Breve introduzione al testo
Tanti
anni fa le parole eranopiù o meno le stesse all'interno e ai margini
esterni dell'Italia geofrafica. Anche il loro suono era spesso uguale
o simile in tutta l'area italiana.
Tale
uniformità, di cui si ravvisano tracce ancora nei testi medievali, è
venuta meno con la frammentazione territoriale e la dominazione
straniera fino ai tempi del letterato dalmata, il quale deplorò fra
l’altro la precaria unità della lingua letteraria appoggiata al
volgare toscano.
Conseguita
con immane sacrificio l’unità politica si giunse a quella
linguistica gradualmente con “l’ingegnarsi di rendere più
generale l’uso che è già più comune, ch’è meno difficile a
diventar generale”. Allora iniziò la lunga marcia conclusa negli
Anni ’30, quando la lingua nazionale divenne espressione comune di
tutti gli italiani.
Purtroppo
la disfatta del ’45 coinvolse nel disastro anche ‘l’idioma
gentile’ involgarito e imbastardito dall’apporto gergale e
dall’imperversare degli anglemi (in argomento pubblicai la Nugella
“Povera lingua nostra, dove vai?)
F.B.
DELL’UNITA’
DELLA LINGUA
Un
egregio scrittore, onorando d’amorevole commemorazione l’opera
mia, diceva: << Come
ne’ sinonimi, così in tutte le altre questioni riguardanti la
lingua, cotesto sistema (dell’uso più generale e più ragionevole)
invocato già da gran tempo dal buon senso di tutta la nazione,
avvalorato dall’esempio di alcuni scrittori giudiziosi, abusato
dall’intemperanza di molti, questo sistema dovrà, all’ultimo,
prevalere; o l’Italia non avrà mai lingua comune, popolare,
corrente (2).
>> Soggiungeva poi: << V’hanno
in questo dizionario (parlando del mio n.d.r.)
alcune voci o distinzioni di voci che nella maggior parte delle
provincie italiane non sono, né saranno mai forse, popolari: perché
le gradazioni delle idee e le modificazioni del sentimento non
possono essere sempre perfettamente uniformi in una nazione che sotto
nome comune abbraccia popoli differenti d’origine e di carattere,
con abitudini e tradizioni diverse. Ma questo che importa? Uno
scrittore il quale debbe sempre aspirare ad essere inteso da tutta la
nazione, potrà qualche volta con buon giudizio esprimere con due o
tre voci un’idea che in qualche provincia esprimerebbe forse
felicemente con una sola, né alcuno avrà diritto di censurarlo. Ma
quando egli vuole adoperare quest’unica voce, in tal caso chi dirà
ch’egli non debba usarla in quel senso in cui l’usa la provincia
dov’essa è popolare? >>
Troppo
è vero che questa mirabile insieme e deplorabile varietà d’origine,
d’indole, di costumi, di sorti, la qual corre tra popolo e popolo
italiano, gravemente contrasta con la tanto predicata unità della
lingua comune: unità dalla quale meno si scostarono gli scrittori
che più s’attennero al toscano idioma. Ben dice il valent’uomo:
Lingua veramente comune; l’Italia non ha. Per giungere il meglio
che si possa a quest’alto fine, giova ingegnarsi di rendere più
generale l’uso che è già più comune, ch’è meno difficile a
diventar generale, e che, per buona ventura, è tutt’insieme il più
ragionevole. Giacché, quanto al voltare in perifrasi idee che
richieggono e hanno nella lingua parlata di ciascun dialetto un
vocabolo solo, ognun vede come ciò nuocerebbe alla proprietà ed
alla forza, renderebbe intollerabili molti libri, e molti trattati
d’arte o di scienza impossibili.
Con
questa mira appunto diedi luogo nel mio dizionario a vocaboli e a
modi toscani che in qualche altra parte d’Italia son poco noti: e
se più noti per l’opera mia, divenissero, io sarei lieto d’aver
in alcuna parte aiutato a questo bene inestimabile e che tant’altri
rinchiude in sé: l’unità della lingua.
Dalla
sgarbatezza del pronunziare e del leggere e del recitare, alla ben
più deplorabile diversità di scrivere e di pensare e di sentire,
ogni cosa ci mostra la necessità urgente di ridurre queste sì
disgregate membra in bella e potente unità. Ma a cotesto bene non
ci meneranno certo né coloro che dicono: << La
pronunzia dei Fiorentini potrebbe farli credere strettissimi parenti
dei popoli di Valcamonica (1);
>>
né
coloro le cui scaramucce letterarie intorno alla lingua versano sul
campo d’una erudizione sempre facile, sovente importuna.
E
qui (volgendo il discorso a tutt’altri che all’autore sopra
rammentato) mi sia concesso dir cosa nella quale tutti, spero,
vorranno convenire; giacchè mi par tempo ormai di guardare questa e
altre questioni di letteratura e di più gravi argomenti, dal lato
dove più le opinioni s’accostano, che da quello dove si
allontanano più.
Ognuno
vorrà, spero, concedere che all’espressione di ciascuna idea basti
un solo vocabolo: ognuno vorrà concedere che il vocabolo più
analogo alle forme della lingua scritta merita d’essere agli altri
prescelto. Or quand’anco altri dialetti d’Italia avessero, per
giustificare certe idee, voci e modi più belli di quel che siano i
toscani; se questi modi, se queste voci non siano stampati del conio
della lingua comune, se l’uso più autorevole non li renda
facilmente accettabili a tutti gl’Italiani, se dicono non più di
quel che dice la voce toscna corrispondente, non veggo ragione
d’introdurre o di conservare nella lingua cotesta ricchezza oziosa.
Se un dialetto, qualunque sia, ha un buon vocabolo da presentare, che
denoti idea da altri vocaboli non denotata, lo presenti nel nome di
Dio, e ogni savio scrittore l’accetterà; ma voler travasare nella
lingua comune inutili sinonimie de’ dialetti, sarebbe un
moltiplicare le difficoltà del ben scrivere e del ben intendere,
senza che ne venga né ricchezza alla lingua né precisione alle
idee.
Si
dirà che tale trasfusione da nessuno è tentata. E tanto meglio.
Giacchè nessuno lo tenta, nessuno si vanti di volerla o poterla
operare. E si confessi che dal meglio di tutti i dialetti insieme
sbattuti non uscirà mai lingua comune, che sia tollerabile, che sia
intelligibile. Buona quantità di voci son comuni, si, a tutta
Italia: ma quand’anco tutte coteste voci adoprassersi per tutta
Italia nel senso medesimo (che non è), questa tale quantità non è
sufficiente a formare una lingua.