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sabato 22 aprile 2017

L'ordine nella Storia - Maria Cipriano

Esistono temi molto controversi, per non dire spinosi, lungo il percorso della Storia. Per poterli analizzare a dovere è necessario avere una visuale, la più ampia possibile, su questi accadimenti. Sarà necessario conoscere bene le fonti, il periodo storico, valutare i diversi risvolti e le diverse versioni dei fatti, collocandosi sempre al di sopra delle parti. Tutto l'opposto di ciò che accade oggi, dove una “morale umorale” detta le linee guida della storiografia a suon di luoghi comuni, dicerie e partiti presi.
Sicuramente uno di questi temi spinosi, se non il più spinoso, è quello delle leggi razziali emanate dal Fascismo nel 1938. Basta avere l'intenzione di parlarne che si chiudono tutte le discussioni o le si fanno scadere in sterili risse verbali.
Abbiamo così deciso di proporre su tale, difficile argomento, una lettura il più possibile scevra da condizionamenti ideologici, in poche parole equilibrata, a cura della nostra collaboratrice Maria Cipriano. Un articolo divulgativo teso a dimostrare come la storia non sia costituita da comparti stagni da cui attingere per costruire tesi distorte, piegate alle correnti del momento, ma sia una materia ben più complessa e sfaccettata.
Ci auguriamo in questo modo di gettare uno spiraglio di luce intorno ad un argomento così delicato e doloroso .

