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domenica 29 gennaio 2017

L'ALTO ADIGE E' ITALIA III° - L'Alto Adige oggi. Intervista ad Eriprando della Torre.


La Vetta d'Italia, estremo confine a nord della nostra Nazione


1) Prima di tutto vorrei chiederle - visto che alcuni lettori potrebbero non aver idea di cosa stiamo parlando - di ricapitolare i recenti avvenimenti verificatisi in Alto Adige nei confronti degli italiani?

Di importante negli ultimi anni si è accelerato l’attacco alla memoria storica degli italiani altoatesini e il tentativo di, in pratica, eliminare la toponomastica italiana.
Nel primo caso si tratta del percorso inaugurato dalla Svp, con la complicità del Pd, finalizzato al depotenziamento dei cosiddetti “relitti fascisti” – Monumento alla Vittoria e Bassorilievo di piazza del Tribunale in primis – con l’obiettivo di togliere ogni valenza simbolica a tali opere.
Per quanto riguarda la toponomastica, è in corso un attacco gravissimo contro quella italiana. Attacco che tenta di stravolgere persino quanto sancito dallo Statuto di autonomia. Recita infatti l’articolo 101 del Nuovo Statuto d’Autonomia che: «Nella provincia di Bolzano le amministrazioni pubbliche devono usare, nei riguardi dei cittadini di lingua tedesca, anche la toponomastica tedesca, se la legge provinciale ne abbia accertata l’esistenza ed approvata la dizione». Per cui la toponomastica tedesca deve affiancare quella italiana già esistente, che non può essere toccata. Se vogliamo essere pignoli, fino ad oggi, in base al succitato articolo, l’uso ufficiale dei nomi di luogo tedeschi è arbitrario.
Il 16 settembre 2012, il consiglio provinciale altoatesino approvò una Legge, che, introducendo il bislacco criterio dell’“uso” dei nomi di luogo all’interno delle varie comunità comprensoriali, avrebbe, in pratica, cancellato l’obbligo del bilinguismo. Il Governo contestò, per palese incostituzionalità, tale Legge, depositando, il 4 dicembre 2012, presso la cancelleria della Consulta, un’impugnazione doviziosamente motivata, poi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 16 gennaio 2013.
La Corte Costituzionale fissò l’udienza relativa al ricorso governativo per l’8 ottobre del 2013. Il 31 agosto dello stesso 2013, fu siglato un accordo tra il presidente della Giunta provinciale altoatesina, Durnwalder, ed il Ministro per gli Affari regionali, Delrio; anch’esso con chiara impronta anticostituzionale, poiché vi era contemplata l’eliminazione di 132 toponimi italiani. In seguito a questa intesa, il 26 settembre, il Governo chiese alla Consulta di rinviare la discussione inerente alla propria oppugnazione, in attesa di una modifica della Legge provinciale.
Prima della eventuale modifica, la commissione dei sei iniziò una discussione per elaborare una norma di attuazione sulla toponomastica. Quindi ci fu un nuovo rinvio della decisione della Corte Costituzionale.
L’Accademia della Crusca e 48 docenti universitari lanciarono un appello al Presidente della Repubblica, Mattarella, e al Governo. In questo appello viene manifestata la preoccupazione dei cattedratici per una norma di attuazione, e relativa legge provinciale: «che prefigura la messa in discussione del pieno diritto dei cittadini italiani di riconoscersi, utilizzare e tramandare il proprio ricco e vasto patrimonio di migliaia di nomi di luogo in lingua italiana in Alto Adige, così come hanno fatto finora e per decenni. Tale norma di attuazione violerebbe gravemente i principi della Costituzione e l'obbligo del bilinguismo italiano-tedesco sancito da leggi costituzionali, da sentenze della Corte costituzionale e dall’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946. Un Accordo che è alla fonte dell'autonomia speciale in Alto Adige, basata sul principio di assoluta e inderogabile parità linguistica fra i gruppi conviventi». Il testo prosegue ricordando che «lo Statuto di autonomia altoatesino definisce con chiarezza il quadro normativo entro cui riconoscere la potestà legislativa provinciale sulla toponomastica, ossia “fermo restando l’obbligo della bilinguità nel territorio della Provincia di Bolzano”».
Il Quirinale è intervenuto affermando che: «Vuole chiarezza» e quindi il lavoro della commissione dei sei è stato sospeso in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. La crisi di Governo procrastinerà ulteriormente la fine dei lavori della commissione dei sei. Staremo a vedere.


L'attivista Eva Klotz, insieme ad altri militanti "sudtirolesi", 
con alle spalle un cartello recitante in tedesco: 
"Sud-Tirolo non è Italia".
Cartelli identici - ma scritti in italiano -  
sono stati recentemente affissi a Roma.


2) Perché un tale inasprirsi dei toni e, soprattutto, quale ritiene sia l'origine di una tale accelerazione da parte dei partiti autonomisti?

A parte le sparate di qualche esaltato, non vedo un inasprirsi di toni e pretese, ma, da parte della Svp, il coerente e tenace perseguimento del proprio progetto che si rifà a quanto approvato dal “Deutscher Verband” nella riunione di Vipiteno della Dieta tirolese del 1918; ribadito da una delegazione di altoatesini di lingua tedesca ricevuta dal Governo italiano nel 1920; ripreso
dei rappresentanti volksparteisti a Parigi durante i colloqui che portarono all’ “Accordo Degasperi-Gruber”; riproposto con il progetto di legge d’autonomia esclusiva regionale presentato dalla SVP nel 1958 al Senato e nel 1959 alla Camera (con cui la Svp chiedeva la competenza assoluta nel campo della scuola, dell’edilizia popolare, degli organi per l’assegnazione dei lavori e degli impieghi, della pubblica sicurezza, delle strutture di risparmio e di credito e dei segretari comunali. Inoltre reclamava che i provvedimenti legislativi regionali non avrebbero dovuto essere sottoposti ad approvazione governativa. Fu tra l’altro richiesto per il Presidente della Giunta regionale la prerogativa della responsabilità sull’ordine pubblico, da attuare con l’aiuto dei reparti della Polizia statale «che dipendono disciplinatamente da lui per quanto riguarda l’impiego», e con l’ausilio di una polizia locale da costituire) e così via via fino ad oggi.


3) Qual è oggi la situazione politica della provincia autonoma di Bolzano? Quali sono i partiti che riscuotono maggior consenso fra la popolazione, tanto dalla parte tedesca quanto da quella italiana?

A livello provinciale, il partito che fa la parte del leone è naturalmente la Svp, che alle ultime elezioni, nel 2013, ha ottenuto il 45% dei suffragi e 17 consiglieri su 35. Sino a qualche anno fa la Svp aveva la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio provinciale, ma ultimamente parte del suo elettorato è stato eroso dai Freiheitlichen che hanno conquistato 6 consiglieri con quasi il 18% dei voti. I Freiheitlichen propugnano lo stato libero del “Sudtirolo” con parità di diritti tra italiani e tedeschi.
Nel campo tirolese vi è anche il Süd-Tiroler Freiheit, il partito secessionista di Eva Klotz, figlia del terrorista Georg, che nel 2013 ha ottenuto tre rappresentanti con il 7,2% dei voti.
Seguono i partiti italiani: il PD con 2 rappresentanti e circa il 6% dei voti e tutta una serie di micopartitini di destra di centro e di sinistra che non hanno ottenuto alcun rappresentante; fatta eccezione per “Alto Adige nel cuore” che ha conquistato un seggio in consiglio provinciale. Se pensiamo che nel 1993 il Movimento Sociale Italiano era il secondo partito della provincia con oltre l’11% dei voti, vediamo come la dirigenza degli ultimi anni abbia distrutto un patrimonio che i fratelli Mitolo erano faticosamente riusciti a costruire in oltre quarant’anni di attività.
Oggi la giunta provinciale è formata dalla Svp e dal Pd, che ha sostituito la Democrazia Cristiana nel fare da sgabellino al partito tirolese.
Per quanto riguarda la situazione nel capoluogo, Bolzano, città a maggioranza italiana, alle ultime elezioni, nel 2016, il Pd con il 20% dei voti e 9 consiglieri comunali è il primo partito e governa assieme alla Svp che ha ottenuto il 17% dei voti e 8 consiglieri. Seguono il Movimento 5 Stelle con 6 consiglieri, la Lega Nord con 5, Uniti per Bolzano (centrodestra) 4, Alleanza per Bolzano (destra) 2, due liste civiche con due rappresentanti ciascuna. È da sottolineare infine l’exploit di Casapound che ha ottenuto quasi il 7% dei suffragi e tre consiglieri. Anche in questo caso il paragone con il Movimento Sociale, o la prima Alleanza Nazionale guidata ancora da Pietro Mitolo, che viaggiava con percentuali attorno al 30%, è impietoso per chi ha preso in mano il partito negli anni a seguire.


