Cerca nel blog

sabato 11 marzo 2017

Intervista rurale. La voce di un agricoltore

Dopo il nostro primo articolo riguardante l'agricoltura nazionale (L'ultima ruota del carro: l'Agricoltura italiana), in cui abbiamo esaminato le varie problematiche che la riguardano, proseguiamo il nostro “percorso agrario” pubblicando un'intervista ad un giovane agricoltore locale, con l'obbiettivo non solo di approfondire il discorso intrapreso, ma anche di dar voce ad un vivo protagonista del settore. Un'intervista importante, dove si racconta e si mostra il volto reale del nostro comparto agricolo attraverso gli occhi di un suo protagonista, la cui attività spazia dalla coltivazione orto-frutticola, all'allevamento di bestiame da carne, toccando quasi a 360 gradi le varie branche del settore primario. Non, come ci è recentemente capitato di leggere, di un filologo-contadino (Niccolò, contadino e filologo) che porta avanti l'azienda ereditata dal padre tra una lezione universitaria e l'altra, leggendo passi di Virgilio e beandosi del solerte aiuto di manodopera sub-sahariana. Qui non si parla di agriturismi, di agricoltura sociale per anime belle, né di particolarità gastronomiche, ma della dura realtà dei coltivatori diretti. E lo si fa con parole semplici, ma che pesano e incidono, costringendo tutti quanti ad un amara, ma necessaria, riflessione su di un mondo sommerso che non vuole, non deve, scomparire.

Gruppo di Studio AVSER


INTERVISTA RURALE

LA VOCE DI UN AGRICOLTORE

1) Per prima cosa vorremmo chiederti di presentarci brevemente la vostra azienda?

Siamo un piccola azienda agricola. Gestiamo 13 ettari, di cui 2 ettari di proprietà e gli altri in affitto. Nei terreni di proprietà coltiviamo ortaggi, sia in pieno campo che in serre/tunnel, abbiamo un piccolo frutteto, alcune arnie da cui ricaviamo una piccola produzione di miele e la nuova stalla dove vengono allevati vitelli da ingrasso e maiali. Alleviamo anche animali di bassa corte come polli e conigli. Negli ettari in affitto coltiviamo invece foraggi e cereali per l'alimentazione del bestiame. Titolare dell'azienda agricola è mio padre, come coltivatore diretto, mentre io e mio fratello siamo coadiuvanti familiari.

2) Attraverso quali canali vendete i prodotti dell'azienda?

Abbiamo un piccolo spaccio aziendale in cui effettuiamo la vendita diretta dei nostri prodotti orto-frutticoli, della carne e degli insaccati. Diciamo che è il nostro principale canale di distribuzione, su cui abbiamo puntato molto perché ci garantisce un miglior margine di guadagno. Serviamo anche il vicino mercato orto-frutticolo di Lido di Camaiore (prov. di Lucca) ed un grossista che lavora per la grande distribuzione organizzata. Due canali che ci servono per evitare rimanenze o smistare eccedenze di produzione e di cui usufruiamo soltanto per il reparto orto-frutticolo.

3) Sappiamo che avete fatto alcuni ampliamenti interni, tra cui l'edificazione della nuova stalla per bovini e suini di cui ci parlavi poco prima. Quali e quante sono state le difficoltà incontrate per intraprendere i lavori?

