in Italia.
A chi mi chiedesse come mai siamo finiti in questo modo -3000 anni di Storia d'Italia franati sull'orlo di un buco nero-, risponderei che quando si allentano e addirittura si tagliano o, peggio, rinnegano i legami col passato, quando non c'è più la trasmissione dei ricordi dai vecchi ai giovani, quando i vecchi non sanno più raccontare, tramandare e comunicare i grandi ideali a far da stimolo e sprone, incoraggiamento e sostegno alle nuove generazioni, quando non c'è più nulla di cui andare orgogliosi e fieri perché hanno fatto terra bruciata, quando difendere l'Italia diventa quasi una colpa (e diventerà un reato se andiamo avanti così), quando la Patria viene ridicolizzata e considerata un anacronismo perché bisogna guardare oltre (dove, all'europa della Merkel?), quello è il momento in cui il buco nero si avvicina per inghiottire con la sua forza attrattiva anche la luce. Allora non ricorderemo più, la nostra Storia sarà stata uccisa, rimodellata secondo i nuovi parametri stabiliti dai nuovi dispotici padroni di un'europa gradita solo a loro e alle pecore che li seguono. Ai nostri figli, nipoti e pronipoti è questo che li aspetta: il buco nero, il punto di non ritorno. Già si vedono chiaramente gli effetti di questo risucchio nel nulla: mentre prima c'era chi faceva argine e decisa opposizione alla denigrazione e banalizzazione della nostra Storia, alla messa in ridicolo perfino della Grande Guerra, in una parola ai tentativi di infangare e cancellare l'Italia, nonché di recarle danni economici, ora queste bertucce trovano sempre più spazio, sproloquiano indisturbate, hanno invaso ambiti politici che si credevano immuni, creando uno zibaldone confuso, un polverone di sciocchezze in cui sguazza una becera plebaglia invasata dal “cupio dissolvi” della nazione.
L'appena scorsa riunione in pompa magna del G7, nella splendida vetrina del golfo di Taormina, del Teatro Greco, degli storici hotel San Domenico e Timeo, e della famosa piazza Duomo di Catania, gestita dalla placida mansuetudine del presidente del Consiglio Gentiloni, non è stata, appunto, che una bella vetrina, del tutto avulsa dal popolo italiano che il governo dovrebbe rappresentare. Dietro di essa, si agitano le ombre di una nazione che non comunica più coi suoi governanti che cordialmente detesta, e vive rassegnata, fredda e distante, nelle sue ambasce e nei suoi problemi irrisolti. E' un popolo che ormai non ha quasi più reazioni, come fosse stato addormentato, perché sennò non gli si sarebbe potuta sbattere in faccia impunemente la marcia pro-migranti come uno schiaffo sulla ferita, né il presidente della regione Lombardia Maroni potrebbe indire, coi suoi comparucci veneti, un referendum sull'autonomia, intorno a cui la furbetta truppaglia leghista rompe le scatole da decenni. In questo caravanserraglio ognuno ormai può dire e fare ciò che vuole contro l'Italia, tanto l'apatia degli italiani col suo inconcludente silenzio pregno di rancore, non sfiora nemmeno i nostri governanti i quali, come già Maria Antonietta e Luigi XVI di Francia dentro le belle mura di Versailles, bellamente se ne infischiano del malcontento generale e stanno procedendo a lunghi passi alla firma di altri dannosi trattati, alla cessione di altra sovranità, alla legalizzazione di milioni di stranieri, incuranti del fatto che gli autori dei sanguinosi attentati spesso e volentieri avevano la cittadinanza del paese d'accoglienza.