Gruppo di Studio AVSER



L'ORDINE NELLA STORIA


Se partiamo dal presupposto che la Storia è una scienza, dobbiamo dedurne che il disordine e la confusione non le si addicono di certo.
Fra le tante caratteristiche della Scienza, infatti, spicca quella che la rende una rappresentazione il più possibile ordinata della realtà, cioè rispondente a quei requisiti di razionalità, logica e chiarezza che servano a far capire il più possibile la realtà oggettiva a cui ci si riferisce, avvicinandosi il più possibile alla verità di questa: sia che si tratti di atomi, di vita animale, di galassie o di qualsiasi altra realtà obiettiva, il compito di qualsiasi studioso è quello di scandagliare, analizzare e valutare la complessità che ha davanti con quella onestà, diligenza e capacità che ciascuno può augurarsi di avere, o quantomeno di ricevere da chi ne sa di più. Se in un consesso di astronomi nessuno oserebbe aprir bocca in mancanza di cognizioni adeguate, non si capisce perché nella Storia invece lo si possa fare, e qualunque incompetente possa svegliarsi una mattina e dire, per esempio, che il Risorgimento fu una farsa o un complotto massonico. L'errore di credere che la Storia, al contrario della Scienza propriamente detta, sia una disciplina di serie b nella quale tutti più o meno possano cimentarsi, ha portato a conclusioni aberranti e completamente sballate.
Contrariamente a quel che si può pensare, è tutt'altro che facile leggere correttamente gli eventi storici. E' difficile afferrarne gli intrecci, discoprirne i percorsi, talvolta tortuosi, nascosti o addirittura segreti, chiarirne i collegamenti, enucleare le cause dei vari accadimenti, descrivere i fatti e i personaggi in maniera esauriente e veritiera o quantomeno verosimile, ma il compito dello storico, come dello scienziato, è proprio questo: una sfida costante a capire sempre di più e sempre meglio, affinché l'umanità ne riceva impulso a migliorare se stessa e correggersi, perché nella comprensione del passato è la chiave anche per affrontare il presente e apparecchiarsi al futuro. Tuttavia, soprattutto quando siamo coinvolti emotivamente, politicamente, o cointeressati personalmente, ecco che la lettura e interpretazione dei fatti subisce una distorsione. L'obiettività assoluta ovviamente è impossibile e una dose di personalizzazione è inevitabile, ma essa deve mantenersi entro limiti accettabili. Non è chi non veda a quali conclusioni errate ha portato una lettura di parte della Storia, completamente sbilanciata a favore o contro qualcuno. Ne è un esempio eclatante la demonizzazione del fascismo attuata dalla storiografia antifascista, che per decenni ha rifiutato una qualsiasi lettura obiettiva del fenomeno, agitando costantemente lo spauracchio del Duce, benché morto e sepolto, mescolando il Fascismo al nazismo al punto da farne un tutt'uno quando invece si trattava di due entità comunque diverse, il tutto per scopi e motivazioni politiche, o spinte emotive date dall'odio.
E' ovvio che nessuno pretenderà da un povero ebreo che ha salutato per l'ultima volta la mamma sul binario di Auschwitz e non l'ha mai più rivista, di dare una lettura obiettiva del fascismo (e tanto meno del nazismo). Nessuno pretenderà dal parente di una qualsiasi vittima degli eccidi nazisti o fascisti, una pacata lettura degli eventi. Chiaramente queste persone, profondamente coinvolte e travolte da quei fatti, non potranno avere la capacità storica di analizzarli e studiarli scientificamente, e si porranno piuttosto drammatiche domande metafisiche, esistenziali, morali, e, se si porranno interrogativi storici, saranno spontaneamente portate a vedere il male assoluto dalla parte di chi le ha colpite, e il bene assoluto dalla parte di chi le ha salvate. Tutto ciò è perfettamente umano e anche logico. Chi di noi, trovandosi dalla parte degli ebrei perseguitati, non odierebbe il nazismo, e, unitamente a questo, il suo principale alleato, il fascismo italiano? Chi, trovandosi fra quei milioni di ebrei catturati e portati via come sacchi di patate, trattati come merce senza valore, non avrebbe fatto in fretta e furia le valigie a guerra finita per trasferirsi in Israele o in America? Io certamente l'avrei fatto e il mio odio avverso i persecutori e i loro alleati -compresi gli italiani- sarebbe stato implacabile. Ricordo di aver letto il libro di una deportata italiana a Ravensbruck la quale raccontava di una signora danese dentro il campo che la riguardava con odio e non riusciva a trattarla come compagna di sventura perché italiana, e dunque ai suoi occhi corresponsabile (anche se era finita lì pure lei) dei crimini del nazismo. Tutto ciò, ripeto, è umano e comprensibile.
Ma lo storico non può permetterselo: a costo di sembrare freddo e insensibile, deve salire le scale e guardare le cose dall'alto, a una distanza sufficientemente giusta da non perdere di vista e veder sfumare i contorni di molteplici dettagli importanti, anzi fondamentali. A questo proposito, non si possono storicamente non riconoscere le differenze tra nazismo e Fascismo che tanto infastidiscono la lettura partigiana di quest'ultimo che lo vorrebbe una succursale passiva del medesimo, anche perché il Fascismo nacque molti anni prima del nazismo, e il fatto che nella seconda metà degli anni trenta si alleò con esso, non autorizza a suggellarne il reciproco livellamento. Così come non si può stabilire un'equiparazione con l'imperialismo giapponese, anche se il patto Tripartito del 1940 li comprendeva insieme. L'ambiente totalmente diverso in cui nacquero tre ideologie apparentemente uguali, rende assai diversi tra loro il Fascismo, il nazismo e l'imperialismo nipponico incentrato sulla figura sacra dell'imperatore. Né bisogna confondere le alleanze di cui è costellata la Storia - alleanze che continuamente si fanno e si disfano per i più svariati motivi, e sono tutte temporanee, labili e opportuniste -, con l'identità ideale e politica, e con la effettiva reale corrispondenza di sentimenti, vedute, opinioni, fini e moventi di governati e governanti. Anzi in molti casi questa corrispondenza con gli alleati di turno non esiste affatto, e l'alleanza è solo uno strumento utile in un dato momento o frangente storico, si pensi a quella tra i paesi anglo-sassoni e la Russia di Stalin all'unico scopo di combattere Hitler. Si trattava di nazioni che non avevano assolutamente nulla in comune, ma per circostanze contingenti combatterono insieme, né, per questo, alcuno storico si sognerebbe di colpevolizzare gli Stati Uniti o l'Inghilterra per i milioni di morti causati da Stalin. Peggio, prima dell'invasione della Russia da parte di Hitler, Stalin era alleato con questo, i due dittatori si erano spartiti tranquillamente la Polonia, e i russi avevano consegnato gli ebrei polacchi della zona da loro occupata ai nazisti. Per inciso, va detto che nel suo libro “Stalin against the Jews” (Stalin contro gli ebrei), lo storico russo Arkadi Vaksberg ha affermato che il regime comunista ha eliminato 5 milioni di ebrei nei gulag o in altre maniere. E il regime zarista non li trattava tanto meglio.
E' pertanto molto discutibile l'atteggiamento di quegli studiosi i quali agitano continuamente questioni morali nella Storia, facendone una palestra dove esibire i propri sentimenti, pulsioni e opinioni personali, oppure giudizi e proclami altamente etici - e dunque rispettabilissimi e anche doverosi-, ma che esulano dal campo propriamente storico e sono fondati per lo più su ragionamenti a posteriori, fatti col senno del poi, maturati in contesti del tutto mutati rispetto a quelli in cui si produssero i fatti. Tornando con l'esempio alla persecuzione nazista degli ebrei, il fatto che essa non scatenò quella corale reazione umana e morale che tutti noi oggi ci aspetteremmo, è la riprova che anche la morale subisce oscillazioni e cambiamenti, che ciò che è valido in un'epoca può non esser valido in un'altra, o comunque percepito in modo differente, e che, se anche la religione e la morale forniscono alcuni fondamentali imperativi kantianamente categorici che dovrebbero valere sempre, la Storia s'incarica inevitabilmente di relativizzarli nel tempo, sottoponendoli a modifiche, variazioni e, perfino, stravolgimenti. Ciò spiega perché non si concretò a favore degli ebrei quella mobilitazione umana che sarebbe stata necessaria: non si concretò perché verso di essi una buon parte della gente non avvertiva una sufficiente empatia, anzi nutriva il contrario, considerandoli intrusi e invadenti. Ciò spiega dal punto di vista storico - anche se non giustifica certo dal punto di vista morale -, perché essi poterono essere portati via e massacrati in così gran numero nel cuore dell'Europa del XX° secolo. La persecuzione degli ebrei non pioveva dal cielo, non era percepita come un'astrusaggine incomprensibile, ma, per quanto violenta e su larga scala fosse quella attuata dai nazisti, appariva come l'ennesimo manifestarsi di un secolare atteggiamento di ripulsa, odio e pregiudizio nei confronti del popolo ebraico, condiviso, direttamente o indirettamente, da molta più gente di quel che oggi si possa pensare. Ciò non impedì che molte persone aiutassero gli ebrei in quei tragici frangenti, ma lo fecero a titolo e rischio personale, e raramente si segnalarono prese di posizione estese a gruppi collettivi significativi o a un'intera nazione. Non solo, ma fra coloro che aiutarono gli ebrei in quelle terribili circostanze, vi furono gli individui più disparati, compresi molti fascisti, anche di alto livello, il che è la riprova che i rigidi giudizi morali applicati al campo concreto della Storia portano a conclusioni false e contraddittorie, non attendibili, e confutate dai fatti. Poiché la morale - e in particolare la morale cristiana - si basa sui fatti concreti molto più che sulla proclamazione astratta di un principio, il trovarsi di fronte a salvataggi di ebrei attuati da fascisti, pone gli osservatori inavveduti che agitano vessilli morali o politicamente allineati, in una posizione piuttosto difficile da districare; né può servire alzare le spalle e obiettare che gli aiuti prestati dai fascisti non valgono niente perchè essi combattevano “dalla parte sbagliata”. La Spagna di Franco aiutò molto gli ebrei ed esecrò apertamente la politica antisemita di Hitler, così la Bulgaria che pur faceva parte, come la Spagna, del blocco filo-tedesco. Non risulta che il Vangelo si ponesse domande su come la pensasse il buon samaritano: egli aiutò il viandante derubato, bastonato e abbandonato sanguinante per strada dai briganti, e ciò basta. Anzi, se vogliamo esser pignoli, la buona azione risplende di più trattandosi di un qualcuno che combatte “dalla parte sbagliata”, così come appare più riprovevole la cattiva azione compiuta da qualcuno che è schierato “dalla parte giusta”. Proprio su questo versante, gli storici arroccati nelle piazzeforti della morale, si trovano per le mani non poche gatte da pelare e nodi da sbrogliare, per esempio di fronte a partigiani sanguinari e violenti che a tutto pensavano fuorchè alla libertà e alla democrazia, a “liberatori” che radevano al suolo città intere senza far caso a donne e bambini, e a 2.000 morti causati in Italia solo a seguito di guida spericolata, spavalda e negligente di veicoli da parte dei “liberatori” che spesso nemmeno si fermavano a prestar soccorso.