L'idea della nuova stalla è nata a dicembre 2015. Più che altro per rinnovare i ricoveri degli animali, oramai vecchi e scomodi. Le difficoltà sono iniziate subito. Dopo la prima visita in comune per richiedere cosa fosse necessario secondo il piano regolatore per l'avviamento del progetto, sono passati più di due mesi di totale silenzio da parte delle amministrazioni. Allora il nostro geometra si è informato autonomamente presso il P.R.G.C. ed ha poi presentato in via informale un disegno del progetto. Ancora un altro mese di silenzio e a marzo il geometra ha inviato agli uffici preposti il progetto ufficiale. Altri due mesi di silenzio. E siamo già a maggio inoltrato. Quindi passati i sessanta giorni dalle presentazione del progetto questo viene approvato per tacito assenso. Il geometra va così a colloquio con i tecnici del comune, ma dopo poco tempo riceviamo una lettera che c'informa che il progetto non è realizzabile. Il motivo del rifiuto dipendeva dal parere del responsabile dell'ufficio tecnico, secondo cui il piano regolatore nella parte generale prevedeva che la realizzazione dei fabbricati rurali dovesse seguire alcune norme che non erano riportate nella parte specifica del piano per le sotto zone, in cui il territorio comunale è suddiviso. Per i tecnici e il nostro geometra invece il problema non c'era. Per risolvere la questione è stato necessario chiedere il parere di chi aveva scritto il piano regolatore. Dopo circa un mese arriva finalmente il parere positivo. Ma non è ancora possibile dare avvio ai lavori. Ci siamo ritrovati costretti a sollecitare conoscenze all'interno del comune per arrivare ad una conclusione che, tra il caldo e le ferie, è arrivata ad agosto inoltrato. Passati più di otto mesi abbiamo potuto finalmente dare avvio ai lavori di costruzione. Ma per trovare un giusto coordinamento tra muratori, ingeneri, fabbri etc etc il lavoro si è dilungato oltre. Soltanto poco prima del natale 2016 siamo riusciti a concludere la stalla.

4) Per quale motivo avete usufruito degli incentivi messi a disposizione dal piano di sviluppo rurale (P.S.R.)?

Abbiamo scelto di non usufruire di piani di miglioramento aziendali o contributi vari per alcuni motivi. Per prima cosa i bovini avrebbero dovuto occupare almeno il 30% del reddito aziendale. Ma essendo la nostra un'azienda agricola multifunzionale, in cui le colture orticole prevalgono, questo non sarebbe stato possibile. Il sindacato ci consigliò allora di dividere l'azienda: una esclusivamente zootecnica, l'altra orto-frutticola. Questo ci avrebbe permesso di usufruire dei contributi, creando però altri notevoli problemi. Per esempio lo spaccio aziendale avrebbe dovuto esser intestato ad una delle due aziende. L'altra azienda sarebbe stata così obbligata a fatturare i suoi prodotti a quella con lo spaccio per poterli vendere al pubblico. Questo avrebbe generato un'enorme complicazione interna, senza contare che avremmo dovuto tenere una doppia amministrazione contabile e altro ancora. Ma quello che ci ha frenato di più è il fatto di essere troppo vincolati. Avremmo dovuto mantenere gli standard richiesti per almeno 5 anni; non solo allevare bovini senza poter cambiare produzione ma anche aumentarne il numero. Sarebbe stato un rischio troppo grande per una piccola azienda. Avremmo inoltre dovuto rispettare una tabella di marcia per la realizzazione dei miglioramenti fondiari, ma anche qui il rischio era alto vista la velocità di rilascio di permessi e autorizzazioni. Rischiavamo di vederci sospendere il finanziamento alla prima infrazione e di metterci nei guai con le banche visto che sono loro che li erogano. È il solito modo di far lavorare le banche e la finanza sulle nostre spalle e di metterti nella condizione in cui, in sostanza, non sei più il direttore della tua azienda.

5) A vostro parere, quali sono i fattori che rallentano e rendono più difficoltoso lo svolgimento della vostra attività?

Sicuramente l'incompetenza. E parlo sia di chi fa le leggi che di chi controlla che vengano rispettate. Le norme sono troppo interpretabili. Gli organi di controllo da una provincia all'altra fanno applicare in modo diverso le stesse leggi e addirittura all'interno degli organi stessi vi sono persone che le interpretano, tante volte, in modo soggettivo. Senza contare che la tendenza è quella di obbligare il cittadino a farsi carico di compiti che prima erano di competenza degli enti pubblici. E questa non è responsabilizzazione, ma un altro carico sulle nostre spalle. Un peso che porta via tempo e concentrazione a discapito del nostro lavoro. Per un'azienda come la nostra i piani di autocontrollo, i quaderni di campagna, i registri di carico e scarico, i moduli del bestiame e del macello... ci caricano di responsabilità senza poi ottenere nessun vantaggio. Alla fine ci ritroviamo a compilare una marea di fogli, a cercare di far quadrare il tutto a tavolino per evitare sanzioni e per accontentare chi ci controlla, invece di curare le coltivazioni o il bestiame. Perché purtroppo la realtà è che se vuoi rispettare tutte le regole imposte, finisci per non lavorare, tanto in agricoltura quanto nelle altre realtà lavorative. Secondo me l'incompetenza, l'eccessiva burocrazia e gli eccessivi oneri a carico di chi lavora sono il cancro del nostro sistema produttivo.