I fratelli Andrea e Pietro Mitolo durante un comizio.


4) Vorrei porle anche una domanda sulla comunità Ladina, di cui un tempo si sentiva parlare più spesso e che oggi sembra quasi scomparsa dalla scena. Come si pone di fronte ai recenti avvenimenti? Quali sono i rapporti con la comunità italiana?

La comunità ladina in Alto Adige, con i suoi 20.000 componenti, rappresenta il 4,53% della popolazione totale altoatesina (censimento 2011). I ladini dell’Alto Adige sono concentrati in Val Gardena e in Val Badia.
Nei confronti dei ladini si è sempre operata una politica assimilatrice che dura ancor oggi, soprattutto attraverso le scuole e i mezzi di comunicazione. Quello che la Svp ha sempre ritenuto un diritto essenziale per i “sudtirolesi”, cioè la scuola in madrelingua come fondamentale per la sua stessa esistenza, la stessa Svp ha negato ai ladini, a cui ha pure negato la richiesta di una scuola mistilingue. Lo Statuto autonomistico prevede che nelle scuole ladine metà materie siano insegnate in tedesco e metà in italiano. Il ladino è insegnato per due ore settimanali nella scuola dell’obbligo ed una nella scuola superiore. Nel 1999 la Giunta provinciale altoatesina si è opposta all’elevazione da una a due ore di ladino nella scuola superiore.
Gli stessi insegnati ladini, che in pratica non hanno potuto studiare la loro lingua, non conoscono il ladino.


Donne Ladine posano con i loro costumi tipici


5) Secondo il suo punto di vista esiste attualmente un soggetto politico o un movimento capace di catalizzare il malcontento dei nostri connazionali al fine di rispondere allo strapotere tedesco?

Purtroppo no.

6) E lo Stato, in questa grave situazione, come si sta comportando?

Secondo me si sta barcamenando tra il solito contrattare i tre voti volksparteisti in Parlamento e la necessità di difendere, per lo meno in materia di toponomastica, quanto sancito dallo Statuto e cioè il totale bilinguismo.
Si sente la mancanza di un esperto della situazione altoatesina che possa consigliare il Governo. Ultimamente La Svp ha iniziato a dialogare direttamente con Roma bypassando la comunità italiana altoatesina.
Almeno ai tempi della DC le impetrazioni della Svp venivano mediate dai dirigenti democristiani locali.

7) Credo si possa individuare l'origine degli attuali problemi con la fine del secondo conflitto mondiale. Può spiegarci la situazione geopolitica dell'Alto Adige dopo il 1945?

Dobbiamo ricordare che, al termine del secondo conflitto mondiale, l’Austria mirava a riannettersi l’Alto Adige. Questa speranza inizialmente non era campata in aria, poiché l’Austria godeva delle simpatie di molte Potenze che la volevano leale, indipendente e anche rilevante da un punto di vista territoriale in un’Europa che avrebbe dovuto vedere la Germania smembrata e innocua.
L’Urss, che aveva occupato la capitale austriaca e messo al governo il filocomunista Karl Renner, aveva tutto l’interesse di patrocinare le richieste di Vienna di ottenere l’annessione dell’Alto Adige, al fine di vedere la propria influenza travalicare le Alpi ed incunearsi a sud del Brennero quale pistola puntata alla tempia dell’Occidente.
Da parte sua, viceversa, il Regno Unito voleva un’Austria forte, filo occidentale e non mortificata territorialmente per farne un bastione contro il comunismo. Anche negli Usa vi erano numerose correnti politiche che sostenevano la causa di Vienna.
Per quanto riguarda le mire di Parigi, la Francia aveva l’intenzione di creare uno Stato cuscinetto d’ispirazione cattolica formato dalla Baviera, dal Tirolo austriaco e dall’Alto Adige. Tale progetto fu alla fine bocciato dagli americani.
La speranza di poter vedere l’Alto Adige riunito all’Austria portò la Svp a rifiutare ogni tipo di collaborazione che avesse come fine il raggiungimento di qualsiasi genere di autonomia.
L’eventualità della secessione dell’Alto Adige, però, cozzava pesantemente sia col fatto che l’Italia era già stata eccessivamente penalizzata con la perdita dei territori cuneesi ad occidente e delle terre istriano-dalmate ad oriente sia col fatto che la nascente “guerra fredda” tra Usa e Urss imponeva la necessità di mantenere il baluardo rappresentato dal confine del Brennero in mano italiana, onde evitare possibili aggressioni sovietiche da nord.
Per L’Italia, inoltre, l’Alto Adige rappresentava un indispensabile, e quindi irrinunciabile, bacino di fornitura idroelettrica.

8) Questo complesso quadro generò una serie di “rimpalli” diplomatici tra Roma e Vienna. Quali furono le richieste avanzate da ambo le parti?

Roma cercò di ribaltare la situazione a proprio favore attivando tutti i suoi canali diplomatici per convincere le Potenze vincitrici a rivedere la loro simpatia nei confronti delle rivendicazioni austriache. Inoltre, per convincere gli Alleati, l’Italia manifestò la volontà di concedere ampie tutele alla popolazione di lingua tedesca.
L’Austria però insisteva per riottenere l’Alto Adige. Il Governo provvisorio austriaco formalizzò, per il tramite della Commissione alleata viennese, un appello affinché nel Trattato di Pace con l’Italia fosse inserita una postilla prevedente che la futura appartenenza territoriale del “Sudtirolo” dovesse essere stabilita da un plebiscito.
Un qualsiasi tipo di referendum atto a modificare lo status quo ante in materia di correzioni confinarie ebbe sempre la più netta e totale avversione del Governo romano.
Il 2 marzo del 1946 erano iniziate a Londra, dove si riunirono i sostituti dei Ministri degli Esteri interessati, le discussioni per cercare di definire la questione del confine alpino.
In seguito alle manovre austriache che miravano a privare l’Italia di una parte del suo territorio, il Governo italiano, con una propria memoria consegnata alle Cancellerie degli Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito e Francia, replicò negando la propria disponibilità sia pur solo a discutere di qualsiasi tipo di cessione di suolo patrio, anche se limitato esclusivamente ad esigue rettifiche della linea di confine.
Il Governo di Vienna già alla fine di gennaio del 1946 fece pervenire al Consiglio dei Segretari di Stato una richiesta di sostanziale annessione, altro che minori rettifiche, della provincia di Bolzano, che secondo la proposta avrebbe dovuto essere, in un primo tempo, smilitarizzata e posta sotto il controllo dell’Onu per poi, in un secondo momento ed a seguito di una consultazione popolare, passare sotto l’amministrazione austriaca. Tale soluzione avrebbe concesso alle imprese idroelettriche italiane operanti sul territorio altoatesino uno statuto speciale e l’assicurazione che lo sfruttamento delle ricchezze energetiche prodotte sarebbe stato gestito da società miste italo-austriache. Inoltre, Vienna avrebbe accordato agli italiani, che avessero deciso di rimanere in provincia di Bolzano nonostante il suo passaggio all’Austria, uno speciale status di minoranza tutelata.
Il primo maggio del medesimo anno (1946), a Parigi, i titolari degli Affari Esteri respinsero tale istanza, non ritenendola adeguata al concetto di «minori rettifiche» che le Potenze vincitrici avevano affermato essere disposte a prendere in considerazione. Tale pronunciamento censorio nei confronti della richiesta viennese fu anche conseguenza dei circostanziati ed esaurienti promemoria esibiti dall’Esecutivo italiano in vista della presa di posizione parigina.