Il mio discorso, ben s'intende, non vuole togliere alla morale il diritto e il dovere di dire la sua sui fatti della Storia, e la condanna della persecuzione nazista degli ebrei e delle leggi razziali fasciste che formalmente l'avallarono, va affermata e ribadita in modo chiaro, è superfluo dirlo: ma distinguendo il piano prettamente morale da quello storico. In altre parole, lo storico non deve fare il censore morale, ma analizzare la realtà dei fatti in connessione tra loro, evitando di ergersi a giudice etico sopra una piazzaforte eburnea dalla quale dispensare patenti di buona o cattiva condotta. Se così non fosse, e pretendesse di trovare la morale nella Storia, meglio farebbe ad appendere gli “arnesi del mestiere” al chiodo, perché la morale nella Storia è merce piuttosto rara. Ciò non toglie che i giudizi storici possono all'occorrenza essere altrettanto severi di quelli morali, ma, a differenza di questi, sono calati nella realtà concreta cui si riferiscono, sono partecipanti del contesto specifico, parte viva di questo. A differenza della morale che prescinde dalla realtà, il giudizio storico tiene conto della realtà dei fatti: e non è una differenza da poco. Ciò rende quel giudizio più ponderato, più ragionato, più articolato, più esauriente e sfaccettato. In definitiva, la morale emette il suo verdetto “a prescindere da”, mentre la Storia emette il suo verdetto “in dipendenza da“, insomma attenendosi ai fatti concreti e al loro complesso svolgimento, il che rende quel giudizio molto più completo e soddisfacente proprio perché aderente alla realtà, dipendente da questa. La sentenza di condanna sarà magari uguale, ma ben diversa la prospettiva da cui si diparte. Di conseguenza, sarà inaccettabile asserire che gli aiuti prestati dai fascisti agli ebrei non contano niente perché i fascisti combattevano dalla parte sbagliata, così come sarà antistorico dire che il Fascismo e il nazismo erano la stessa cosa, o che solo i nazisti e i fascisti commisero crimini mentre gli altri erano apportatori di pace e di bene. Ma ripeto: per un povero ebreo deportato ad Auschwitz sarà vera solo una faccia della medaglia, perché inevitabilmente la Storia di fronte ai sentimenti personali si sbilancia e per così dire deforma a favore di questi. Così come la madre di uno dei bimbi che andavano sulla giostra a Grosseto e vennero mitragliati di proposito a bassa quota dagli aerei angloamericani, ben difficilmente potrà festeggiare la liberazione del 25 aprile. Compito dello storico è pertanto quello di raddrizzare le molteplici “deviazioni personali, quali che siano, restituendo una panoramica obiettiva complessiva, pur nell'inalterabilità dei giudizi morali visti però in una prospettiva rigorosamente contestualizzata ai fatti.
In questo senso sono senz'altro da censurare gli atteggiamenti di quegli studiosi che danno in escandescenze quando si nominano i fascisti, quasi fossero il diavolo, non vogliono riconoscere lo status di combattenti ai militi della RSI, e pontificano costantemente di principi morali, parti giuste e parti sbagliate, prescindendo completamente dai dati concreti e dall'analisi attenta di questi, non considerando il fatto imprescindibile che un milite della RSI era inserito in un particolare contesto, esattamente come il partigiano, e assai difficilmente l'uno e l'altro si saranno posti ponderosi interrogativi morali, men che meno relativi alla persecuzione degli ebrei di cui peraltro era ignota la sorte e si sapeva ben poco. La voce diffusa era che venivano semplicemente trasferiti a est, anche se, a giudicare dal modo in cui venivano trattati, ciò appariva una mera copertura. Più facilmente, sia il milite della RSI che il partigiano, più che la morale, avranno seguito la “voce del cuore”, l'istinto, ciò che a loro sembrava giusto al momento, magari influenzati da qualcuno (un amico, una persona autorevole, un insegnante, un superiore), convinti entrambi di far bene, quando ovviamente fossero in buona fede. Come giustamente disse Edmo Fenoglio: “bastava poco per schierarsi dall'una o dall'altra parte.” Non a caso vi furono militi della RSI che poi divennero partigiani e partigiani che poi divennero militi della RSI o che cessarono di fare la Resistenza attiva dopo le due amnistie concesse del Duce nel 1944. Ciò si evince anche dall'esame delle lettere lasciatici dagli uni e degli altri, in molti casi sorprendentemente simili. Tracciare perciò un arcigno solco morale netto fra le due parti è antistorico, un arbitrio ideologico e una mistificazione. Sussistono già dubbi e interrogativi sul perché Mussolini - che comunque, in quanto capo del Fascismo e dittatore, era il primo responsabile delle sue decisioni - si sia alleato strettamente con Hitler nel 1939 con quel malaugurato Patto d'acciaio, e l'anno prima abbia voluto assecondarlo con le leggi razziali, non essendo affatto scontato che fosse rimasto affascinato dal dittatore tedesco, come detto da molti. Piuttosto, l'alleanza del Fascismo col nazismo avrà seguito gli stessi criteri di tutte le alleanze della Storia: criteri di utilità, opportunismo, calcolo. Che poi questo calcolo si sia rivelato sbagliato e tragico, deleterio per l'Italia, lo giudichiamo a posteriori, da una visuale diversa, da un punto di osservazione ottimale in cui lucidamente possiamo renderci conto, tra l'altro, quanto pericoloso fosse stringere alleanze troppo strette con un individuo come Hitler, affetto da turbe psicologiche, da patologie isteriche e da un odio morboso verso gli ebrei, nonché da un'ossessiva invadenza nei confronti del duce e del Fascismo col quale si era intestardito a voler stringere un'alleanza anche contro il parere dei suoi collaboratori, Goebbels in primis.
I nostri giudizi a distanza di spazio e di tempo hanno perciò un valore relativo, e ancor più relativi saranno i giudizi “altamente morali” di quei politici opportunisti che, accortisi solo dopo svariati decenni che negli anni quaranta ci fu un genocidio degli ebrei, si esibiscono oggi in roboanti dichiarazioni di scandalo, condanna e riprovazioni antifasciste e filoebraiche, e magari filosioniste. Personalmente, poiché m'interessavo all'argomento quando nessuno ne parlava, moltissimi anni fa, provo un senso di nausea nei confronti di queste scenografie parlate dei nostri giorni. Il contesto degli anni trenta, quando tutti più o meno volevano allearsi con Hitler, ci mostra che nessuno -a parte l'Ebraismo internazionale- gli dichiarò guerra per le leggi di Norimberga contro gli ebrei, e le olimpiadi di Berlino del 1936 si rivelarono un grande successo d'immagine per la Germania nazista che si presentò al mondo in forma smagliante, risorta dalla prostrazione economica della sconfitta del 1918. I rapporti con la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti si guastarono in un secondo tempo, e non certo a causa degli ebrei perseguitati, in difesa dei quali si levarono tiepide voci a livello internazionale. Non si può negare che papa Pio XI fu una di queste voci, e tra le più nette (durante la visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 si ritirò a Castel Gandolfo per non incontrarlo), ma già il suo successore Pio XII, salito al soglio pontificio nel 1939, preferì una linea più morbida e diplomatica, pur aprendo tutte le porte dei conventi agli ebrei.
Alla luce di queste considerazioni, la Storia appare come un prisma, cioè una figura geometrica complessa, al cospetto della quale le inappellabili sentenze morali che tanto piacciono all'antifascismo militante sono destinate fatalmente ad andare incontro a brutte sorprese ed errori. Nulla osta a che si debba fare la morale al di fuori della Storia. Ma chi vuole rimanere in ambito storico deve agire da storico, e riservare le sue condanne, i suoi anatemi e i suoi odi di parte altrove, o comunque esprimere un giudizio rigorosamente attinente ai fatti, e quindi ben più preciso e articolato. Coloro che si comportano diversamente, sono costretti a imbrogliare le carte della realtà, imponendo la propria visione politica e ideologica su di essa, distorcendo i fatti, raccontando solo ciò che si armonizza con la propria posizione personale e le proprie convinzioni. E' ciò che molta parte della storiografia ufficiale precisamente ha fatto: la criminalizzazione del Fascismo, che ha raggiunto estremi ridicoli, parossistici e addirittura risultati controproducenti, cui per reazione taluni hanno reagito con la santificazione di Mussolini e l'idealizzazione della Repubblica Sociale, atteggiamenti sbagliati anch'essi, perché né Mussolini fu infallibile - anzi sbagliò più volte - né la Repubblica Sociale fu quello Stato modello verso cui qualcuno nostalgicamente propende. E però, nel costante rifiuto da parte della storiografia ufficiale di svolgere un discorso storico obiettivo, vanno ricercate le cause della deformazione della Storia da ambo le parti.