6) Si parla tanto dei giovani in agricoltura. Tu che fai parte di questa categoria consiglieresti ad un tuo coetaneo d'intraprendere la vita dell'agricoltore?

Partendo dal niente no. Se non hai una solida base economica o un'attività già strutturata è veramente difficile intraprendere la vita dell'agricoltore, visti anche e soprattutto i risicati margini di guadagno. Senza contare, come dicevo, di tutte le responsabilità che ricadono su di noi e specialmente per chi lavora nel settore dell'alimentazione umana. Poi bisogna tener conto che se non hai una innata passione e non sei disposto a lavorare dalla mattina alla sera, senza domeniche, senza straordinari, senza ferie, è difficile riuscire ad ottenere qualche risultato. L'agricoltura non è per tutti e richiede una certa capacità imprenditoriale, attenzione nelle spese, negli investimenti, soprattutto oggi con il mercato che cambia così velocemente e una dedizione ed uno spirito di sacrificio non comuni.

7) Secondo il tuo punto di vista cosa andrebbe cambiato per ridare slancio all'agricoltura italiana?

Per prima cosa lasciarci lavorare. Il nostro lavoro richiede tempo e cure. Non possiamo perderci troppo dietro valanghe di scartoffie. È giusto che il consumatore sia tutelato, ma a questo dovrebbero pensare lo stato e gli enti preposti. Questo carico non può gravare troppo sull'agricoltore. Poi non è solo un fatto di tempo ma anche di costi: analisi, controlli, consulenze, precauzioni incidono sulle spese. Senza contare che il mercato comunitario ci ha letteralmente ammazzato: è un'assurdità che all'interno della stessa comunità europea ci si faccia una simile concorrenza sleale. Com'è possibile che bovini da ingrasso comprati in Francia, allevati in Spagna e macellati in Italia costino meno di quelli nati, allevati e macellati in Italia? Sarebbe necessaria una migliore regolamentazione del mercato comunitario e una più forte presa di posizione da parte del nostro governo per tutelare gli interessi italiani. In Francia, viaggiando, ho visto una realtà agricola molto simile a quella italiana di qualche decennio fa, fatta di piccole aziende che allevano anche pochi capi di bestiame, quasi a livello amatoriale e che tuttavia riescono ad ottenere pur sempre dei margini di guadagno. Ed è ancora possibile incontrare le figure dei mediatori che hanno a cuore la tutela del mercato interno, i quali si guardano bene dall'abbassare troppo i prezzi, non solo per non rovinare così la propria clientela, ma un intero indotto economico.


mercoledì 1 marzo 2017

L'ultima ruota del carro: l'Agricoltura italiana.


Demetra/Cerere, divinità della terra coltivata.

Recentemente stiamo assistendo ad una inversione di tendenza rispetto a quanto accadeva nei decenni passati: molti giovani stanno pensando di ritornare all’agricoltura. Sicuramente uno dei validi motivi è quello ambientale: l’aria aperta, la natura e i suoi prodotti, il susseguirsi delle stagioni appaiono senz’altro una buona alternativa a molti lavori al chiuso, ripetitivi, spesso esclusivamente intellettuali.
Inoltre, complice la difficoltà a trovare lavoro in altri settori, l'agricoltura risulta, di primo acchito, una valida alternativa a impieghi temporanei o insicuri.
Al tutto si aggiungono i mezzi di informazione, i quali forniscono visioni dell’agricoltura quasi “idilliache”, tutte rose e fiori, ma che purtroppo non corrispondono alla realtà. Trasmissioni tipo “Linea Verde” costruiscono l'immagine di un’agricoltura di élite fatta di eccellenze IGP, DOP, DOC, eco-sostenibile, biologica, biodinamica, giovane, attiva e tante altre belle parole. Un racconto attraente, ma a dir poco fuorviante. Queste trasmissioni, infatti, non ci raccontano tutta quella parte di agricoltura tradizionale, che è poi la maggioranza, immersa in una legislatura concepita a Bruxelles e presa e messa lì dallo stato italiano, il quale poi scarica sulle regioni il compito di dirimere l'intricata matassa burocratica, con il risultato di creare la più totale confusione tra enti ed agricoltori; non ci parlano di un'agricoltura dove i costi delle materie prime e dei combustibili sono esorbitanti e la concorrenza da parte di paesi esteri è a dir poco spietata; e men che meno testimoniano l'inerzia del governo di fronte alle reali difficoltà del comparto agricolo. Di contro a questa “favola imbellettata” dell'agricoltura italiana, si pone tutt'altra storia.