Trattati di pace di Parigi, febbraio 1947


9) Ci piacerebbe capire meglio quali furono queste “minori rettifiche” richieste dall'Austria e come rispose in merito il nostro governo?

Rinunciato ad accampare pretese su tutta l’area altoatesina, Vienna si contentò di reclamare le famose «minori rettifiche» alla frontiera con l’Italia.
Con una nota presentata il 10 maggio, esigette l’intera Val Pusteria, la città di Bressanone e una frazione della Val d’Isarco. Il tutto corrispondente ad una superficie complessiva pari al 43% dell’intero territorio e con una popolazione ammontante a circa 75.000 persone. Questa sua richiesta fu giustificata dal fatto che tali zone erano attraversate dalla ferrovia Brennero-Fortezza-San Candido che costituiva l’anello di congiunzione del più ampio collegamento ferroviario tra il Tirolo del nord e quello orientale, interrotto dalla porzione che si estendeva sotto la sovranità italiana.
Il primo giugno del 1946, l’Italia presentò due memorandum addizionali. Nel primo, il memorandum addizionale A, Roma confutò le richieste austriache riguardanti le minori rettifiche di confine. Nel secondo, il memorandum addizionale B furono registrati e minuziosamente descritti tutti i provvedimenti presi dall’Esecutivo Degasperi a tutela del gruppo tedescofono dell’Alto Adige. Fu questo documento a far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore del Bel Paese.
Al punto n. 8 del promemoria, fu sottolineato come il Governo italiano si fosse impegnato per creare una commissione che avrebbe dovuto elaborare un progetto di autonomia e che la Südtiroler Volkspartei, pur essendo stata invitata a parteciparvi con propri rappresentanti, rifiutò di collaborare. Così nella nota italiana fu severamente stigmatizzato il disimpegno volksparteista: «Il Primo Ministro e Ministro per gli Affari Esteri, Alcide Degasperi, incontrò a Roma i leader della “Südtiroler Volkspartei” che invitò ad unirsi alla commissione per l’elaborazione del progetto di autonomia. Dopo qualche esitazione il portavoce tedesco rifiutò, intendendo, evidentemente, con questo mantenere la posizione rigidamente separatista del partito, notoriamente ispirata da propaganda straniera, e che va, ovviamente, a scapito degli interessi della regione che tali portavoce pretendono di rappresentare».
Il 24 giugno del 1946, il plenum dei Ministri degli Esteri, sentite entrambe le parti contendenti, sostenne nuovamente gli assunti del nostro Paese e, dopo aver sollecitato Roma a garantire il traffico austriaco transitante sulla linea in questione, ricusò l’ulteriore rivendicazione austriaca mettendo la parola fine sulle ultime aspettative nutrite da Vienna di mettere le mani sull’Alto Adige.
È in questo contesto, e come una sorta di indennizzo per avere dovuto rinunciare all’Alto Adige, che iniziarono le trattative tra il Ministro degli Esteri italiano Degasperi e il Ministro degli Esteri austriaco per concedere una sostanziale tutela agli altoatesini di lingua tedesca.

10) Sappiamo che sta studiando in maniera approfondita il famigerato accordo Degasperi – Gruber. Può chiarire ai nostri lettori la genesi dell'accordo?

Il 5 settembre del 1946 a Parigi, durante i colloqui di pace, fu redatto un accordo per la salvaguardia dei tirolesi dell’Alto Adige. Accordo che fu firmato dal Presidente del Consiglio italiano Alcide Degasperi, contemporaneamente titolare della Farnesina, e dal Ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber. Il quale, il 30 agosto ancora una settimana prima della storica firma, in un promemoria indirizzato alla Segreteria della Conferenza di Pace, mise le mani avanti per quelle che sarebbero potute essere, ed in effetti furono, le future mosse austriache. In tale nota lo statista d’Oltralpe tra l’altro avvertì che «in mancanza d’accordo il Governo austriaco dovrebbe essere autorizzato ad appellarsi alle Nazioni Unite, che dovrebbero decidere su qualsiasi rilevante divergenza di opinione».
L’Italia non avrebbe, in nessun caso, accettato neppure di iniziare alcun tipo di negoziazione basata sull’ipotesi di modifiche confinarie e avrebbe in tal caso abbandonato le trattative, lasciando i “sudtirolesi” privi di qualsiasi concordato che avesse riconosciuto loro qualunque sorta di tutela.
Rinunciata ogni velleità annessionistica, l’Austria cercò di convincere l’Italia ad accettare un’autonomia esclusiva per la provincia bolzanese, escludendo qualsiasi riferimento ad un possibile allargamento dei confini amministrativi dell’autonomia. Anche su questo punto Degasperi fu irremovibile e le improbe trattative portarono ad un testo d’accordo che nel suo art. 2 previde una formulazione compromissoriamente generica, che sancì come la dimensione di tale autonomia sarebbe stata determinata in seguito, consultando anche i rappresentanti della popolazione tedescofona. Quest’impostazione, non più negoziabile per l’Italia, che stabilì inoltre come l’intera questione fosse un mero atto di politica interna italiana da dirimersi interpellando i dirigenti “sudtirolesi”, fu il massimo che le due diplomazie riuscirono a raggiungere.
Se l’Austria non fu completamente soddisfatta dall’esito delle trattative, avendo dovuto rinunciare prima alle modifiche confinarie e poi ad un’autonomia particolare per il solo Alto Adige, anche Roma ebbe tutte le ragioni per non essere del tutto appagata dalla soluzione trovata. Infatti, l’abbandono delle rivendicazioni territoriali di Vienna, avvenuto di fatto con l’accettazione dell’accordo, non fu statuito con un preciso articolo.
Durante tutta la trattativa furono sempre tenuti al corrente dei fatti i due esponenti “sudtirolesi”, il dott. Otto von Guggenberg e dott. Friedl Volgger che, alla fine, facendo buon viso a cattivo gioco, avallarono l’accordo raggiunto dalle deputazioni italiana ed austriaca, ripromettendosi però di considerare in futuro il contenuto della negoziazione siglata come carta straccia e la sua applicazione da parte italiana in guisa di travisamento e disattesa dell’accordo stesso.


Karl Gruber e Alcide Degasperi


11) Come fu articolato l'accordo? Può sintetizzarne i contenuti?

L’”Accordo Degasperi-Gruber” previde tre articoli.

1) Gli abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano e quelli dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento, godranno di completa uguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana, nel quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca.
In conformità dei provvedimenti legislativi già emanati od emanandi, ai cittadini di lingua tedesca sarà specialmente concesso: a) l’insegnamento primario e secondaria nella loro lingua materna; b) l’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue; c) il diritto di ristabilire i nomi di famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nel corso degli ultimi anni; d) l’eguaglianza di diritti per l’ammissione a pubblici uffici, allo scopo di attuare una più soddisfacente distribuzione degli impieghi tra i due gruppi etnici.

2) Alle popolazioni delle zone sopraddette sarà concesso l’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo autonomo, nell’ambito delle zone stesse. Il quadro nel quale detta autonomia sarà applicata sarà determinato, consultando anche elementi locali rappresentanti la popolazione di lingua tedesca.

3) Il Governo italiano, allo scopo di stabilire relazioni di buon vicinato tra l’Austria e l’Italia, s’impegna dopo essersi consultato.