Un'eccezione in questo panorama fu rappresentata dall'eminente storico reatino Renzo De Felice, il quale ebbe il coraggio, fra minacce e ostracismi, di opporsi gradatamente alla lettura ideologica del Fascismo, negli ormai lontanissimi anni sessanta-settanta, proponendo uno studio del tutto diverso, basato sull'esame rigoroso dei documenti. Pur proseguita tiepidamente da altri, questa opposizione all'uso politico e strumentale della Storia, tacciata sprezzantemente come “revisionismo”, ha lasciato però inalterato lo zoccolo duro della condanna morale e senz'appello del fascismo, accusato di aver commesso errori imperdonabili e mostruosità indicibili, di esser stato una terribile dittatura che si alleò col nazismo condividendo con esso la persecuzione contro gli ebrei, la guerra d'aggressione, lo schiacciamento dei popoli conquistati e l'annullamento di tulle le libertà.
Ogni storico serio sa che ciò è vero in parte o non è vero affatto, e, anche per quel riguarda la questione più spinosa - le leggi razziali del 1938 -, esse rientrano in quella talvolta criptica realpolitik Mussoliniana intorno alla quale non si possiede una documentazione sufficiente a sviscerarla nelle sue vere cause. Il che non toglie nulla alla condanna morale, sia chiaro. Ma non senza tener conto di tutti i dati a disposizione, in primo luogo delle contraddizioni del regime Fascista, che, mentre approvava le leggi razziali da una parte, dall'altra metteva in campo una serie di atti i quali sostanzialmente le contraddicevano: basti pensare a quanti ebrei polacchi il regime fascista salvò e cercò di salvare in faccia ai tedeschi all'indomani dell'occupazione della Polonia, al punto che i funzionari governativi italiani furono costretti ad andarsene in fretta da Varsavia se non volevano essere arrestati anche loro. Un numero elevato di ebrei dell'europa occupata dai nazisti trovò scampo nel paese del principale alleato della Germania che apriva le sue frontiere a quella che, allora, fu una vera accoglienza. Quasi 15.000 ne giunsero solo dall'Austria e dalla Germania. Senza dire di quelli che si trovavano già in Italia per varie ragioni e che la Germania reclamò invano dalle autorità fasciste. Anche nei territori occupati dal Regio Esercito italiano, furono nell'ordine di molte migliaia gli ebrei salvati dalla furia nazista. L'ebreo croato di Zagabria Ivo Herzer, trasferitosi dopo la guerra negli Stati Uniti, ha valutato in non meno di 6.ooo. i soli ebrei croati che trovarono scampo sotto le ali protettrici del nostro esercito, tra i quali lui stesso. Con dovizia di particolari Herzer ha raccontato l'umano accoglimento ricevuto dagli italiani nel pieno infuriare del conflitto e sotto il naso dei tedeschi, accoglimento che certamente non poteva avvenire senza il beneplacito del Governo di Roma (e senza esborso di danaro), tanto più che gli ebrei rifugiati beneficiavano di un vitto normale, scuole, giornali, libri, cure mediche, e, nei casi di salute più gravi, venivano trasferiti altrove. Almeno mille di loro vennero portati in Italia. Lo storico israeliano Menachem Shelah, nel suo libro “un debito di riconoscenza”, essendosi anche lui salvato grazie al nostro esercito, ha scritto tra l'altro: “In Jugoslavia il sangue scorreva a fiumi, migliaia di donne venivano violentate, i bambini fatti a pezzi, i campi, i villaggi, le città dati alle fiamme. Il comportamento degli italiani in confronto a tutti gli altri fu il meno pesante, e si sforzarono di salvare gli innocenti.” A questo proposito, giustamente lo storico ebreo Leon Poliakov ha osservato che gli italiani non avevano nessun obbligo di salvare gli ebrei stranieri, né tantomeno di farli entrare in Italia.
Il politologo ebreo americano Edward Luttwak (anche lui tra i salvati) ha precisato: “L'esercito italiano in Jugoslavia non si limitò a proteggere gli ebrei, ma agì come forza d'interposizione fra le parti in conflitto. Fu uno slancio umanitario che accomunò tutti, dai comandanti fino all'ultimo caporale.
Tutto ciò, unito a molto altro che non starò a elencare (per esempio il progettato trasferimento degli ebrei europei in Etiopia, pensato dal Duce e dai suoi collaboratori che avevano già scelto una zona appropriata e addirittura iniziato i lavori di costruzione, poi bruscamente interrotti), contribuisce a riequilibrare almeno un po' i due piatti della bilancia: così, il peso morale delle leggi razziali, vieppiù odiosamente attuate verso una minoranza fortemente integrata che aveva partecipato attivamente al Risorgimento e poteva vantare meriti di fronte all'Italia, se non è annullato, è in parte mitigato. Ma chi non poté salvarsi e malauguratamente si trovò fra quei 7000-8000 ebrei catturati e portati via dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943, di cui ben pochi fecero ritorno, non potrà avvertire in nessun modo questa mitigazione e noi lo comprendiamo e ci sentiamo psicologicamente solidali con lui, anche se la Storia non può non tenere conto di tutti i dati e metterli in comparazione, ricavandone un quadro il più possibile logico e chiaro. In questo quadro, non si può non riscontrare una evidente ambiguità del regime Fascista, sia nell'alleanza con Hitler sia nella persecuzione degli ebrei fatta chiaramente per compiacerlo, per quanto presentata come una generica e peraltro contraddittoria “difesa della razza”. La legge del “do ut des, piuttosto, che presiede a tutte le vicende umane, sarà stata più probabilmente il vero movente delle leggi razziali in cui gli ebrei italiani vennero sacrificati alla ragion di Stato per ottenere da Hitler una contropartita. Quale fosse questa contropartita forse non lo sapremo mai, e certamente la storiografia antifascista non ha contribuito a farlo sapere, tutta impegnata a demonizzare il mortale nemico. Ma è ragionevole ritenere che un passo così forte come le leggi razziali anti-ebraiche, che contraddicevano tutta la politica fascista precedente nei confronti degli ebrei d'Italia, culminata nella legge Falco del 30 ottobre 1930 che sviluppava ulteriormente la legislazione del Regno di Sardegna in favore delle comunità ebraiche, non potevano non avere un movente. Esse non a caso furono emanate a poca distanza dalla visita di Hitler in Italia, avvenuta nel maggio del 1938. Sappiamo che quest'individuo, per motivi mai chiariti, odiava gli ebrei di un odio spropositato e patologico che non ha uguali nella pur lunga storia delle persecuzioni anti-ebraiche, e pretendeva che il Duce lo seguisse su questa strada. Pur tuttavia, la tesi avanzata dallo storico De Felice, secondo la quale il Duce non poteva non seguire il fuhrer in quanto suo alleato e dunque si trovò costretto a cedere per “attrazione” ideologica col nazismo, risulta un pò troppo blanda. Anche la tesi enunciata da Giorgio Pisanò, secondo cui le leggi razziali furono la conseguenza della frattura venutasi a creare con l'Ebraismo internazionale che aveva dichiarato guerra al nazismo, non convince. L'Ebraismo internazionale, infatti, dichiarò guerra alla Germania nazista, specificandolo espressamente, non già all'Italia fascista, che era in ottimi rapporti addirittura coi sionisti e con il capo di questi, Chaim Weizmann. Non meno di 80.000 ebrei dall'europa occupata dai nazisti non a caso vennero fatti transitare a Trieste per la Palestina col pieno appoggio dell'autorità fascista. Non era un mistero per nessuno che il Duce spingeva per la fondazione di un focolare ebraico nell'antica terra di Davide, e figuriamoci se l'ebraismo internazionale poteva dichiarargli guerra. Cadute dunque queste due tesi che non reggono, resta quella, tanto cara all'antifascismo, secondo la quale il fascismo fu sempre razzista, fu sempre antisemita, e dunque le leggi razziali non furono che il logico sbocco di questa sua anima viziata all'origine. Ma ciò è smentito da troppi fatti e documenti contrari, oramai di dominio pubblico. Non restano dunque che altre due ipotesi. Una è quella accreditata ufficialmente dal regime stesso, secondo cui, con la conquista dell'Impero, si rendeva necessario un cambiamento di rotta, presentandosi il problema di tutelare la razza italiana dalla presunta contaminazione con le altre razze che s'affacciavano dagli altri luoghi dell'Impero. E questo fu ciò che il Duce precisamente cercò di far credere onde giustificare e spiegare in qualche modo le leggi del 1938. Ma quanto ciò fosse falso, è evidenziato da una serie di fatti: anzitutto che le razze che si affacciavano dagli altri luoghi dell'Impero (greci, sloveni, albanesi, africani, etc.), lungi dall'essere estromesse o emarginate, al contrario erano avviate sulla via dell'integrazione, com'è dimostrato dalle organizzazioni fasciste che colà s'insediarono coinvolgendo a pieno titolo i nativi. Anzi proprio il Duce aveva reso pubblico l'indirizzo politico del regime in tutti i paesi occupati, che doveva essere ispirato a Roma e a Venezia, famose proprio per l'integrazione e armonizzazione delle razze. In secondo luogo, anche volendo accreditare questa tesi, non si vede cosa c'entrassero gli ebrei italiani, presenti da secoli entro la compagine nazionale, con queste “nuove razze” che s'affacciavano dai vari luoghi dell'Impero. Il bisticcio logico insito nella frettolosa legislazione razziale del regime, è perciò evidente, com'è evidente il suo sforzo invero piuttosto grossolano di far digerire questa legislazione agli italiani perplessi e stupiti, usando la solita vetusta rappresentazione maligna e vignettistica degli ebrei. Non a caso il giornale “la difesa della razza”, diretto da Telesio Interlandi (che era sempre stato razzista per conto suo), uscì nell'agosto del 1938, vale a dire con ben 16 anni di ritardo rispetto alla data della presa del potere del Fascismo, il quale stranamente solo dopo la visita di Hitler s'accorse che gli ebrei contaminavano gli italiani; e meglio non trovò da fare che escluderli perfino dalle scuole, facendo così lievitare stoltamente in seno ad essi un rancore micidiale che poteva trasformarli in acerrimi antifascisti. Un regime che nel 1931 aveva ricevuto con tutti gli onori Gandhi vestito con un khadi e con l'arcolaio al seguito perché a una cert'ora doveva filare il cotone (il Papa non l'aveva voluto ricevere in quanto “indecente), chiesto agli Eritrei de l'Asmara se preferivano le case all'occidentale o i tukul moderni (preferivano i tukul moderni), disseminato l'Africa orientale di ambulatori gratuiti e costruito un sanatorio di prim'ordine in Etiopia per combattere e debellare la lebbra, aveva dunque paura delle razze, e in primis, della più famigerata di tutte: quella degli ebrei italiani!