Olivi abbattuti, a causa della Xylella, per ordine di Bruxelles.

Più che in altri settori, l'agricoltura risente dell'ingombrante presenza dell'Unione Europea, madre di una legislazione puramente teorica, ai limiti dell'assurdo, creata spesso con l'intento di dar vita ad un mostro burocratico che costringe gli agricoltori ad un continuo adeguamento spesso impossibile, poiché molto costoso, contrastante con altre norme o addirittura materialmente impraticabile (ma assolutamente sanzionabile!). Inoltre, l'eccessiva burocrazia toglie tempo materiale e risorse ai lavori agricoli costringendo gli agricoltori stessi ad impegnarsi in prima persona in mansioni che non gli competono. Siamo abituati a vedere il lavoro compreso nelle canoniche 8 ore, ma spesso si dimentica che in agricoltura non ci sono orari, ferie, domeniche o festività: i lavori agricoli assorbono per intero la giornata, specialmente nei casi dei piccoli coltivatori, nella maggior parte impossibilitati a garantirsi manodopera salariata e perciò costretti a fare salti mortali per adempiere a tutte le prassi richieste. Come dicevamo, in contrapposizione alla preponderanza delle politiche comunitarie c'è l'inconsistenza del nostro ministero, dal 1993 sempre più declassato e svuotato di competenze, rinominato cento e più volte, retto quasi sempre da avvocati o politologi e ridotto ad occuparsi più di “marketing” che di agricoltura.
Un quadro che va a peggiorare ulteriormente le già difficili condizioni in cui sono costretti ad operare gli agricoltori.
Infatti, si tende troppe volte a dimenticare che, rispetto ad altri settori, l’agricoltura è soggetta ad un rischio d'impresa molto alto, poiché il buon risultato di una coltura dipende, oltre alle capacità dell’agricoltore, anche dall'imprevedibilità del tempo meteorologico, dall’andamento stagionale, da attacchi di patogeni ecc. Basta una semplice grandinata o l'arrivo un nuovo insetto per mettere in ginocchio un'azienda.

Esemplare di Cimice Asiatica, insetto che sta mettendo
in seria difficoltà la frutticoltura italiana. 