In tutto questo, il Risorgimento doveva servire a tenere in mano la bussola, doveva svolgere il suo prezioso e insostituibile contributo storico al mantenimento dell'identità nazionale, doveva essere una bandiera perenne. Non è stato così, anzi gli hanno sputato addosso, inventando accuse inesistenti, il che non è avvenuto certo per caso. E se l'antirisorgimento apportatore di disgrazie rifulge anche dall'anacronistica smania di baciare la pantofola vaticana, che dovrebbe quantomeno seguire l'omaggio alle nostre istituzioni per quanto disastrate esse siano, ma che invece le precede o sostituisce addirittura, le scosse che si pensava Trump avrebbe assestato al nuovo ordine mondiale vanno relegate nel mondo dell'elettrotecnica, perché l'unica scossa che ha dato -perlomeno a noi- è stata quella d'ingiungere al nostro Governo di raddoppiare i contributi finanziari alla Nato, in quanto gli americani non vogliono pagare per la sicurezza degli altri. Il che sarebbe anche giusto se noi, a dir la verità, con 120 basi americane sul territorio (non ne bastavano una dozzina?) -e altre venti super segrete di cui non si conosce neanche l'ubicazione-, ci accolliamo un'enormità di spese all'anno che gravano sul già spremuto limone del contribuente italiano. Ma dovremo pagare e zitti: altro che l'europa farà da sé!...
Ma torniamo al Risorgimento, i cui protagonisti, se vedessero come siamo messi, farebbero finta di non conoscerci. Infatti, anche per chi pone l'accento sul presunto europeismo di Mazzini e Garibaldi, c'è da precisare, a scanso di equivoci, che quest'europa scombinata e combinaguai non ha assolutamente nulla a che vedere con quella vaticinata dai due grandi del nostro Risorgimento, che auspicavano un'Italia grande e forte, protagonista e artefice della politica internazionale, entro un'Europa collaborativa, custode delle identità nazionali, quelle sì una ricchezza e una risorsa da salvare, fatta di cultura, tradizioni, usanze, costumi, lingue, popoli. Mai, dico mai, Garibaldi e Mazzini avrebbero voluto un'europa come questa: anzi, non l'avrebbero immaginata neanche nei loro incubi. Chiaro dunque che l'attuale contesto ove, sotto il paravento dell'europa, si stanno annullando popoli e nazioni, abbia generato la paura del Risorgimento, gloria e vanto dell'Italia: una paura che si nutre di un'ignoranza enormemente lievitata negli ultimi tempi, in cui è da vedere addirittura un soprassalto d'invidia e disgusto per ciò che i nostri avi riuscirono a fare in confronto a noi che non riusciamo a combinare praticamente nulla, cresciuti come siamo nel senso di colpa antifascista pubblicizzato da De Gasperi che andò a chiedere scusa a destra e a manca per aver osato l'Italia dichiarar guerra a qualcuno e affondare un po' di navi e aerei altrui.
Così, le insultanti fanfaronaggini che assalgono puntualmente i protagonisti del Risorgimento, screditando chi lo studia da anni su migliaia di pagine di documenti e libri seri, provengono da persone di tutte le risme, tutti i credi e tutti i ceti che si stenta a credere possano esistere nel 3° millennio, eppure esistono, e mai come ora servono a chi sta portando avanti la cancellazione dell'identità nazionale per annegarla nell'europa. Serve questa massa teledipendente, sostanzialmente incolta anche se in possesso di ottimi titoli di studio, amante degli scoop giornalistici o semplicemente dell'aria che tira, permeata di disprezzo verso la Patria, di vanteria esterofila, mondialista, europeista, cristianista, di vaneggiamenti internazionalisti, secessionisti, nostalgici e rabbie personali, e che magari ha letto due o tre libretti di tono scandalistico su Garibaldi e l'impresa dei Mille, ha intravisto la fotografia dell'eroe dei due mondi in veste massonica additata da tutti come uno scandalo, e dunque pretende d'aver capito tutto e possedere le prove inconfutabili che il Risorgimento fu generato da una perfida Massoneria internazionale che in realtà non esisteva affatto. Insomma una babilonia di cialtroni che pretende pontificare di Storia, e, se continua così, domani pontificherà anche di Scienza, magari negando che viviamo in un universo di galassie, e accusando gli astronomi di essere una congrega di visionari nemici della religione e della tradizione.