Non resta dunque che l'ultima spiegazione, l'unica plausibile, quella secondo me più logica, che però il Duce e i suoi si guardarono bene dal far trapelare. E cioè che vi fosse una congrua contropartita da ricevere dal fuhrer in cambio delle famigerate leggi a lui tanto gradite, la quale doveva essere così importante e, forse, urgente, da giustificare un passo simile, che necessitava anche della firma del Re, cioè del coinvolgimento del buon nome della Casa Reale, comportando una rottura plateale con il Risorgimento che aveva emancipato gli ebrei liberandoli dalla ghettizzazione. Mazzini, l'uomo del Risorgimento più amato dai fascisti, era morto in casa di amici ebrei che l'avevano amorevolmente ospitato quando la bigotta sorella cattolica, su consiglio di un prete fanatico, si era rifiutata di accogliere in casa sua il fratello ormai prossimo alla fine. Dietro le leggi antiebraiche camuffate da leggi per la difesa della razza italiana, c'era dunque verosimilmente un preciso e pressante interesse del regime che era andato maturandosi in quegli anni, e finì per incontrarsi con la notoria ossessione del Führer contro gli ebrei. Forse c'era in ballo un'enorme somma di danaro necessaria a qualcosa, che solo l'affezionato Führer, sempre allegro e sorridente accanto al Duce, poteva permettersi di elargire. Possiamo ipotizzare che qualche ebreo, tra quelli più amici coi fascisti -per esempio il podestà di Ferrara, amico fraterno di Italo Balbo-, sia stato messo al corrente in tutto o in parte della verità. Proprio all'indomani della venuta di Hitler in Italia, infatti, Italo Balbo si recò a Ferrara dal caro amico Renzo Ravenna per avvertirlo che stava per scattare la politica anti-ebraica: una doccia gelata su tutta la comunità israelitica d'Italia, sempre fiera della sua partecipazione al Risorgimento e alla Grande Guerra. Non gli avrà spiegato null'altro? Nella costernazione di tutti, Ravenna fu costretto a dimettersi dalla carica di podestà che tanto egregiamente ricopriva da ben dodici anni, circondato peraltro dalla solidarietà dei tanti (fascisti e non fascisti) che lo stimavano, compreso l'arcivescovo. Pur dovendo affrontare traversìe e lutti (la morte ad Auschwitz di due sorelle e un fratello), nonché la comprensibile ribellione della figlia che dopo la guerra scelse risolutamente Israele, egli non rinnegò mai il suo passato. Dopo le leggi razziali, fu ospitato dall'amico in Libia -ove le leggi razziali erano quasi disattese-, e poi visse indisturbato a Ferrara fino all'8 settembre, quando, entrati i tedeschi a gamba tesa nella questione ebraica, la situazione si fece drammatica per tutti gli ebrei italiani, in molti dei quali tuttavia sopravvisse una sorta di fiduciosa e candida speranza nel regime, che li portò a evitare di nascondersi, confidando che li avrebbe protetti dai nazisti. Purtroppo il regime poté proteggerli ben poco o niente affatto, e gli stessi fascisti rischiavano l'arresto e la deportazione, mentre l'ira funesta di Hitler poteva rovesciarsi sui capi della RSI quando l'avessero contraddetto. Il Duce stesso era sorvegliato 24 ore su 24, coi telefoni sotto controllo, e perfino Claretta Petacci, condotta sul lago di Garda dai tedeschi, era piantonata dalle SS. La vicenda del generale Amilcare Farina, comandante della divisione San Marco (una delle più importanti formazioni militari della RSI), è del resto emblematica della situazione: egli si trovò addosso le SS urlanti, accortesi che dentro la divisione era nascosto un ebreo (e chissà quant'altri in giro nelle varie formazioni fasciste), il quale venne subito imprigionato, e non si sa con quali salti mortali solo per intervento del Duce si riuscì a evitare sia l'arresto del generale sia la deportazione di quel poveraccio.
Si creò dunque in Italia, dopo l'8 settembre, una situazione davvero incresciosa, in molti casi scandalosa, come a Trieste, dove la retata di oltre 700 ebrei da parte dei tedeschi, avvenuta ancor prima di quella del ghetto di Roma, portò all'arresto di noti irredentisti, patrioti e reduci della Grande Guerra. L'ingombrante presenza dei nazisti e il loro spadroneggiare sulla Repubblica Sociale, oltre a imprimere un marchio sul fascismo repubblicano che molti fanno finta di non vedere, costituì il più formidabile degli ostacoli anche al più volonteroso dei piani di salvataggio, come dimostra l'arresto e la deportazione a Dachau del capo della Polizia della RSI Tullio Tamburini e del suo vice Eugenio Apollonio, da tempo sorvegliati dalla Gestapo, avvenuta il 21 febbraio 1945, unita alle contemporanee dimissioni del ministro degli Interni della RSI Buffarini Guidi, al corrente dei loro maneggi. Tamburini tornò vivo, ma il questore di Fiume Palatucci ci rimise la pelle a Dachau per le stesse ragioni. Più fortunato fu il podestà di Milano Piero Parini, fascista della prima ora come Tamburini: i tedeschi mai si accorsero che nascondeva dentro Palazzo Marino (sede dell'attuale Comune di Milano) un folto numero di ebrei milanesi. Ciò basta a dimostrare quanto estese fossero le omertose complicità fasciste. Altrettanto fortunato -più abile che fortunato per la verità- fu il gerarca fascista Roberto Farinacci. Con la sua abilità oratoria e i suoi abbaiamenti antisemiti, buttò fumo in faccia ai tedeschi che gli avevano chiesto la lista degli ebrei di Cremona. Prima avvertì gli ebrei cremonesi di nascondersi e alcuni li nascose lui stesso. Poi consegnò la lista.
Come dimostra l'arresto di Tamburini, al di là dell'asprezza estrema della guerra che assorbiva le parti, si tentò di trovare un temporaneo fronte comune con gli anglo-americani per salvare gli ebrei dalla grave emergenza umanitaria che si era creata a loro danno, di cui le più alte autorità fasciste, come quelle anglo-americane, erano in tutto o in parte al corrente dal 1942. Purtroppo questo non fu fatto perché gli anglo-americani si fossilizzarono nella conduzione della guerra affermando trattarsi della questione assolutamente prioritaria. Si potevano fare entrambe le cose, forse, senza toglier nulla alla conduzione prioritaria della guerra perseguita da ambo le parti. Non fu fatto. E altro tempo doveva passare, d'inaudite sofferenze per tutti, in cui l'Italia non solo si ritrovò invischiata fino al collo in una guerra da cui, di fatto, non riuscì più a uscire, ma coinvolta in una persecuzione odiosa, disgustosa e immotivata avverso i propri connazionali ebrei che vivevano in Italia da secoli, il che costituisce una macchia incollata addosso al Fascismo di cui non si è rinvenuta nessuna plausibile spiegazione, non risultando convincenti le superficiali dichiarazioni di facciata del Duce e dei suoi sodali. Infatti, come s'è detto, la pretesa politica razziale fascista preannunciata da un Manifesto della razza frettolosamente scritto e firmato nel luglio del 1938, definita dal Duce improvvisamente urgente e improcrastinabile, era in realtà un pastrocchio, in cui, mentre si cacciavano insensatamente gli ebrei italiani - ripeto, italiani da secoli - dalle scuole, dall'esercito e dai pubblici uffici, di fatto trasformandoli in cittadini di second'ordine dell' “Impero del Littorio”, si ammettevano gli albanesi, gli slavi, i libici, gli africani e i greci dell'Egeo nello stesso Impero, tutti inseriti nelle tradizionali organizzazioni fasciste. Un albanese poteva entrare in un'accademia militare, e un ebreo di Firenze e di Roma no. Si trattava dunque, dietro la risibile difesa della razza italiana che in realtà si difendeva benissimo da sola, di un'inconcepibile nonché pasticciata emarginazione degli ebrei italiani dagli italiani stessi. E questo, oltretutto, mentre si aprivano le porte agli ebrei stranieri di qualunque nazionalità. I quali, anche dopo l'emanazione delle leggi razziali che ne decretavano l'espulsione immediata a parole, in realtà rimasero in larga parte in Italia, raccolti per lo più nel campo di Ferramonti in Calabria, dove, per loro espressa testimonianza, “facevano quello che volevano”, ricevendo anche una somma di danaro giornaliera. Dopo la guerra, alle commemorazioni degli ex internati di Ferramonti, erano invitati anche gli ex militi fascisti che li avevano trattati con tanta umanità.
Una conclusione purtroppo amara possiamo trarre da tutto ciò: e cioè che l'aver negato ai gerarchi fascisti un regolare processo alla fine della guerra, preferendo la loro liquidazione spiccia e brutale, ha fatto giustamente sorgere negli storici più esigenti il sospetto che si preferì seppellire, piuttosto che far emergere, alcune presumibili scomode verità, di cui peraltro nessuno può estesamente provare nulla, potendo tutt'al più vagamente ipotizzarle. Se c'erano dei segreti, va da sé che i capi del Fascismo li hanno portati con sé nella tomba. Invece di fare un'inutile mattanza in piazza Loreto con la popolazione esasperata e inferocita chiamata a raccolta, si poteva chiedere razionalmente conto al Duce dei suoi errori veri e presunti (compresi quelli strategico-militari) e delle sue decisioni che tanto peso hanno avuto sul destino successivo dell'Italia, vanificando in un colpo solo le vittorie del Risorgimento e della Grande Guerra. Al posto di centinaia di arruffati processi sommari davanti alle Corti d'Assise straordinarie contro qualunque fascista capitasse a tiro, senza discernimento e non di rado con prove false o montate, era meglio cercare di capire e far capire come andarono le cose, colpendo veramente quei fascisti o presunti tali che davvero collaborarono coi tedeschi, disobbedendo perfino al Duce. Forse tutto ciò fu impedito dallo stato d'animo sovraeccitato della popolazione, fatto sta che non fu fatto, e se c'era una possibilità di placare gli animi, gli antifascisti fecero invece di tutto per esasperarli ulteriormente.