Le clausole incluse nel primo articolo esprimono quelle facoltà che l’Italia si era impegnata a concedere nel libero esercizio della propria sovranità, quelle del secondo articolo previdero che la loro messa in opera fosse attuata con la consultazione dei rappresentanti degli altoatesini di lingua tedesca, infine le clausole contenute nel terzo articolo riguardano misure di carattere internazionale che il Governo italiano si era impegnato ad adottare dopo aver sentito il Governo austriaco.
Fu dunque prevista la tutela delle caratteristiche linguistiche e culturali dei tirolesi altoatesini e sancita la completa parità con le altre popolazioni conviventi in provincia di Bolzano. Non fu al contrario in nessun modo previsto il ripristino del carattere tedesco del territorio né esplicitato l’ambito territoriale dell’autonomia, se non che tale sfera sarebbe dovuta essere determinata anche con una consultazione dei rappresentanti locali di lingua tedesca.
Analizzando in modo obiettivo il secondo paragrafo di siffatta clausola, ed integrando nella disamina il primo periodo con il secondo, si evince chiaramente come il significato dell’intesa non avesse assolutamente previsto una regione autonoma, ma che la struttura istituzionale dell’autonomia sarebbe stata stabilita solo successivamente.
Più avanti sia l’Austria sia la Svp negli anni a venire riproposero la loro interpretazione del Patto di Parigi che secondo loro avrebbe previsto l’autonomia esclusiva regionale per il solo Alto Adige.
Appare lapalissiano come l’Italia, nonostante la formulazione finale non fosse troppo chiara, come spesso accade in diplomazia, non si era mai sognata d’impegnarsi a limitare l’autonomia al solo Alto Adige, avendo sempre respinto ogni rivendicazione in tal senso. Inoltre, l’equo accordo ottenuto fu ratificato dal Governo austriaco ed approvato dal gotha politico dei “sudtirolesi”. Pertanto la configurazione del primo Statuto d’autonomia fu perfettamente coerente al testo del “Patto di Parigi” e fu il massimo che la popolazione tedescofona dell’Alto Adige potesse attendersi da esso: un’autonomia della provincia altoatesina all’interno dell’autonomia regionale.
I rappresentanti dei “sudtirolesi” accettarono dunque la formula compromissoria regionale-provinciale per l’autonomia altoatesina. Tale compromesso, necessario per non far saltare le trattative, fu aspramente patteggiato durante i colloqui parigini e furono quindi false le accuse che in tempi successivi furono indirizzate al povero Karl Gruber dagli oltranzisti tirolesi, cioè l’addebito di una sua mancata richiesta di un’autonomia esclusiva per l’Alto Adige.
I circoli austriaci più oltranzisti e la Svp si stavano però preparando a violare lo spirito del trattato appena sottoscritto, che per loro fu considerato unicamente un primo piccolo passo verso l’autodecisione. Gruber, pur avendo disatteso le più estreme aspirazioni volksparteiste, il pomeriggio del 4 settembre 1946 convocò l’ambasceria “sudtirolese” per ragguagliarla sull’ineluttabilità del testo dell’accordo raggiunto, sull’impossibilità d’inserire la conciliazione nel Trattato di Pace se non fosse stata tempestivamente ratificata, e soprattutto per tranquillizzarla. Infatti, affermò che la non chiarezza e la difficoltà interpretativa dello scritto avrebbe permesso agli altoatesini in futuro di denunciare l’interpretazione, la lettura e l’applicazione da parte italiana dell’Accordo stesso.
Un Karl Gruber dunque con due facce, una per gli italiani ed una per gli estremisti irredentisti del suo Paese e della Svp.

12) Ritiene che l'accordo Degasperi – Gruber sia all'origine degli attuali contrasti in Alto Adige?

Una delle prime conseguenze dell’Intesa raggiunta fu il rientro degli optanti, molti di loro si erano compromessi con il nazismo alla cui ideologia erano rimasti nostalgicamente legati.
Per quanto riguarda l’origine dei contrasti in Alto Adige, non penso che sia stato l’accordo in sé a generala, ma la fallace interpretazione data sia dai “sudtirolesi” sia dall’Austria e il cedimento dei Governi italiani succedutisi. L’accordo fu in qualche imposto dalle potenze vincitrici in cambio del mantenimento della frontiera al Brennero. Penso che, quindi, l’Italia fu costretta a sottoscriverlo.
Per gli altoatesini di lingua tedesca qualsiasi intesa raggiunta è sempre stato solamente il punto di partenza per ulteriori pretese.
Un avvertimento sul carattere pretenzioso della nomenclatura politica “sudtirolese”, fu lanciato agli italiani già il 12 gennaio del 1946, quando le Grandi potenze non avevano ancora deciso il destino dell’Alto Adige, da Gruber nel corso di una conversazione avuta con il nostro consigliere d’Ambasciata a Vienna Maurilio Coppini. Gruber affermò: «Conosco i miei conterranei, essi sono l’elemento più duro e più tenace della Terra. Quanto maggiore sarà la libertà che loro concederete, tanto più essi ne useranno e ne abuseranno, se volete, per chiedere ed insistere di ritornare a far parte dell’Austria. Tutte le autonomie che voi italiani accorderete loro, con tutta la buona volontà di creare una collaborazione con loro, saranno altrettante armi che essi rivolgeranno contro voi stessi. A poco a poco, nell’ambito della legalità, che voi stessi avrete ricostituita, della libertà, che voi avrete concessa agli altoatesini, la situazione degli italiani in Alto Adige sarà insostenibile».

13) In Alto Adige esplose nel dopo guerra una violenta stagione di terrorismo, oggi quasi dimenticata o sottaciuta. Puoi ricordarci a grandi linee la storia di quei difficili anni macchiati di sangue?

Il “Manuale dell’Alto Adige” distribuito dalla Provincia autonoma di Bolzano nelle sue “note di storia”, tratta il periodo sanguinoso degli attentati terroristici separatisti - caratterizzato da centinaia tra attentati, attacchi a colpi di armi automatiche, dissimulazione di mine antiuomo, bombe nei treni e nelle stazioni -, che vide ben diciotto morti e decine di feriti, minimizzandolo e citando solo la “notte dei fuochi” dell’11 giugno 1961 giustificando, inoltre, gli attentatori che, poverini: “Cercavano comunque di non colpire vite umane”. È liquidata così dalla “verità ufficiale” una stagione di lutti, e di sangue versato da decine di Servitori dello Stato caduti o feriti per opporsi non a un gruppo di fanatici isolati, ma a organizzazioni strutturate militarmente che poterono contare su protezioni, coperture e complicità oltre Brennero.
Il 15 maggio del 1955 a Vienna, all’interno del Castello del Belvedere, il Governo austriaco firmò con le Potenze occupanti, Francia, Regno Unito, Stati Uniti ed Unione Sovietica, a coronamento delle trattative riguardanti il ristabilimento di un’Austria indipendente e democratica, un “Trattato di Stato” (denominazione ufficiale: “Staatsvertrag betreffend die Wiederherstellung eines unabhängigen und demokratischen Österreich, gegeben zu Wien am 15. Mai”; “Trattato di Stato per la re-istituzione di un’Austria indipendente e democratica, firmato a Vienna il 15 maggio 1955”), che ristabilì un’Austria libera, sovrana e neutrale dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale e l’occupazione militare da parte delle Nazioni vincitrici.
Da quel momento in Austria vari circoli politici, tollerati se non sostenuti e favoriti dalle autorità governative, iniziarono ad operare, sia politicamente sia col terrorismo, per ottenere l’annessione dell’Alto Adige.
Mentre ufficialmente il Governo di Vienna negoziava con l’Italia un’eventuale modifica dello Statuto - che andasse nella direzione di una ancora maggiore autonomia per l’Alto Adige e che da parte austriaca mirava ad un sostanziale superamento dell’“Accordo Degasperi-Gruber” con la scusa che lo stesso sarebbe stato non ottemperato dall’Italia - un’“alta fonte viennese” organizzava le azioni terroristiche, scegliendone modi e tempi in modo da boicottare le trattative tra Italia e Austria.
La cospirazione armata contro l’Italia può essere divisa in tre tempi.
Il primo, caratterizzato da attentati dimostrativi compiuti dal cosiddetto “gruppo Stieler” dal nome del capobanda, Hans Stieler, tipografo del “Dolomiten”. La banda fu appoggiata e finanziata da Eduard Widmoser, capofila del “Berg Isel Bund” un’organizzazione irredentista tirolese che mirava al ritorno dell’Alto Adige all’Austria.
Il secondo tempo fu rappresentato dalla “Notte dei fuochi” e da altri attentati compiuti in Alto Adige nel 1961/1962. In sole 24 ore furono compiuti 47 attentati, dei quali 26 a strutture di sostegno delle linee elettriche aeree dell’alta tensione sulle pendici dei monti intorno alla conca di Bolzano. Durante la “notte dei fuochi” trovò la morte il lavoratore dell’ANAS Giovanni Postal.
Alla fine di luglio del 1963 iniziò il terzo tempo dell’aggressione armata contro la presenza italiana in Alto Adige, che si caratterizzò per l’abbandono dei vantati fini dimostrativi ed il passaggio ad azioni sempre più efferate e finalizzate alla ricerca della carneficina.
In questa fase agirono le cellule di Innsbruck e di Monaco del “Bas”, il “Befreiungsausschuss Südtirol”, cioè “Comitato di liberazione dell’Alto Adige” che nacque con l’obiettivo di staccare l’Alto Adige dall’Italia per riunirlo al Tirolo austriaco.
Il Bas fu fondato nel 1956 da Sepp Kerschbaumer, un piccolo commerciante idealista di Frangarto ed ex dirigente locale della Svp, dimessosi, infatti da “Orts Obmann” perché amareggiato da quella che, da parte della “Stella Alpina”, considerava una politica arrendevole ed accondiscendente. Kerschbaumer raggruppò una decina di estremisti intorno all’idea di “smuovere la popolazione con atti dimostrativi”.
All’interno del Bas emersero quasi subito delle profonde divergenze tra la fazione idealista del movimento terrorista, facente capo allo stesso Kerschbaumer, secondo la quale il BAS si sarebbe dovuto limitare ad azioni dimostrative non cruente nei confronti delle persone, e quella più militarista e propensa a scatenare una vera e propria guerra civile. Alla lunga, prevalse la seconda posizione che, per circa un decennio, fece dell’Alto Adige il terreno su cui vere e proprie bande armate organizzate militarmente, con appoggi finanziari e politici provenienti dai circoli oltranzisti e neonazisti di Monaco ed Innsbruck, scatenarono una guerriglia caratterizzata da centinaia tra attentati, attacchi a colpi di armi automatiche, dissimulazione di mine antiuomo, bombe sui binari ferroviari, nei treni e nelle stazioni.
La cellula tirolese fu guidata dal “triumvirato” composto da Günther Andergassen, Kurt Welser e Luis Amplatz, mentre quella di Monaco fu diretta dal neonazista Norbert Burger e dal fanatico Peter Kienesberger. Fu quest’ultimo gruppo che compì gli attentati più efferati.