Chi in Italia volesse cimentarsi nell’apertura di una azienda agricola, con lo scopo di dare sussistenza a sé ed alla propria famiglia, spesso non ha la benché minima idea di quello a cui sta andando incontro.
Come già detto l’impresa agricola è prima di tutto un’azienda che ha oneri, vincoli, adempimenti fiscali e burocratici come ogni altra azienda di qualsiasi altro settore. È inutile fantasticare su un'agricoltura di auto-sussistenza, dove si produce ciò che è necessario per il proprio fabbisogno, svincolati dal mercato. La realtà è diversa: oggi si produce per vendere e per ottenere un reddito. Tutto il resto sono chiacchiere! Anche ipotizzando un eventuale cambiamento di rotta rispetto all'andamento attuale, le dinamiche produttive e commerciali sono comunque mutate nel comparto agricolo, che non è rimasto ancorato a sistemi alto medioevali, ma è anch'esso figlio della rivoluzione industriale. Per questo è inutile che le associazioni di categoria, in linea con i dettami ministeriali, si spendano nella tutela delle nostre eccellenze agro-alimentari – spesso e volentieri prodotte con materie prime estere - ma restino sostanzialmente mute riguardo alle vere battaglie da combattere. A che serve difendere il salamino di una sperduta valle alpina senza che esista una strategia di tutela di tutta l'agricoltura a livello nazionale? Praticamente a niente! È un po' come lamentava a suo tempo il nostro Ferruccio Bravi riguardo i dialetti e la lingua nazionale: non si salvano quelli se non ci si prende adeguatamente cura dell'altra.
Perché non si punta piuttosto ad ottenere un'adeguata politica di regolamentazione dei prezzi di mercato?
Perché non viene valorizzata la domanda interna della nostra produzione agricola e si permette invece l'arrivo di enormi quantità di prodotti esteri che hanno la capacità di abbassare ulteriormente i prezzi delle materie prime?
Perché si eliminano i dazi doganali con alcuni paesi ma si accettano embarghi verso altri, storicamente nostri partner commerciali, rimanendo due volte fregati?
Evidentemente le politiche commerciali sono volte a “favorire” il settore secondario e terziario a discapito del primario, costretto a calarsi le braghe di fronte all'imposizione di prezzi dettate da industrie di trasformazione e grande distribuzione organizzata che con l'apertura dei mercati internazionali hanno trovato la strada spianata per il loro gioco a ribasso.
A quanto pare, ma ormai dovrebbe esser evidente, non siamo padroni a casa nostra. È anzi precipuo dovere assecondare il volere di altre nazioni, anche a nostro discapito (vedi le sanzioni alla Russia, dettate all'Unione Europea dal nostro storico “alleato” d'oltre oceano, rivelatesi un'ingente perdita di miliardi ricaduta sulla pelle dei nostri coltivatori).
È necessario allora far capire ai più quanto sia difficile per un'azienda agricola, al giorno d'oggi, ottenere non solo un reddito non solo sufficiente al sostentamento della propria famiglia, ma anche capace di garantire previsioni di sviluppo e miglioramento. Perciò abbiamo deciso di stilare un bilancio aziendale, prendendo a riferimento il caso di un'azienda agricola di piccole-medie dimensioni (30 ettari), dotata di casa colonica e fabbricato rurale (ricovero macchine) che produce, per semplicità, soltanto mais. Trattasi di un bilancio esemplificativo (è difficile trovare oggi un'azienda di 30 ettari che produce solo e soltanto mais), ma che rispecchia abbastanza fedelmente la realtà del mercato agricolo odierno.
Analizzeremo dapprima i ricavi che si possono ottenere dalla coltura. Da questi sottrarremo tutti i costi di produzione necessari a completare il ciclo colturale per ottenere il reddito netto della coltura (quindi la nuova ricchezza prodotta attraverso il lavoro).


RICAVI
Un ettaro irriguo produce mediamente 12000 Kg di granella di mais. Considerando il prezzo medio per Kg di granella essiccata di 0,15 € si ottengono:

12000 Kg * 30 ha * 0,15 €/Kg = 54000,00 €
a questi vanno sommati i contributi elargiti dall'Unione Europea a sostegno del settore agricolo:

Contributi PAC = 250 €/ha * 30 ha = 7500,00 €

Totale ricavi = 54000+7500 = 61500 €

COSTI

Le spese riguardano l'acquisto di tutti i fattori produttivi necessari alla coltivazione ed alla gestione del fondo per l'intero ciclo colturale: le quote di ammortamento (spese da accantonare annualmente per poter riacquistare mezzi meccanici e fabbricati) e le spese varie (spesa per l'acquisto dei prodotti necessari alla coltivazione del mais).
  1. Quote di ammortamento:
Si calcola dividendo il valore a nuovo del macchinario per la sua durata stimata:
Macchinario
Valore €
Durata stimata anni
Quota ammortamento
Trattore 120 CV
50.000,00
15
3.333,00
Erpice a dischi
7.000,00
15
467,00
Aratro 4 vomeri voltaorecchi
22.000,00
15
1.467,00
Seminatrice di precisione
18.000,00
10
1.800,00
Botte per trattamenti
7.500,00
10
750,00
sarchiatrice
6.000,00
10
600,00
Spandiconcime
6.000,00
10
600,00
Estirpatore
3.000,00
15
200,00
Botte gasolio
1.000,00
15
67,00
Rotolone e impianto di irrigazione
20.000,00
10
2.000,00
Mezzo aziendale
20.000,00
15
1.333,00
Attr. varia
5.000,00
10
500,00
Totale valore €
175.500,00
Totale quote €
13117 €/anno