Mi è capitato perfino di leggere la tesi di qualcuno che fa risalire nientemeno al 1789 (l'inizio della rivoluzione francese, per chi non lo sapesse) il principio di tutti i nostri guai. Per fortuna non si tratta di un medico sennò, a fronte di una simile diagnosi, ci sarebbe da segnalarlo all'ordine. Poiché un ordine degli storici purtroppo non esiste, bisogna subire gli strafalcioni di questi personaggi nostalgici del Medio Evo e del rococò, della Santa Alleanza e della manomorta, i quali sognano restaurazioni di mondi incantati che il Risorgimento e, prima ancora, l'Illuminismo, la rivoluzione francese e Napoleone (tre fenomeni collegati tra loro ma molto diversi l'uno dall'altro e in molti casi opposti) avrebbero brutalmente travolto, in tal travolgimento individuando i germi causali delle nostre attuali disgrazie sociali e politiche, che rappresentano casomai la negazione dell'Illuminismo e il processo all'inverso di ciò che il papa chiamava sprezzantemente “modernismo”, e che sono la negazione esatta del Risorgimento. Non contenti, mentre rimpiangono Franz Josef e il duca di Modena, Ferdinando II e il papa Re, si guardano bene dal raccontare le meravigliose dolcezze dell'ancien regime, dove, tra l'altro, potevi essere arrestato e torturato per un semplice sospetto, e le denunce e segnalazioni anonime erano la regola. Un mondo meraviglioso, dove il giovane Luigi Carlo Farini venne trascinato per i capelli in galera e rovinata tutta la sua famiglia per aver gridato all'università “viva l'Italia!”.
Non vi è dunque da meravigliarsi se l'Italia si volse alla monarchia Sabauda quando questa, unica fra tutte, dismise l'assolutismo, concesse la Costituzione e la mantenne, osò sfidare l'Austria, osò sfidare la Chiesa, buttando all'aria tutto un bagaglio d'insopportabile vecchiume: dalla ghettizzazione degli ebrei al monopolio del clero nell'istruzione dei giovani, dall'invasione di ordini e conventi di tutte le fogge e dimensioni che inflazionavano la penisola, all'endemica assenza dello Stato inteso nel senso moderno del termine, cioè nell'unico senso possibile in cui si possa parlare di Stato. Non è un caso che le forze che vogliono abbattere lo Stato sono le forze anti-risorgimentali; e poco importa che alcuni tirino fuori il Tricolore quando fa comodo per addolcire la pillola, o rispolverino Mazzini e Garibaldi per darsi le credenziali che non hanno o per senso di colpa o chissà quali altre ragioni. Il Risorgimento va dimostrato coi fatti, e chi ha ridotto lo Stato a un pallido simulacro destinato a sparire nella completa soggiacenza all'Europa, è un nemico giurato del Risorgimento.