Ricordiamo le vittime civili e militari dei terroristi separatisti:

Giovanni Postal, operaio dell’ANAS.
Vittorio Tiralongo, carabiniere.
Luigi De Gennaro, carabiniere.
Palmerio Ariu, carabiniere.
Bruno Bolognesi, guardia di finanza.
Salvatore Gabitta, guardia di finanza.
Giuseppe D’Ignoti, guardia di finanza.
Gaspare Erzen, dipendente della ditta di facchinaggio della stazione ferroviaria di Verona.
Herbert Volgger, guardia di finanza.
Franco Petrucci, guardia di finanza.
Martino Cossu, guardia di finanza.
Armando Piva, alpino.
Francesco Gentile, carabiniere.
Mario Di lecce, paracadutista.
Olivo Dordi, sabotatore paracadutista.
Filippo Toti, guardia di Pubblica Sicurezza.
Edoardo Martini, guardia di Pubblica Sicurezza.

Ricordiamo anche la guardia di finanza Raimondo Falqui - assassinato nel 1956 a bastonate da un gruppo di valligiani avvinazzati e riempiti d’odio antitaliano dalla propaganda austriacante – e il sindaco di Caldaro, Giuseppe Petri, ucciso il 4 novembre del 1946 per aver issato sul pennone del municipio la bandiera italiana.


Uno dei tralicci abbattuti nel '61 ad opera 
dei separatisti "sudtirolesi" durante quella 
che passerà alla storia come la Notte dei Fuochi



14) E' vero che molti dei protagonisti di quella triste stagione sono ancora a piede libero, ricoprono ruoli politici e continuano addirittura a fare propaganda anti-italiana?

Molti terroristi si rifugiarono in Austria, che concesse loro asilo politico. In particolare gli ergastolani Siegfried Steger, Sepp Forer, Heinrich Oberleiter, e Heinrich Oberlechner, cioè i cosiddetti “quattro bravi ragazzi della valle Aurina” e Alois Larch, condannato a 28 anni di reclusione per la strage di Malga Sasso e graziato nel 2007.
In Austria i “4 bravi ragazzi” si rifecero una vita. Steger lavorò come macellaio a Starnberg in Baviera e poi traslocò a Telfs, in Tirolo, paese della moglie. Anche Forer seguì la moglie che gestiva alberghi in Tirolo. Oberlechner invece aveva scelto la Baviera. Oberleiter, infine, si rifugiò a Hohenroth in Germania.
Larch, dopo avere ottenuto la grazia, tornò a Lana, il suo paese, e fu accolto in pompa magna dagli Schützen locali.
Oberlechner morì, nel 2006, ad Innsbruck.
C’è infine da sottolineare che in Alto Adige sono state dedicate due strade a terroristi. Una, a Sepp Kerschbaumer, a Frangarto e l’altra, a Franz Höfler, a Lana.


15) Esiste, a suo parere, la remota possibilità che italiani e tedeschi riescano un giorno a trovare un giusto compromesso per una pacifica convivenza all'interno dello stato italiano o ritiene sia del tutto impossibile, con il riproporsi in un prossimo futuro di scenari ben peggiori degli attuali?

Non credo che si possano ripetere gli scenari degli anni sessanta anche perché non penso che eventuali aspiranti terroristi possano riottenere gli appoggi che hanno ricevuto in quel periodo. L’Austria nel 1992 ha concesso la quietanza liberatoria, riconoscendo che l’Italia ha ottemperato all’“Accordo Degasperi-Gruber”. Non credo che convenga alla SVP tirare troppo la corda, perché non si può escludere (anche se lo ritengo poco probabile) che un futuro Governo italiano, a seguito delle continue richieste di nuove competenze, possa rivedere in senso restrittivo lo stesso Statuto autonomistico.
È bene ricordare, malgrado che gli austriacanti affermino il contrario, che non esiste nessun ancoraggio internazionale né per il “pacchetto” né tantomeno per lo Statuto di autonomia. Infatti, le elargizioni concesse da Roma con il secondo Statuto sono ufficialmente libere concessioni date dall’Italia. L’unico atto che è ancorato internazionalmente è l’“Accordo Degasperi-Gruber”. Vienna, quindi, potrebbe solamente, se dovesse ritenere che eventuali modifiche dello Statuto siano in contrasto col “Patto di Parigi”, adire alla Corte di giustizia dell’Aja in un ricorso esclusivamente giuridico. Corte, che dovrà valutare unicamente se, eventualmente, l’“Accordo Degasperi-Gruber” sia stato superato da parte italiana. Niente di più, niente di meno.
Infatti, l’unico strumento internazionale negoziato tra Italia e Austria, alla fine degli anni sessanta in vista del “pacchetto”, fu la modifica della “Convenzione europea per la soluzione pacifica delle controversie”, che attribuiva alla corte dell’Aja la competenza di dirimere tali contrasti, in modo che la Corte stessa potesse interessarsi anche delle questioni sorte prima del 1957.

16) Quale potrebbe essere, sempre a suo parere, una soluzione valida per sanare questi contrasti e fare in modo che gli Italiani tornino a sentirsi a casa propria dalla stretta di Salorno fino alla Vetta d'Italia?

