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domenica 12 ottobre 2014

DELL'UNITA' DELLA LINGUA - N.Tommaseo

Dopo aver pubblicato il brillante lavoro dello zaratino De Zorzi, abbiamo ritenuto opportuno dar voce ad un Dalmata autorevole del passato: Niccolò Tommaseo. Questo per dimostrare una volta di più quanto l'amor di patria, da sempre, sia radicato e forte fra la gente del confine orientale. Lo scritto che segue è tratto dal "Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana" pubblicato per la prima volta nel 1830, ma successivamente rivisto e aggiornato nel corso degli anni.

Breve introduzione al testo

Introduco alla lettura riassumendo alcuni concetti espressi a suo tempo in “Cosa c’è sotto i nomi”.
Tanti anni fa le parole eranopiù o meno le stesse all'interno e ai margini esterni dell'Italia geofrafica. Anche il loro suono era spesso uguale o simile in tutta l'area italiana.
Tale uniformità, di cui si ravvisano tracce ancora nei testi medievali, è venuta meno con la frammentazione territoriale e la dominazione straniera fino ai tempi del letterato dalmata, il quale deplorò fra l’altro la precaria unità della lingua letteraria appoggiata al volgare toscano.
Conseguita con immane sacrificio l’unità politica si giunse a quella linguistica gradualmente con “l’ingegnarsi di rendere più generale l’uso che è già più comune, ch’è meno difficile a diventar generale”. Allora iniziò la lunga marcia conclusa negli Anni ’30, quando la lingua nazionale divenne espressione comune di tutti gli italiani.
Purtroppo la disfatta del ’45 coinvolse nel disastro anche ‘l’idioma gentile’ involgarito e imbastardito dall’apporto gergale e dall’imperversare degli anglemi (in argomento pubblicai la Nugella “Povera lingua nostra, dove vai?)   
F.B.



DELL’UNITA’ DELLA LINGUA

Un egregio scrittore, onorando d’amorevole commemorazione l’opera mia, diceva: << Come ne’ sinonimi, così in tutte le altre questioni riguardanti la lingua, cotesto sistema (dell’uso più generale e più ragionevole) invocato già da gran tempo dal buon senso di tutta la nazione, avvalorato dall’esempio di alcuni scrittori giudiziosi, abusato dall’intemperanza di molti, questo sistema dovrà, all’ultimo, prevalere; o l’Italia non avrà mai lingua comune, popolare, corrente (2). >> Soggiungeva poi: << V’hanno in questo dizionario (parlando del mio n.d.r.) alcune voci o distinzioni di voci che nella maggior parte delle provincie italiane non sono, né saranno mai forse, popolari: perché le gradazioni delle idee e le modificazioni del sentimento non possono essere sempre perfettamente uniformi in una nazione che sotto nome comune abbraccia popoli differenti d’origine e di carattere, con abitudini e tradizioni diverse. Ma questo che importa? Uno scrittore il quale debbe sempre aspirare ad essere inteso da tutta la nazione, potrà qualche volta con buon giudizio esprimere con due o tre voci un’idea che in qualche provincia esprimerebbe forse felicemente con una sola, né alcuno avrà diritto di censurarlo. Ma quando egli vuole adoperare quest’unica voce, in tal caso chi dirà ch’egli non debba usarla in quel senso in cui l’usa la provincia dov’essa è popolare? >>
Troppo è vero che questa mirabile insieme e deplorabile varietà d’origine, d’indole, di costumi, di sorti, la qual corre tra popolo e popolo italiano, gravemente contrasta con la tanto predicata unità della lingua comune: unità dalla quale meno si scostarono gli scrittori che più s’attennero al toscano idioma. Ben dice il valent’uomo: Lingua veramente comune; l’Italia non ha. Per giungere il meglio che si possa a quest’alto fine, giova ingegnarsi di rendere più generale l’uso che è già più comune, ch’è meno difficile a diventar generale, e che, per buona ventura, è tutt’insieme il più ragionevole. Giacché, quanto al voltare in perifrasi idee che richieggono e hanno nella lingua parlata di ciascun dialetto un vocabolo solo, ognun vede come ciò nuocerebbe alla proprietà ed alla forza, renderebbe intollerabili molti libri, e molti trattati d’arte o di scienza impossibili.
Con questa mira appunto diedi luogo nel mio dizionario a vocaboli e a modi toscani che in qualche altra parte d’Italia son poco noti: e se più noti per l’opera mia, divenissero, io sarei lieto d’aver in alcuna parte aiutato a questo bene inestimabile e che tant’altri rinchiude in sé: l’unità della lingua.
Dalla sgarbatezza del pronunziare e del leggere e del recitare, alla ben più deplorabile diversità di scrivere e di pensare e di sentire, ogni cosa ci mostra la necessità urgente di ridurre queste sì disgregate membra in bella e potente unità. Ma a cotesto bene non ci meneranno certo né coloro che dicono: << La pronunzia dei Fiorentini potrebbe farli credere strettissimi parenti dei popoli di Valcamonica (1); >> né coloro le cui scaramucce letterarie intorno alla lingua versano sul campo d’una erudizione sempre facile, sovente importuna.
E qui (volgendo il discorso a tutt’altri che all’autore sopra rammentato) mi sia concesso dir cosa nella quale tutti, spero, vorranno convenire; giacchè mi par tempo ormai di guardare questa e altre questioni di letteratura e di più gravi argomenti, dal lato dove più le opinioni s’accostano, che da quello dove si allontanano più.
Ognuno vorrà, spero, concedere che all’espressione di ciascuna idea basti un solo vocabolo: ognuno vorrà concedere che il vocabolo più analogo alle forme della lingua scritta merita d’essere agli altri prescelto. Or quand’anco altri dialetti d’Italia avessero, per giustificare certe idee, voci e modi più belli di quel che siano i toscani; se questi modi, se queste voci non siano stampati del conio della lingua comune, se l’uso più autorevole non li renda facilmente accettabili a tutti gl’Italiani, se dicono non più di quel che dice la voce toscna corrispondente, non veggo ragione d’introdurre o di conservare nella lingua cotesta ricchezza oziosa. Se un dialetto, qualunque sia, ha un buon vocabolo da presentare, che denoti idea da altri vocaboli non denotata, lo presenti nel nome di Dio, e ogni savio scrittore l’accetterà; ma voler travasare nella lingua comune inutili sinonimie de’ dialetti, sarebbe un moltiplicare le difficoltà del ben scrivere e del ben intendere, senza che ne venga né ricchezza alla lingua né precisione alle idee.
Si dirà che tale trasfusione da nessuno è tentata. E tanto meglio. Giacchè nessuno lo tenta, nessuno si vanti di volerla o poterla operare. E si confessi che dal meglio di tutti i dialetti insieme sbattuti non uscirà mai lingua comune, che sia tollerabile, che sia intelligibile. Buona quantità di voci son comuni, si, a tutta Italia: ma quand’anco tutte coteste voci adoprassersi per tutta Italia nel senso medesimo (che non è), questa tale quantità non è sufficiente a formare una lingua.