Contro il quale la cricca dei guastatori e sabotatori d'avanspettacolo ha da sventolare una mezza dozzina di ritornelli che ripete ossessivamente, e contro i quali l'illuministica ragione non ha possibilità di competere, trattandosi di tesi emotivo-irrazionali che non trovano riscontro né nei documenti nè nei fatti, e tantomeno nella logica, ma interessano la psicologia. Una di queste, la più sterile e ricorrente, è la teoria del “complotto massonico” da cui sarebbe stata originata l'Unità d'Italia: uno spauracchio agitato da menti infantili che credono di orientarsi nella scura foresta della Storia servendosi della guida maldestra di qualche libretto che semina il panico contro il lupo cattivo rappresentato dalle società segrete in generale di cui straripava il secolo XIX° e dalla Massoneria in particolare, risalente al secolo precedente. Il fatto che qualche centinaio di massoni o ex massoni sparsi per l'Italia e scollegati tra loro prese parte al Risorgimento, significa per loro che fu una perfida Massoneria nascosta a originare il Risorgimento e non che codeste persone, in via individuale, parteciparono al Risorgimento per i fatti propri, indipendentemente dall'essere massoni e anzi spesso uscendo dalla Massoneria la cui natura e struttura risultava incompatibile con il Risorgimento. Uno dei principi cardine di questa era infatti che le questioni politiche dovevano esser tenute rigorosamente fuori dalla vita di loggia che è vita eminentemente speculativa, e dunque rientravano nella sfera della libertà individuale di ciascuno. Ci furono massoni che parteciparono al Risorgimento, e massoni che non vi parteciparono e lo guardarono anzi con sospetto o sussiego. Nè ciò desta meraviglia, in quanto la Massoneria cosiddetta “moderna” nacque e prosperò durante l'ancien regime, di cui rispecchia molti aspetti (anzitutto l'esasperante formalismo e la deferenza verso l'autorità costituita), tant'è che vi si affiliarono sovrani (lo stesso Luigi XVI di Francia), principi, uomini di Stato e funzionari della Polizia e della Magistratura, nonché rappresentanti della più alta cultura del tempo. Insomma, l'affiliazione massonica fu una vera e propria moda settecentesca coltivata nelle alte sfere della società, un segno di distinzione che attestava il rango altolocato dell'adepto, la sua levatura, la sua posizione nei ruoli del potere e “dell'intellighenzia”. Fu piuttosto la crescente diffidenza della Chiesa a creare problemi ai circoli massonici, ma non perchè miravano ad azioni sovversive della società, bensì per questioni eminentemente spirituali: nei “templi” massonici, infatti, si portavano avanti discorsi che di fatto competevano e concorrevano con la verità unica rivelata della religione ufficiale che non ammetteva contraddittori, e la Chiesa non tollerava concorrenti nè poteva ammettere associazioni ove s'inscenavano riti diversi da quelli suoi propri. Conseguentemente, non poteva lasciar passare “cammini interiori salvifici” differenti da quelli rigorosamente previsti da lei medesima. In tal modo il “Tempio” massonico diventava inevitabilmente un rivale della Chiesa, un suo nemico giurato, passibile dell'Inquisizione. Anche se non ne avevano l'intenzione, anche se si rifacevano a Dio e giuravano sulla Bibbia, una sorta di presunta laicità e di affrancamento individuale si poteva sospettare nelle riunioni dei framassoni, in verità impregnate di un formalismo esasperante, di discorsi ricercati, involuti e non di rado oziosi, e soverchiate da temibili gerarchie che di fatto impedivano qualunque esercizio di libertà da parte dei gradi inferiori, in pieno stile settecentesco. In questo senso, basata com'era sull'obbedienza e l'adesione cieca dell'adepto, la Massoneria, anche nelle sue architetture, scenografie e arredi raffinati, nelle sue vestizioni eleganti, nel suo frasario fine e nella gestualità sibillina e non di rado incomprensibile, atta a impressionare i neofiti creando tutto un clima suggestivo di solennità misteriosa e iniziatica, è stata lo specchio del suo tempo, e nessun tipo di rivolgimento politico e sociale -e tantomeno il liberalissimo, scamiciato, rivoluzionario, ardimentoso, giovanilista, combattivo e passionale Risorgimento italiano- potevano nascere da essa. Immaginare perciò la Massoneria settecentesca come una congrega che andava controcorrente per determinare i cambiamenti e rivolgimenti politici del mondo -la stessa Rivoluzione francese!- è del tutto anti-storico e campato per l'aria. Piuttosto è vero il contrario: e cioè che i rivolgimenti storici che in via spontanea si producevano e si producono nell'inquieta e imprevedibile società umana, furono inevitabilmente veicolati in ogni tempo all'interno della Massoneria dai più intelligenti e culturalmente più elevati dei suoi adepti. E dunque, sotto questo profilo, la Massoneria è stata una società permeabile al mondo di fuori, il quale ha inevitabilmente influito su di essa, rendendola quell'aggregazione cangiante e un po' camaleontica, oserei dire ondivaga e opportunistica, adattata e adattabile all'ambiente in cui si trovava e al potere di turno verso cui si è sempre allocata in posizione di contiguità. Per questo è più giusto parlare di Massonerie, al plurale, differentemente sparse nello spazio e nel tempo: perché, al di là di un generico richiamo alla Casa Madre inglese, ognuna fu espressione dell'ambiente in cui nacque, dei suoi fondatori e maestri, delle ambizioni e dei fini specifici che intese darsi in un dato momento storico.