A queste si devono aggiungere le spese di manutenzione ordinaria che incidono circa il 4,5 % del valore a nuovo:

175500 * 4,5% = 7898€/anno,

e le quote di ammortamento e manutenzione dei fabbricati:
per il calcolo si considera un valore a nuovo di 100000 € per la casa colonica e 50000 € per il fabbricato rurale : le quote di ammortamento e manutenzione incidono per circa l' 1 % all'anno:

150000 * 1% = 1500 €/anno

TOTALE QUOTE : 13117+ 7898 + 1500 = 22515 €/anno.

SPESE VARIE : riguardano l'acquisto di tutti i fattori produttivi, dalla semina alla raccolta, necessari a realizzare la produzione.






Concimi




18-46
200 Kg/ha
30 ha
0,45 €/Kg
2.700,00
Urea
150
30 ha
0,35 €/Kg
1.575,00
Semente




Seme mais
3 conf/ ha
30 ha
60 €/conf.
5.400,00
Fitofarmaci




Diserbante in preemergenza

30 ha
50 €/ha
1.500,00
Diserbante in postemergenza

30 ha
40 €/ha
1.200,00
Insetticidi

30 ha
25 €/ha
750,00
Operazioni meccaniche




Mietitrebbia
0,02 €/Kg
30 ha
12000 Kg
7.200,00
Essiccazione
0,025 €/Kg
30 ha
12000 Kg
9.000,00
Varie




Gasolio
40 €/ha
30 ha

1.200,00
Contributi previdenziali



3.000,00
consulenze



4.000,00
TOTALE



37.525,00






REDDITO = 61500 - (22515+ 37525) = 1.460 €

Nonostante il bilancio risulti positivo, la cifra è a dir poco irrisoria per il sostentamento annuo di una famiglia o per fare eventuali investimenti aziendali. Si può notare che i margini di guadagno sono molto bassi e lo sono perché originati da una discrepanza strutturale per cui le aziende agricole utilizzano mezzi di produzione industriali, ad alto costo, per ottenere prodotti agricoli, a bassissimo prezzo. Ed è per tale motivo che se qualcuno volesse cimentarsi a modificare il bilancio noterà la maggiore incidenza, in senso positivo, di qualche centesimo in più sul prezzo del mais rispetto ad un qualsiasi calo della pressione fiscale – di per sé già bassa per le aziende agricole. Ma non sia mai! Si preferisce piuttosto erogare alle aziende pseudo-contributi o – è notizia fresca fresca – spingerle a stilare polizze assicurative agevolate sui ricavi del grano (se il reddito di un ettaro è troppo basso, l'assicurazione compensa la perdita del cliente in base a delle medie triennali). Tutti sistemi tesi a far lavorare banche e assicurazioni, col beneplacito dello Stato, a discapito dei produttori, oramai “drogati” di assistenzialismo ed incapaci di reggersi in piedi da soli.
Di questo passo, però, non c'è via di scampo. L'agricoltura italiana verrà lentamente spazzata via. Resisteranno forse alcuni comparti di essa – oleario ed enologico – gestiti da grosse società e tesi ad una produzione di nicchia, volta a soddisfare raffinati palati esteri dai portafogli gonfi e pronti a spender fior di quattrini per soddisfare le proprie “biologiche” voglie. Il settore orto-frutticolo stenta più che mai; per non parlare dei cereali e dell'allevamento. Sembra destinata ad un miserrimo tramonto l'era dei Coltivatori Diretti quando, sull'onda scaturita dal Fascismo (le bonifiche dell'agro pontino, l'assalto al latifondo, il forte incentivo alla ricerca etc etc), la Democrazia Cristiana cavalcò l'epopea della piccola proprietà coltivatrice. Ricordi del passato. Domina oggi un permanente stato di solitudine e abbandono tra gli agricoltori, relegati ad ultima ruota di un carro destinato allo sfacelo.