Finché non cambierà l’atteggiamento della nomenclatura politica “sudtirolese” - che, come già accennato, mira pervicacemente all’applicazione del programma della Dieta di Vipiteno del 1918 – il risanamento dei contrasti, e il fatto che gli italiani possano sentirsi a casa propria dalla stretta di Salorno fino alla Vetta d'Italia, rimarrà una pia illusione.
Ritengo, in ogni caso, che realisticamente non si possa arrivare alla denuncia dell’“Accordo Degasperi Gruber”, ma che un Governo italiano “con le palle” debba ridisegnare un nuovo Statuto autonomistico che applichi realmente il “Patto di Parigi” così come fu inteso e accettato da Degasperi nel 1946. Denunciando, quindi tutte le erronee interpretazioni subite dai Governi italiani degli anni sessanta che portarono all’attuale autonomia.
Questo, naturalmente, provocherebbe la piccata reazione della Svp e dell’Austria, per cui l’Italia stessa potrebbe rivolgersi alla Corte dell’Aja per sottoporre ad un giudizio giuridico il nuovo Statuto. Una presa di posizione favorevole della stessa Corte di Giustizia Internazionale potrebbe tacitare sul nascere le proteste.
C’è inoltre da dire che la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (proclamata ad Algeri il 4 luglio 1976), per quanto riguarda le minoranze prevede che «quando un popolo rappresenta una minoranza nell’ambito di uno stato, ha diritto al rispetto della propria identità, delle tradizioni, della lingua, del patrimonio culturale» (art. 19) e che «i membri delle minoranze devono godere senza discriminazione degli stessi diritti che spettano agli altri cittadini e devono partecipare in condizioni di uguaglianza alla vita pubblica».

Un’eventuale riforma statutaria, se rispettasse questi canoni, (nella Carta di Algeri non si parla né di poteri legislativi ed esecutivi autonomi né di altri previlegi) sarebbe certamente approvata a livello internazionale. Anche tenendo conto che l’art. 21 della stessa Dichiarazione di Algeri afferma che «L’esercizio di tali diritti deve realizzarsi nel rispetto degli interessi della comunità presa nel suo insieme e non può autorizzare lesioni dell’integrità territoriale e dell’unità politica dello stato, quando questi si comporti in conformità con tutti i principi enunciati nella presente Dichiarazione».

sabato 21 gennaio 2017

L'ALTO ADIGE E' ITALIA II° - "Le Fiere di Bolzano" di Ferruccio Bravi


Prefazione



Un evento di grande portata storica e militare, quale fu la Vittoria del 4 novembre 1918, dovrebbe essere già di per sé sufficientemente valido a porre fuori discussione il diritto dell'Italia all'Alto Adige, in quanto è diritto scaturito dalla forza delle armi e dal sacrificio cruento e quindi non meno valido del diritto originato da altre fonti; ma purtroppo il trascorrere del tempo e lo scadimento dei costumi vanno attenuando nella coscienza degl'Italiani il significato storico e morale della Vittoria, mentre l'Alto Adige diviene oggetto di discussione, mentre la carenza dei pubblici poteri e il lassismo della generalità degl'Italiani incoraggiano una minoranza linguistica a reclamare a sua volta – con la parola, con gli oltraggi, con gli attentati – il diritto di rescindere il suo destino da quello dell'Italia. Nasce così la necessità di rievocare, al di là della Vittoria di quarantaquattro anni orsono, quei fatti di più remota origine che sono alla base del diritto dell'Italia alla terra atesina e trascendono anche la santità del principio secondo cui i confini politici degli stati nazionali devono coincidere con i confini geografici: intendo le tradizioni storiche, culturali ed economiche attraverso le quali l'Italia ha espresso la sua presenza morale in Alto Adige nei secoli passati. L'Italia è a Bolzano, è al Brennero, non già dal 4 novembre 1918: a dimostrare che l'Alto Adige non è terra tedesca, ma terra latina e neolatina, basta qualche considerazione più approfondita di quelle comunemente acquisite. Non pretendo di affermare cosa nuova nel ricordare, ad esempio, che il cosiddetto gruppo etnico tedesco non è affatto un gruppo compatto, bensì la risultante di una mescolanza di stirpi in cui l'elemento germanico ha un'entità trascurabile: la maggioranza dei sud-tirolesi è di stirpe neolatina, ne più ne meno come i trentini e i cosiddetti ladini, sovraimposta alla stirpe retica ( composita e non germanica ) e rinvigorita da nuclei italiani rifluiti dal sud in varie epoche, non l'apporto etnico di trascurabili gruppi immigrati dalla Germania alla spicciolata ( baiuvari, e più tardi bavaresi, svevi etc. ) ma le particolari condizioni politiche imposte dal germanesimo nel corso di otto secoli alla nostra regione, hanno sottoposto la popolazione atesina ad una progressiva germanizzazione, prima occasionale e infine sistematica. Che la popolazione dell'Alto Adige sia di stirpe in gran prevalenza non tedesca è facilmente dimostrato – oltre che dagli studi specifici del Tolomei prima, del Battisti ed altri poi - dalla schiacciante maggioranza di cognomi atesini di origine neolatina e, in parte, di forma prettamente italiana.
Perciò quando oggi, più o meno a sproposito, si parla di un diritto etnico in base al quale si devono difendere e conservare i caratteri della lingua, dalla cultura e dal folklore altoatesino, ci si dimentica che tali caratteri sono tutt'altro che originari e sono invece soprattutto acquisiti attraverso un processo di assimilazione linguistica che, con il venir meno delle condizioni politiche che l'hanno determinato, è suscettibile non di conservazione ma di ulteriori mutamenti. Malgrado tutto questo, vive e prospera il dogma di un Alto Adige « compattamente tedesco per lingua e per tradizioni, strappate a non si quale madre patria tedesca (1) » su questo dogma vivono di rendita i più insigni cervelloni d'oltralpe ai quali nulla manca per bandirlo ai quattro venti: dalle più svariate associazioni politiche e culturali istituite sia in Germania che in Austria, alle pubblicazioni d'ogni genere largamente sovvenzionate, alla stampa periodica e quotidiana attraverso la quale essi battono e ribattono il chiodo del sud tirolo tedesco in clima di rifiorente pangermanesimo. A questo punto s'impone una domanda: cosa si fa dalla nostra parte? Poco e niente. Ad una « cultura » aggressiva e ben foraggiata di parte tedesca, l'Italia ufficiale oppone il culturame degli pseudo-intellettuali e degli pseudo-politici permeati da quella « cupidigia di servilismo » scaturita dalla disfatta: costoro mettono in dubbio, quando non misconoscono o rinnegano, il diritto dell'Italia all'Alto Adige. Ai pochi studiosi seri, pensosi e documentati l'Italia ufficiale nega protezione e incoraggiamento, ignorandoli o addirittura contrastandone l'attività che essi svolgono in umiltà francescana. Dalla constatazione di questa grave carenza che tanto nuoce alla causa dell'Alto Adige è nata l'idea della nostra collana « I Quaderni della Clessidra » i quali hanno lo scopo di divulgare in forma piana ed accessibile ciò che gl'Italiani non possono ignorare, anzi debbono rammentare costantemente, a meno di non disertare una lotta che per l'Alto Adige non è soltanto di posizioni politiche, ma soprattutto di posizioni morali. Ferruccio Bravi apre la collana con una monografia sulle “Fiere di Bolzano”. L'argomento, da altri in passato trattato in forma discontinua e frammentaria, ha trovato in lui un documentatore accorto e vigile, oltre che un espositore spassionato e arguto che riesce a trattare con briosa vivacità una materia di per sé arida e piatta. Ci auguriamo che a questa iniziativa arrida un meritato successo che possa giovare, non già a noi della “Vetta d'Italia”, ma agli italiani e a l'Alto Adige. Ne trarremmo conforto e incitamento per moltiplicare le nostre energie e i nostri sforzi affinché il seme da altri maggiori gettato non vada perduto.