Per quel che riguarda l'Italia, la frammentarietà e labilità particolare delle sue logge massoniche (alcune delle quali si facevano e disfacevano nel giro di poche settimane) rifletteva la divisione e instabilità della penisola: fino al 1861, anno della proclamazione del Regno d'Italia, quando, per ovvie ragioni, si volle costituire una Massoneria nazionale permeata di ideali patriottico-risorgimentali e fedele a Casa Savoia, le logge massoniche erano composte da pochi adepti e caddero in disgrazia con la caduta di Napoleone, il quale, volendo fare dell'Italia uno stato subordinato alla Francia, aveva creato una fitta rete di logge totalmente acquiescienti alla sua politica imperialista, che si segnalarono per le lodi sperticate e le piaggerie rivolte a lui stesso, di cui si ritrova precisa eco nei documenti. Va da sé che questa situazione di precarietà e mutevolezza delle massonerie italiane non avrebbe consentito nessun tipo di pianificazione così ambiziosa e impegnativa come quella dell'unificazione nazionale e della lotta allo straniero (ivi inclusi i francesi), pretesa invece dagli improvvisati della Storia.
Per chiarificare ulteriormente questo tema, finito in mano a gente di passaggio, sono proprio le differenze sostanziali intercorrenti tra la Massoneria e la Carboneria, dalla quale ultima soltanto si sviluppò il nostro Risorgimento, a dimostrare che i massoni costituivano una cerchia aristocratica intellettuale piuttosto distaccata dalla società e dai suoi reali e prosaici problemi, sui quali si compiacevano di stendere una visione astratta e utopistica, basata su costruzioni teoriche e ottimistiche, tipiche della mentalità settecentesca, ancora legata alla tradizione monarchico-assolutista, alla rigida divisione delle classi sociali, all'ossequio della religione ufficiale. Niente di più lontano dalla Carboneria, dove l'umile conviveva con l'altolocato, dove non solo bisognava esser pronti alla morte per la Patria, ma anche a dare la morte ai nemici della Patria, traditori, invasori, tiranni e spie. Non a caso i “pugnali carbonari” sono ben in vista in alcuni musei del Risorgimento, e non erano certo dei soprammobili. Anzi, il pugnale era previsto anche per le donne carbonare, le cosiddette “giardiniere”, che lo nascondevano nel reggicalze. Quando, il 15 maggio 1822, lo studente universitario Mordini accoltellò a morte il capo della Polizia di Modena Giulio Besini, tristemente famoso per i suoi duri interrogatori e grande protetto del dispotico duca di Modena Francesco IV, realizzò un tipico atto carbonaro, distante anni luce dalla pacifica Massoneria che aborriva azioni del genere. Come s'è detto, però, la cedevolezza di quest'ultima agli influssi del contesto storico circostante fece sì che essa entrasse prima o poi in contatto con la Carboneria e dunque nel mirino della polizia, ma l'esistenza stessa della Carboneria sta a dimostrare che per unificare l'Italia e liberarla dallo straniero occorreva ben altro che le innocue e sparute riunioni massoniche intorno all'architetto dell'universo, un ben altro tipo di associazione clandestina enormemente più numerosa, attiva sul territorio, operativa, militante e armata, i cui proseliti venivano scelti e smistati in base alla loro capacità di azione, non alle costruzioni intellettuali. La Carboneria insegnò perciò agli Italiani l'azione e il sacrificio per la Patria, due cose sconosciute alla Massoneria, peraltro orientata all'universalismo, e dove, al contrario, gli adepti, proteggendosi a vicenda, tendevano non già ad affrontare i pericoli ma a garantirsi benefici, favori e conoscenze, a ritrovarsi in simposi, feste, teatri e salotti ove l'affiliazione massonica di Tizio e di Caio era di pubblico dominio: cosa impensabile nella Carboneria, i cui adepti erano vincolati al più rigido segreto e chiunque, anche il più insospettabile, poteva essere un carbonaro, dal notaio al farmacista sotto casa, dal prete al calzolaio all'angolo, il che dette un gran filo da torcere alle polizie degli Stati pre-unitari.