Perciò, a noi posteri che vogliamo leggere le intricate pagine della Storia per trovare il bandolo, resta il dovere di mettere ordine, e, soprattutto in un periodo confuso come questo, dove, con la scusa di mettere ordine si fa il contrario, di non farci tirare per la manica da nessuno, ma di giudicare con obiettività, e, nel caso, con severità, non perché ce lo impone qualcuno, magari con leggi, veti o minacce, ma perché ce lo impone la nostra coscienza, morale, storica e civile.
Maria Cipriano

sabato 8 aprile 2017

Intervista a Ferruccio Bravi sulla Toponomastica alto atesina



1) I recenti attacchi alla toponomastica italiana in Alto Adige – passati quasi sotto silenzio nell'opinione pubblica, salvo rare e circoscritte eccezioni – hanno risollevato la spinosa questione linguistica della regione. Dal punto di vista glottologico, le pretese e le rivendicazioni degli autonomisti hanno qualche fondamento scientifico?

Premetto che la verità assoluta non appartiene all'uomo: la verità umana è figlia del suo tempo, è confezionata spesso ad uso e consumo della ragion di Stato e della demagogia delle fazioni. La gente crede ai surrogati di verità, o al limite finge di crederci. La paura di restare isolati rende docili come le pecore dietro il campano, fa accettare tutto: guai all'incauto portatore d'una verità diversa da quella proclamata dal partito, dalle consorterie politiche, dai banditori al loro servizio.
Ho i miei limiti, riconosco, malgrado una certa esperienza maturata in indagini toponomastiche apprezzate dal prof. Carlo Battisti, glottologo principe, luminare assai noto per la sua profonda umanità anche al ceto comune del secolo scorso come interprete del capolavoro cinematografico “Umberto D” (regia di De Sica).
Innanzitutto preciso che parecchi toponimi di formazione latina furono germanizzati e imposti di recente. Ne tratto in studi pubblicati nel secolo scorso qui sotto citati:

- "Inchiesta" sui nomi di luogo atesini, I: Sintesi introduttiva, "Clessidra" 18, Bolzano (Centro Studi Atesini) 1982.
- 50 nomi in libera uscita, "Spunti e note" 3, Bolzano (CSA) 1986.
- L'evolversi dei toponimi atesini di origine preromana: latinizzazione, germanizzazione, italianizzazione, Società Geografica Italiana, 39-55 (testo della relaz. 25 X 1983 alla Tavola Rotonda).
- Toponomastica italiana nella provincia di Bolzano, Bolzano (CSA) 1990,
- Forse che sì, forse che no (anzi, per niente)
- Mito e realtà nei nomi di luogo atesini, Bolzano (CSA) 1986 (sotto eteronimo Silvano Valenti, in polemica con Kühebacher 1986, Deutsch im Spiegel der Namen, in specie sugli pseudo-prediali).

2) Ogni qual volta si affrontano certe tematiche salta fuori il nome di Ettore Tolomei, accusato di aver italianizzato i nomi di luogo dell'attuale provincia autonoma. E il suo nome viene accostato al Fascismo. Evidentemente si fa un po' di confusione in merito. Puoi chiarirci meglio le idee sul suo operato?

I denigratori del Tolomeitrentino italianissimo, ma in verità fascista assai tiepido – rifiutano di accettare a scatola chiusa la «verità convenuta» circa i nomi di luogo atesini di forma italiana che, sostengono, erano sì e no una trentina prima che il Tolomei li moltiplicasse per mille inventando a tavolino una toponomastica su misura per i fascisti che la imposero. Molti trovano questa «verità» prête à porter, assai più comoda e sbrigativa delle complicate verità contenute nelle pergamene tarlate e negli indigesti volumi dei professoroni.

3) Riguardo al periodo fascista invece, cosa si può dire sulla convivenza tra i vari gruppi linguistici? Ci fu realmente, come sostengono in molti, un esacerbarsi degli atteggiamenti anti-tedeschi da parte italiana, con conseguente forzata italianizzazione?

Per la verità, la convivenza fra i due gruppi linguistici dopo l’annessione fu relativa al tempo del fascismo in cui non vi fu alcuna discriminazione etnica: l’uno e l’altro gruppo avevano gli stessi diritti e doveri ma nessun privilegio. Questa situazione fu netta e norale prima dell’Anschluß, allorché l’Austria ottenne con voto plebiscitario l’annessione al Reich hitleriano: furono i nazisti austriaci (più fanatici e compatti di quelli germanici) a fomentare la discordia etnica che a sua volta sfociò nelle opzioni naziste da parte di alto-atesini di lingua tedesca non pochi dei quali avevano il cognome italiano essendo trentini intedescati di recente. A questo si opporrà la diceria della forzata italianizzazione dei cognomi di forma tedesca.
La discordia fra i due gruppi era comunque insignificante rispetto a quella attuale impregnata di livore razzista e fomentata anche da politicanti italioti e da trentini degeneri. Comunque non ci fu allora un reale esacerbarsi degli atteggiamenti anti-tedeschi da parte italiana. Tirate le somme, la forzata italianizzazione dei tedescofoni fu solo occasionale e trascurabile rispetto all’attuale intedescamento degli italofoni.



4) Qual era al tempo dell’Asse lo stato della toponomastica atesina?