Andrea Mitolo
Bolzano, 4 Novembre 1962



LE FIERE DI BOLZANO
E LE ATTIVITÀ MERCANTILI ITALIANE NEL PASSATO



ORIGINI LEGGENDARIE: DA ARRIGO IL SANTO AL POVERELLO D'ASSISI

Una tradizione fondata su una scrittura del tardo settecento fa risalire agl'inizi del mille l'istituzione delle fiere di Bolzano per effetto d'una carta mercantile concessa da Arrigo II il Santo. Era questi un imperatore di Germania noto ai tedeschi per mitezza e specchiata virtù, ma ancor più noto agl'italiani per aver spodestato Arduino primo re d'Italia e per la ferocia con cui aveva represso la rivolta antitedesca divampata a Roma nell'anno della sua incoronazione. Ambita o meno che sia, questa sanzione germanica posta alle origini dei mercati bolzanini è da relegare nel mondo della leggenda : se si pensa che la nostra città agli albori del mille era nulla più che un oscuro villaggio incastrato fra la nebbia e gli acquitrini, è facile immaginare che il santo imperatore, discendendo e risalendo la val d'Adige al fianco della sua illibata Cunegonda, non abbia neanche notato i quattro tuguri divisi da un crocicchio che, con la chiesa, costituivano tutta la Bolzano di allora. Non meno dubbia appare certa documentazione indiretta secondo la quale Bolzano sarebbe stata città mercantile già nel 1070 ; città lo era forse quanto Petramala che Dante chiama argutamente «amplissima urbs» o quanto Novgorod ai tempi di Gogol, sorta attorno ad una “magnifica pozzanghera". Gli ampliamenti del nucleo primitivo del villaggio nel corso del dodicesimo secolo furono di entità cosi trascurabile che difficilmente potremmo ambientare in quelle mura ristrette una fiera o un mercato locale d'una certa importanza. Di conseguenza non ha fondamento la pur suggestiva tradizione, generalmente accolta, secondo la quale Francesco d'Assisi avrebbe dimorato per qualche tempo a Bolzano col padre Bernardone, ricco mercante di panni, e avrebbe servito la Messa all'altare di S. Ingenuino sul luogo dove fu poi edificato il convento dei Francescani.

CARATTERE ITALIANO DELLE PRIME FIERE

Senza tanto dilungarci su leggende e notizie di scarsa base, passiamo senz'altro alle prime documentazioni dirette delle fiere bolzanine che risalgono agil'inizi del duecento. Si tratta di elementi scarsi e frammentari da cui si può agevolmente dedurre che a Bolzano, non meno che in altre città d'Italia, le più antiche manifestazioni nundinali avevano carattere italiano. Basti l'accenno ad un particolare privilegio goduto anticamente dalla Comunità di Riva che inviava a Bolzano una sua rappresentanza con il proprio stendardo ; la presenza dei rivani nella nostra città era la «conditio sine qua» non potevano celebrarsi le fiere. Questa circostanza sembra confermare il carattere locale di tali fiere che saranno in grado di uscire dall'angusto ambito dell'economia regionale soltanto più tardi, nel duecento inoltrato, quando si sviluppano i grandi traffici e gli scambi tra il nord e e il sud dell'Europa. Da questo sviluppo procede la fortuna economica dei centri favoriti dalla posizione geografica, come la nostra città situata sulla grande arteria commerciale che collega l'Italia alle terre d'oltralpe. Questa realtà crea i presupposti della funzione economica di una Bolzano destinata a divenire punto di sutura – un "ponte" si direbbe oggi – delle nazioni latina e germanica; punto di sutura, beninteso, dei rispettivi interessi commerciali e non già dei due popoli, che restano fatalmente separati – ad onta dei deliri europeistici di casa nostra – da una profonda diversità di cultura e di tradizioni, oltre che da una barriera naturale insopprimibile.

DAL PREDONE MAINARDO A ENRICO «RE» FANNULLONE

Le condizioni politiche dell'Alto Adige nella seconda metà del tredicesimo secolo determinano un arresto al naturale evolversi delle fortune mercantili di Bolzano. Il dominio dei conti di Tirolo che si sovrappone alla signoria dei vescovi di Trento e di Bressanone - vassalli dell'Impero dagli albori del Mille - crea profondi rivolgimenti in tutta la regione fra il Brennero e il Garda: usurpazioni, eccidi, razzie e rovine segnano l'affermarsi dei nuovi padroni, i conti tirolesi, e raggiungono il culmine sul finire del duecento con Mainardo II, predone tre volte scomunicato come il tiranno Ezzelino di cui egli emula le gesta. Bolzano, teatro dell'estrema contesa fra il vescovo di Trento e il conte di Tirolo, insorge contro l'usurpatore nel 1277; ma dopo un breve assedio è costretta alla resa. Il muro di cinta è abbattuto, la torre diroccata, l'abitato ridotto in un cumulo di macerie; gran parte degli abitanti periscono nelle stragi o trovano scampo nella fuga. Un disastroso incendio semina nuove distruzioni e lutti nel 1291. Dopo tante vicissitudini, la città comincia a risorgere, si rianima, anche la sua vita commerciale riprende. Spento ormai il ricordo degli orrori legati alla conquista di Mainardo, i bolzanini si acconciano al nuovo ordine di cose. Del resto il nuovo conte tirolese è abbastanza tollerabile: regna ma non governa, come si addice appunto ad un sovrano quale egli, Enrico, era stato prima di essere deposto dal trono di Boemia. Il conte Enrico piace: è uno spendaccione gaudente che ama i banchetti e le cacce, s'indebita fino al collo, vive e lascia vivere. E' in questo clima di beata distensione che i commerci tornano a fiorire e gl'italiani rifluiscono a Bolzano.

L'ETA' DI DANTE : I BIANCHI, I NERI... E I ROSSI

Mentre Bolzano risorge, un'altra città più a sud va in rovina : è Firenze, « la città partita», sconvolta dal furore delle fazioni, prossima a diventare preda del primo arrivato. Come Dante, molti fiorentini di parte Bianca lasciano le rive dell'Arno volgendo i passi verso il nord con la patria nel cuore e una disperata nostalgia. E' proprio in questi anni, i primi del trecento, che la comunità fiorentina di Bolzano si dilata: ai molti concittadini sospinti in Alto Adige dal naturale espandersi del ceto mercantile, si uniscono gli esuli e coloro che non sono compromessi con la politica, ma desiderano concludere in santa pace gli affari loro. Fra gli immigrati di vecchia data è Lambertuccio Frescobaldi, banchiere mercante e anche poeta, parente di quel Berto spaccone che - narra il Compagni - «disse forte villania a Giano della Bella» e barcamenandosi fra Bianchi e Neri non prese mai posizione nelle grandi contese. In Alto Adige il Frescobaldi non fa poesia: fa lucrosi affari come banchiere dei conti di Tirolo. Dopo la sua morte, seguita nel 1304, ascende a grande fortuna un'altra importante casata mercantile di Firenze: è quella dei Rossi, originari del sestiere di S. Felicita, che a Bolzano, ad Egna a Trento e in seguito anche ad Innsbruck posseggono gabelle, mute e «casane». La casana - banco di prestito su pegno - è peculiare istituzione dei fiorentini che la introducono a Bolzano verso il 1290 (ne è titolare un «prestitor Caspar»); esisteva già a Merano - ove la comunità fiorentina era altrettanto numerosa che nella nostra città - fin dal 1287 ed era gestita da un «Filipus Tuscanus de Florentia» e dai suoi fratelli Morsello e Nasone.


PRODIGHI E USURAI I MERCANTI FIORENTINI

Ai Rossi, poi intedescati in Botschen, si deve in parte l'abbellimento della città di Bolzano risorta dalle rovine del 1277 e del 1291. La loro munificenza e attestata dallo stemma di famiglia che si trova in S. Giovanni in Villa ; qui, come pure nelle chiese cittadine, molte pie fondazioni si intitolano al loro nome. Numerosi altri fiorentini esercitano la mercatura a Bolzano nell'età di Dante: nella nostra città si trovano a loro agio, come a casa loro, italiani fra italiani poiché tali erano i bolzanini in quegli anni, non ancora contaminati dalla lingua e dai costumi dei tedeschi. In questa seconda patria commerciano, si arricchiscono e non lesinano il soldo nel contribuire ai restauri della città che rinasce più estesa e più bella attorno al rettifilo dei Portici. Investono capitali ingenti acquistando o costruendo edifici; diventano proprietari di vasti fondi rustici nel contado bolzanino come pure nel Meranese e nel Burgraviato; gravano d'ipoteche i beni stabili di famiglie locali borghesi e magnatizie. Perfino Castel Macina, proprietà del conte di Tirolo ingolfato nei debiti, è pignorato da una società di banchieri di Firenze che vi eserciscono l'appalto del dazio e vi installano un banco di prestiti ad usura tanto malfamato che la tradizione ne ha consacrato il soprannome «Casa degli Strozzini ».