Al contrario della Massoneria che esorbitava in costruzioni teoretiche, la Carboneria fu carente in quest'ambito, intorno a cui hanno ragionato gli studiosi di varie epoche cercando enuclearne una visione chiara e concludendo che non l'aveva. In verità questa visione chiara doveva averla per forza sennò non si sarebbe propagata così estesamente su tutto il territorio italiano: viceversa, proprio il fatto che si sia diffusa ovunque -perfino nella lontana Dalmazia- fa concludere che solo un verbo e un messaggio ideale molto forte, univoco e chiaro, era in grado di valicare i polizieschi confini dei vari Stati italiani così arcignamente custoditi. E infatti questo messaggio c'era, ed era sorprendentemente semplice: l'unità e l'indipendenza della nazione, basata anzitutto sul sangue e sul suolo (concetti sconosciuti alla Massoneria), rispetto a cui tutto il resto (Costituzione, riforme varie, questione sociale, monarchia o repubblica) era collaterale.
Pur tuttavia, la complessità delle vicende storiche e, soprattutto, la difficoltà di agire contro nemici numerosi e potenti in un territorio vasto e diviso come l'Italia, finì per creare un insieme complicato di società segrete emule della Carboneria (gli Adelfi, i Sublimi Maestri Perfetti, i Raggi, etc.) che a volte ingenerarono confusione e dispersione, senza contare l'azione di spie e infiltrati delle varie monarchie, e soprattutto il tentativo dei francesi di appropriarsi della Carboneria italiana creando una “Carboneria affiliata a Parigi”, millantando poi le origini francesi della medesima. Sia che gli agenti francesi in Italia fossero al servizio della famiglia Bonaparte e mirassero a mettere sul trono d'Italia un Bonaparte, sia che fossero dei giacobini anti-bonapartisti (come il filofrancese ed ex partigiano di Robespierre Filippo Buonarroti) invasati di rivoluzione libertaria repubblicana, essi cercarono di piegare e distorcere il progetto carbonaro ad altri fini. Ma fortunatamente ciò non avvenne, perchè la Carboneria fu più forte di tutte le trame che le si affollarono intorno. Forti furono i suoi membri, votati alla morte e al martirio, e il cui sacrificio non fu vano. Essi innalzarono il vessillo più prezioso del Risorgimento -l'unità e l'indipendenza da ogni straniero- trasmettendolo alle nuove generazioni che, pur cresciute nella paura di ciò che vedevano (arresti, patiboli, retate, intimidazioni, violenze) seppero trasformare quella paura in coraggio e raccogliere il testimone da chi li aveva preceduti.
Oggi che ci sarebbe bisogno come non mai di far garrire al vento questa bandiera per riprendere ciò che è nostro, la nostra stessa dignità di nazione, ecco che i truffatori e i traditori sono all'attacco, fomentatori di caos, divisione e bizantinismi intellettuali, e addirittura hanno sputato su quella bandiera, coi fatti e con le parole.
Ad essi vada l'esecrazione degli antenati e la giusta punizione che meritano dalla Storia.

Maria Cipriano