Giova precisare che essa fu croce e delizia: croce, per il regime che, con grinta, difese dal tedesco zuccoduro il nostro diritto di chiamare nella nostra lingua e come ci pare i luoghi dove siamo nati o viviamo per lavorare e produrre; delizia, perché il Tolomei, sia pure in modo incauto e stiracchiato ha resti-tuito ai toponimi una forma italiana. A dirla tutta in qualche caso il patriota di Gleno ha fatto autogol ravvisando matrici tedesche in toponimi di radice inequivocabilmente nostrana attestata nei documenti più antichi. Per altra via si dà la stura alla fantasia e si fanno figuracce come appunto nel caso del Tolomei che spropositò nell’attribuire matrice tedesca a certi toponimi ladini e pusteresi.
Valga un solo esempio di manifesta evidenza: documenti atesini di antica data attestano che gli attuali villaggi di Elle e di Rina si chiamavano Elina, forma riconducibile a *helina ‘centro sinecistico’ da prelatino *eli + suffisso aggettivale –ina. *Heli ha riscontro nel lat. Villa e ad esso sono riconducibili Velia (Eléa in greco) nel Cilento, alquanto a sud di Paestum. Velia si chiamava anche uno dei tre villaggi sopra il colle Palatino prima della nascita di Roma sul colle stesso. Velletri si chiamava Velitrae, Volterra Velathri, la prima in forma latina, la seconda è prelatina in forma etrusca.
A questo punto mi concedo una digressione sul termine prelatino che non è in relazione con il prete modernista azzimato che si scalda al calore di una società deviata e in peccato mortale.
Prelatino significa vagamente ‘anteriore al latino’. Nel caso specifico dei Reti prelatini ho coniato il termine ‘velianico’, con esplicito riferimento ad *heli-/*veli.
I miei Veliani, per quanto di intuisce, erano un popolo errante vissuto per secoli nello stato primitivo. Vien fatto di pensare che essi parlassero un linguaggio più urlato che articolato.
E invece, no. Il loro idioma era compiuto e armonioso: era una lingua singolare, basata su combinazioni sillabiche disciplinate e costanti che si direbbero uscite da un elaboratore elettronico anziché dalla mente umana.
Una sola parola velianica può esprimere un intero concetto: ad es. calma, che significa 'culmine pianeggiante, arido e calvo', rende in due sillabe quanto una istantanea a colori.
Le voci velianiche richiamano, per struttura, il rigore della lingua arabica classica che – a differenza delle derivate varietà volgari, urlate dai beneficiari dell’accoglienza – compete per armonia fonetica aggraziata ed impeccabile con la buona lingua italiana. La ricchezza lessicale del velianico, specie nella nomenclatura alpestre, denota una fine sensibilità e una assidua esperienza di frequentazione montana.
Tornando alla toponimia atesina, da Velathri a Velturno alto-atesino il passo è breve. Su Velturno bisognerà intenderci. La forma tedesca Feldthurns è una manipolazione. Nei documenti si legge: Velturnes. Anzi in un manoscritto di Bressanone, datato 1666, si legge "Velturno", che è la forma storica italiana. Sempre da documenti sappiamo che otto secoli fa il villaggio di Fiè si chiamava Vels (da *feles) e l'altura di Fia a Tesero –paese natìo di mia Madre – Fella.
Le rivendicazioni tedesche partono da lontano, ma credo di non sbagliare se affermo che si fecero sempre più pressanti in loco a partire dal XIX secolo in opposizione ai moti d'indipendenza nazionale nella nostra penisola.

5) Il vento risorgimentale spirò anche nelle città e nelle valli atesine?

L’adesione alla riscossa risorgimentale non lasciò indifferenti i sudditi di lingua italiana, soprattutto nella Bassa atesina popolata da trentini. Cito per tutti il garibaldino Camillo Zancani da Egna (1820-1888) di cui Achille Ragazzoni, ‘penna d’oro’ del nostro Centro di Studi di Bolzano, ha tracciato una encomiabile biografia.


Il garibaldino Camillo Zancani


6) Che ruolo svolsero le associazione patriottiche in quelle che all'epoca erano le province meridionali dell'Impero asburgico?

La loro attività era quasi esclusivamente culturale, ai fini di tener viva la coscienza nazionale in una marca di confine italiana brutalmente intedescata dagli Asburgo con la benedizione dei principi-vescovi di Trento e Bressanone. Doveroso precisare che nell’età della controriforma tali principi vescovi furono prevalentemente italiani di lingua e anche di sentimenti. Non certo il pentimento per la brutale germanizzazione linguistica, bensì il timore d’una adesione dei sudditi al luteranesimo indusse gli Asburgo a non contrastare la residua presenza italiana nella Contea tirolese dove, cessato l’intedescamento, l’italianità ebbe una sorprendente seppure effimera rinascita.

7) Facciamo un passo indietro. Nel tuo libro Le Fiere di Bolzano – che abbiamo da poco riprodotto parzialmente, sul nostro sito – tratteggi un quadro del capoluogo atesino, dal medioevo all'età dei lumi, in cui italiani e tedeschi hanno una consistenza quasi pari sul territorio. A quando possiamo datare le più massicce migrazioni da nord nella regione? E come si distribuiscono tra città e campagna?

La migrazione allogena più massiccia risale all’alto medioevo: in massima parte il “tedesco invasore” apparteneva al ceto rurale e gli italiani erano immigrati dal Trentino, dal Veneto e poi dalla Toscana dilaniata dalle fazioni nell’età di Dante.

8) Sbaglio nel dire che la componente latina, impronta lasciata da Roma antica, sia comunque forte e radicata in Alto Adige più di quanto possa oggi apparire?

Dell’originaria componente latina sopravvissero, compatti e tuttavia molto differenziati linguisticamente gli alto-atesini delle valli ‘ladine’ che oggi si atteggiano a razza speciale a sé. Nondimeno, tedescheggiano per redditizio opportunismo. Molti di loro sono ‘trilingui’ e non pochi si intedescano per godere i privilegi della razza eletta ‘sud-tirolese’ privilegiata dalla discriminazione razziale imposta dal trattato Gruber-De Gasperi. Ma se qualcuno di loro emigra a sud di Salorno diventa linguisticamente italiano come noi.


Statua loricata attribuita a Druso, condottiero romano
conquistatore della Rezia


9) A proposito dell'accordo Degasperi - Gruber, in molti oggi si richiamano esplicitamente ad esso per dirimere l'attuale questione linguistica e toponomastica della provincia atesina. Mi pare invece che tu esprima un giudizio negativo su di esso. Puoi spiegarci meglio il tuo punto di vista in merito?

A qualificare la scelleratezza dell’accordo è proprio il De Gasperi ex parlamentare austriaco servo soave dell’impiccatore Francesco Giuseppe. Egli stesso si qualificò ‘trentino prestato all’Italia per me, apprezzarlo sarebbe un’ingiuria al martire Cesare Battisti che per l’Italia ha affrontato il patibolo; e anche una offesa alla memoria di mia Madre, irredentista della Lega Nazionale trentina profuga a Roma dove morì prematuramente, minata nella salute dalle sue traversie affrontare per amore della Nazione nostra.
A qualificarlo sono comunque le condizioni dei miei connazionali di lingua italiana che, di conseguenza, sono diventati stranieri in Patria, peggio che metechi. Basti pensare alla scellerata ‘proporzionale etnica’ che riduce al minimo la presenza del cittadino di lingua italiana nel pubblico impiego a favore di quello di lingua tedesca che può farne a meno essendo ricco di suo come facoltoso proprietario terriero.

10) Mi piacerebbe capire meglio l'origine dei Ladini. Puoi dirci qualcosa in più su di loro e sulla loro parlata?

I ladini non si differenziano sostanzialmente dagli altri italofoni e neanche fra loro di valle in valle. Paradossalmente nella valle di Fassa, spaccata in due per secoli da una gigantesca frana, i fassani del sud intendono la parlata veneto-trentina dell’attigua val di Fiemme assai meglio che il dialetto dei fassani del nord. Questo perché in ognuno dei due spezzoni vallivi il dialetto per secoli si è evoluto per conto suo.
Notare infine che il fondo lessicale del ladino atesino si differenzia assai poco da quello veneto-trentino (friulano, fassano e ampezzano) e non molto dalle varietà veneto-tridentine (fiammazzo, anaune, valsuganotto). Anzi, il plurale sigmatico latino ereditato dalle tre citate varietà ladine fuori del territorio atesi-no sopravvive solo nel gardenese. Tutto qui.

11) Nei tuoi studi ti sei per forza di cose imbattuto anche nelle popolazioni retiche – cui dedicasti, fra l'altro, due corposi volumi intitolati “La lingua dei Reti”. Quanto la loro arcaica lingua ha inciso sulla toponomastica del territorio?

Stranamente la lingua dei Reti - che ha vaghe affinità con l’etrusco - per quanto mi risulta da una indagine molto sommaria, non ha riscontri sicuri nella toponomastica e nemmeno negli attuali dialetti dell’area retica.


Statuina retica, dal Museo di Sanzeno


12) In conclusione, come pensi possa esser sanata la difficile situazione venutasi a creare in Alto Adige nel corso degli anni?