Questa assenza di un sentimento comune e condiviso è presente in tutta l'economia italiana, ma tanto più forte si fa sentire tra i contadini. Lo Stato ha rinunciato al suo ruolo di pastore e si è fatto cane. Non guida, non indica la strada, ma esegue comandi, morde e tiene nei ranghi. Manca totalmente una strategia condivisa, uno sguardo volto al futuro ed è quanto di più grave si possa immaginare. Soprattutto oggi in cui il mondo si evolve e cambia con una rapidità impressionante. La ricerca scientifica e la tecnologia fanno passi da gigante ed aprono scenari fino a qualche decennio fa impensabili. Uno Stato serio, uno stato con la S maiuscola, dovrebbe capire queste cose e avere gli strumenti adatti a leggere l'evolversi dell'economia su scala internazionale ed operare di conseguenza delle scelte, prendendo decisioni in materia. Dovrebbe esser capace di fare leva sulle Università incentivando ricerca, studio e sviluppo, invece di lasciare che siano le multinazionali del settore agricolo ad incentivare e poi usufruire dei risultati ottenuti dai nostri pur sempre validi atenei. Prendiamo ad esempio gli OGM. Senza entrare nei particolari e nei tecnicismi, se ne è fatto un gran parlare, con orde di giornali e giornalisti a farsi in quattro per difenderli o condannarli a spada tratta. Ma non avremmo dovuto forse soffermarci con più serietà e rigore scientifico al riguardo, analizzando l'andamento internazionale in materia e fare saggi, prove, sperimentazioni, prima di metterli definitivamente al bando? Perché è inutile negare ai nostri coltivatori la possibilità di seminare mais geneticamente modificato, se poi non si difende la nostra specificità, non la si fa pesare adeguatamente sui mercati e non la s'incentiva. S'importano bensì tonnellate e tonnellate di mais OGM, brevettato all'estero, ottenendo il semplice risultato di distruggere il nostro mercato interno. Che senso ha tutto questo? La Russia, per esempio, si è opposta alla coltivazione di varietà OGM, ma ha posto dazi sulle importazioni, ha coscientemente difeso i propri produttori, non li ha lasciati in balia di una concorrenza spietata. Si è posta un obbiettivo, ha messo in atto una strategia.
È necessario quindi che lo Stato torni a considerare l'agricoltura come un settore da rivitalizzare e non un malato da mantenere in vita, non tanto per una semplice convenienza economica, tenuto conto che rappresenta un settore minoritario rispetto al passato, ma anche guardando al beneficio che il territorio e le genti che vi lavorano ne conseguono. L'agricoltura è uno dei punti di partenza , così come gli altri settori primari, di tutta quella trafila commerciale e produttiva che permette la sussistenza degli altri settori. E non solo: essa rimane pur sempre la radice, l'origine della nostra Civiltà. Il suo valore, alla fine, esula dalle semplice produzione, ma nasconde al suo interno una radice spirituale. Quando un terreno viene abbandonato perché lo Stato fa in modo che non sia più conveniente coltivarlo, non si perde solamente un po' di produzione agricola, ma se ne va anche una sapienza avita, il rispetto e la salvaguardia del territorio, uno stile di vita che ci appartiene più di ogni altra cosa, forse il vero legame tra uomo e natura, poiché è solo dando alla terra con rispetto che essa frutta.

D'altronde non dimentichiamo che il verbo latino colere, compreso nella parola agricoltura, significa non solo coltivare, ma anche abitare, frequentare, trattare con riguardo, onorare, venerare, osservare e sottende a qualcosa di più profondo ed amplio del semplice lavoro. Per il latino coltivare i campi e venerare gli Déi erano racchiusi nello stesso verbo. Ed ancora oggi, in questo mondo profondamente materialista, l'agricoltura rappresenta uno degli ultimi baluardi spirituali all'interno del mondo del lavoro. Perché l'agricoltore sonda una materia viva, plasma la terra, custodisce e al contempo innova, coniugando in sé l'origine e l'avanguardia, novello e fecondo pioniere di una risorgente Civiltà del Lavoro.

Gruppo di Studio AVSER