Semplicemente con un nuovo Statuto che non discrimini il gruppo linguistico minoritario che, secondo la morale di chi ha imposto il vecchio, ha l’imperdonabile torto di essere italiano in Italia. 

venerdì 7 aprile 2017

IL CASO DEL POMODORO DA INDUSTRIA


Mentre l'opinione pubblica nazionale era impegnata a disquisire sulle dinamiche interne al Partito Democratico o a discutere per ore ed ore su sterili scandali scaturiti all'interno degli sciatti programmi della “televisione pubblica”, il 7 marzo veniva stilato, nel silenzio dei più, l'accordo sul prezzo del pomodoro da industria del Nord Italia per l'anno corrente. Un prezzo che, nell'arco di un anno, è calato del 15% passando dai 92,00 € a tonnellata agli odierni 79,75 €/ton. Alla stipula dell'accordo hanno provveduto le Organizzazioni dei Produttori (una nuova forma di aggregazione di aziende agricole in forma cooperativa o associativa) e i rappresentanti delle Industrie conserviere. Un accordo che però, visti i forti risentimenti dei coltivatori, non deve esser maturato a parità di peso tra le due parti in causa. O le Organizzazioni dei Produttori non sono state capaci di fare gli interesse dei propri soci oppure, e sarebbe cosa ben peggiore, dietro tutto c'è qualche giochino sporco. Non a caso nel Resto del Carlino ( leggi QUI, parte finale) si è evidenziato come ai vertici amministrativi delle OP, spesso e volentieri, siano piazzati uomini graditi alle cosiddette associazioni di categoria (Cia, Coldiretti, Confagricoltura), le quali sono sempre pronte a fare le barricate - si ma di parole - mentre nei fatti cucinano queste magnifiche frittate, facendo poi rumore per ripulirsi la coscienza. Ci azzardiamo allora a pensare che questi vertici non solo siano graditi ai sindacati agricoli, ma forse anche alla controparte industriale. Sono nostre personali riflessioni, ma il sospetto c'è. Inoltre, guarda caso, le OP risultano molto gradite all'Unione Europea, la quale definisce queste organizzazioni “strutture di democrazia economia”, puntando molto sul loro incremento non solo nel comparto orto-frutticolo, ma anche negli altri settori agricoli. Lo scopo sarebbe quello di permettere al mondo della produzione di affrontare il mercato con maggiore forza contrattuale, non solo nei confronti della grande distribuzione e dell'industria di trasformazione, ma anche nell'ottica di creare ed aprire nuovi canali di distribuzione e vendita (filiera corta, punti vendita diretti etc etc). E per incentivare la loro creazione e il loro sviluppo l'UE garantisce finanziamenti. Per le OP orto-frutticole, come nel caso del pomodoro da industria, sono previsti contributi a fondo perduto pari al 4,1% del fatturato, a cui è possibile sommare un ulteriore contributo dello 0,5% sullo stesso fatturato in caso di situazioni critiche del mercato. Queste percentuali, però, devono essere pari al 50% delle spese sostenute. Ovvero sia, una OP che fattura 3.000.000 di euro ha diritto a 123.000 € di contributi a fondo perduto, ma solo a fronte di una spesa superiore di almeno il doppio del contributo stesso, quindi 246.000 €. Tante belle parole, tanti bei propositi, ma nei fatti dov'è questa forza contrattuale? Dov'è questa capacità di permettere un evolversi ed un espandersi delle aziende agricole? Dov'è la reale partecipazione alle scelte gestionali e strategiche delle OP da parte dei soci-agricoltori? A noi sembra invece uno degli ennesimi sistemi tesi a drogare il mercato e ad attirare profittatori d'ogni risma, che all'interno di queste strutture crescono e proliferano sulle spalle dei produttori. Un sistema che strangola, ma al contempo blandisce, rendendo le vittime complici della propria stessa lenta ed inesorabile fine. Certamente, ritornando sul prezzo del pomodoro, bisogna tener conto del fatto che l'eccessiva produzione dell'anno precedente e una considerevole rimanenza di prodotto nei magazzini, uniti agli andamenti dei mercati internazionali, hanno sicuramente influito sulla determinazione di questo prezzo al ribasso. Ma resta il fatto che ancora una volta gli agricoltori siano costretti a tirare la cinghia e a pagare le conseguenze peggiori. E qui stiamo parlando di un comparto produttivo che investe, soltanto in Italia, tra pianura padana, maremma toscana e laziale e vaste aree del meridione, una cifra che si aggira attorno ai 60-70.000 ettari all'anno e vale alcuni miliardi di euro di fatturato. Stiamo parlando di aziende agricole altamente specializzate e tecnologizzate, che nel corso del tempo hanno investito molto su innovazione e ricerca, rappresentando oggi un fiore all'occhiello della nostra agricoltura. Stiamo parlando di una coltivazione a cui è legato un comparto industriale di trasformazione capace da solo, di produrre più del 50% delle passate, dei pelati, dei concentrati di tutta Europa e di garantire lavoro a migliaia e migliaia di addetti. Senza considerare che di pomodoro da industria, udite udite, siamo i secondi produttori mondiali, superati soltanto dagli Stati Uniti che in California ne producono più di 11 milioni di tonnellate di contro ai nostri 5,2 milioni, e superiori, seppur di poco, all'immensa Cina, dalla quale però continuiamo ad importare circa 70 milioni di chili di concentrato per l'industria conserviera. L'ennesima assurdità del sistema italiano che, anche quando è ai massimi livelli produttivi su scala mondiale, continua ad importare un prodotto di scarsa qualità e di scarsa sicurezza (ricordiamo a tutti che il gigante asiatico detiene il primato mondiale per numero di notifiche su prodotti alimentari irregolari), con la scusa di lavorarlo ed esportarlo all'estero – principalmente sul mercato africano, incapace di sostenere i prezzi dell'alta eccellenza italiana. Ma forse lor signori non si rendono conto di recare così un inestimabile danno alla nostra produzione? Forse sono ignari che questi giochetti commerciali alla lunga andranno a discapito anche di loro stessi e che tirando ognuno l'acqua al proprio mulino, finisce sempre che a qualcuno poi questa mancherà? Inceppatasi una macina, a catena ne seguiranno altre ed altre ancora. E le prime a seguire i coltivatori saranno proprio quelle industrie conserviere che sono nate, cresciute e si sono fatte grandi sui nostri territori, attorno ai nostri campi, a fianco dei nostri contadini. Anche se, ad onor del vero, l'industria può sempre trovare la scappatoia della delocalizzazione, mentre l'agricoltore no. Tutto questo mentre non solo viene fissato un prezzo a dir poco ridicolo, ma si determina pure un tetto produttivo – per il Nord Italia non superiore a 1,7 milioni di tonnellate – superato il quale scatteranno multe di 20 € per tonnellata in più prodotta. Invece d'imporre dazi sulle importazioni, si confezionano multe per chi produce. Lo stesso destino che è toccato anche al nostro riso, surclassato dalle importazioni asiatiche, le quali, grazie alle agevolazioni sui dazi doganali, hanno distrutto il mercato nazionale costringendo i risicoltori italiani ad adeguarsi a prezzi insostenibili. Altro comparto agricolo in cui siamo i primi produttori a livello europeo e che stiamo lasciando scivolare nel baratro, senza un grido, senza nemmeno un fioco lamento.
Ma ci chiediamo noi oggi, di tutta questa eccellenza, di tutti questi primati, che ai politicanti di professione fa tanto comodo sbandierare a destra e a manca, cosa ne vogliamo fare? Mentre noi lasciamo che l'Europa, prona ai diktat delle grandi multinazionali dell'alimentare e degli importatori, assopisca la nostra agricoltura e la fagociti un boccone per volta, ci sono stati come Israele in cui agricoltura fa veramente rima con ricerca ed innovazione; dove nascono centri agricoli nel bel mezzo del deserto i quali, con il supporto di Università e tecnici specializzati, coltivano ortaggi laddove, fino a vent'anni fa, sarebbe stato impensabile farlo. E sapete dove esportano la loro produzione? Proprio in quella Russia a cui abbiamo imposto le nostre ipocrite, meschine e sottomesse sanzioni “umanitarie”. Non serve aggiungere altro. Solo ribadire una volta di più come la costante ricerca di una via sovrana e nazionale sia l'ultima speranza, l'ultimo spiraglio aperto per riprendere un cammino malamente interrotto.

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