LA FIERA SOTTO I PORTICI

Al tempo dei Rossi e dei Frescobaldi le fiere di Bolzano erano soltanto due : quelle di mezza Quaresima e di S. Egidio, poi chiamata di S. Bartolomeo. Più tardi se ne aggiunsero altre due: quella di S. Andrea, istituita verso il 1357, e quella del Corpus Domini che ebbe origine dal mercato di Pentecoste di Merano trasferito a Bolzano agl'inizi del sedicesimo secolo. Le quattro celebrazioni si avvicendavano a intervalli quasi regolari nel corso dell'anno e duravano almeno due settimane ciascuna. Più solenne e meno strepitosa di oggi ne era l'apertura: non diversamente che a Roma, a Napoli e in altri centri della Penisola, le grandi fiere di Bolzano erano annunciate da un suono festoso di campane e proclamate da un magister nundinarurn parato a festa preceduto da un pittoresco tamburino che accompagnava il suo passo cadenzato. Il mercato si teneva nella via dei Portici dove i « fonteghi » e i magazzini rigurgitavano d'ogni ben di Dio : lungo i cosiddetti «portici italiani» (a settentrione) si esponevano le pregiate sete di Lucca, le «pezze» di Milano e quelle di Firenze col sigillo dell'Arte della Lana, i prodotti orientali importati da Venezia, oggetti di squisita fattura creati dalle botteghe artigiane della Toscana, di Napoli, di Roma, della lontana Calabria; dirimpetto, lungo i «portici tedeschi », facevano bella mostra oggetti d'oro e di ferro battuto, pellami e cuoi a sbalzo, merci d'ogni genere provenienti dai paesi nordici. Rare le insegne e non ispirate al cattivo gusto della bilinguità ad oltranza. Sotto i portici si contrattava in italiano, in tedesco o in dialetto senza instralci o inibizioni freudiane ; poiché a quei tempi l'on. Volgger non era ancora nato e il «diritto» di fingere d'ignorare l'italiano a Bolzano era ancora di là da venire.





SOPRUSI CONTRO I MERCANTI ITALIANI

Il promettente svolgimento delle fiere bolzanini subisce. un duro colpo verso la fine del quindicesimo secolo in coincidenza con un grave avvenimento politico: l'apertura delle ostilità contro Venezia, nel 1487, da parte di Sigismondo il Danaroso arciduca d'Austria. Insediata politicamente nel basso Trentino, presente nella stessa Bolzano con i suoi mercanti, la potenza veneziana costituiva una costante minaccia ai domini degli Absburgo al di qua delle Alpi. Fu la guerra, breve e travolgente, che ebbe sfortunato epilogo a Calliano dove la Serenissima fu battuta e umiliata. A Bolzano, già nell'aprile di quell'anno, Sigismondo aveva fatto imprigionare qualche centinaio di mercanti veneziani; dopo Calliano, egli dette un secondo giro di vite emanando un privilegio per le fiere di Bolzano che nella sostanza danneggiava i nostri commercianti. La nuova carta mercantile, datata 1488, disponeva testualmente all'art. IV: «Dato che i Welschen (ossia i forestieri italiani), acquistano molte case e vi collocano persone di scarso conto è nostro intendimento che essi abitino personalmente gli alloggi o li cedano a gente più adatta agli affari e ai bisogni della città». A questa disposizione restrittiva, in apparenza di scarsa portata, si ispirarono una serie di provvedimenti iniqui che le autorità locali emisero a danno degl'italiani dal 1488 fino oltre la metà del cinquecento. Con uno zelo degno di causa migliore, i tirolesi dell'amministrazione civica adottarono misure energiche per impedire l'afflusso di italiani a Bolzano e per estromettere quelli che già vi risiedevano, rendendo inoperante lo statuto del 1448 che concedeva il diritto di cittadinanza agli italiani e ai ladini. Per effetto delle nuove norme anche quei mercanti italiani che possedevano case in città ed erano regolarmente iscritti nei registri d'incolato furono trattati come stranieri e privati d'ogni beneficio goduto dai bolzanini.

VIA GLI ITALIANI! LA CITTA' DIVENTA TEDESCA

«Mandare fuori dai piedi gli italiani » - anweck pack'n zum taiffl - era lo slogan alla moda: una deliberazione comunale del 1524 ne dava pratica attuazione negando tassativamente ai nostri connazionali il diritto di risiedere a Bolzano. La deliberazione, riconfermata ben tre volte fino al 1568, appare ancora in vigore nel 1579: è infatti in quest'anno che il Comune rifiuta la residenza a un gruppo di commercianti italiani (Raffaele Marco da Firenze, Domenico Avancini da Riva, Cristiano Visintin da Trento e molti altri) che si proponevano di impiantare a Bolzano un istituto di credito e un'industria per la lavorazione della seta in cui avrebbero trovato occupazione parecchi operai italiani e tedeschi. Il rifiuto era motivato dal timore che le progettate attività
richiamassero a Bolzano altri italiani «con grave pregiudizio per il carattere tedesco della città». Bolzano era infatti diventata tedesca nel corso degli ultimi cento anni, tedesca nelle architetture e nel linguaggio : fin dal 1483, anno del disastroso incendio che aveva distrutto la città vecchia, si era intensificata la costruzione di edifici in quello stile gotico che altrove aveva già fatto il suo tempo, specie in Italia dove le città erano state «riempite - scrive il Vasari - di questa maledizione di fabbriche»; non diversamente, alla lingua usuale che a Bolzano era stata italiana fin verso la metà del quattrocento - cosi riferisce P. Felice Faber da Ulma e conferma Gian Pirro Pincio - si era sovrapposto, sguaiato e duro, il dialetto tirolese. La città aveva assunto un volto diverso, la comunità italiana si era assottigliata, ristagnavano i commerci e le attività delle fiere sulle quali era fondato il benessere della cittadinanza. Cosi piaceva ai tirolesi di allora; cosi piacerebbe anche a certi tirolesi di oggi che pur di non convivere con gl'italiani ridurrebbero la nostra città nello squallore d'un paesone privo di risorse, miserabile, ma tutto tedesco.



REALTA' INSOPPRIMIBILE. LA PRESENZA DEGL'ITALIANI A BOLZANO

Malgrado le difficoltà e i provvedimenti discriminatori, la vitalità dei nuclei italiani restati a Bolzano è ancora notevole verso la metà del cinquecento. Molte case sono ancora in possesso di nostri commercianti che tendono a concentrarsi nella zona dei Portici. Lo sviluppo delle fiere riprende, quantunque i nostri mercati siano un po' dappertutto in decadenza: è ancora una volta Venezia che tenta la penetrazione economica nell'Alto Adige mirando al monopolio delle attività commerciali italiane e tedesche. Anche la presenza di «commedianti welsch» - attori comici e cantanti - in tempo di fiera a partire dalla metà del secolo è indice di una notevole consistenza dell'elemento italiano in città. La nostra collettività diventa ancora più numerosa al principio del seicento: ne abbiamo conferma in una richiesta, avanzata dai commercianti al Comune nella primavera del 1609, intesa ad ottenere la nomina d'un giudice di nazionalità italiana per risolvere le controversie mercantili. Questa aspirazione sarà ampiamente soddisfatta nel 1633 mediante l'istituzione del Magistrato Mercantile di Bolzano, speciale magistratura con attribuzioni e strutture simili a quelle dei fori commerciali preesistenti in altre città d'Italia. Nel complesso si hanno favorevoli indizi circa la folta presenza di mercanti italiani durante i primi decenni del seicento; non è possibile stabilirne il numero esatto - nella vecchia Bolzano era ancora sconosciuta l'usanza di «contarsi » giorno per giorno come si fa oggidì - però si può precisare in base a documentazioni attendibili che le case commerciali italiane della città, rispetto a quelle tedesche avevano allora il rapporto di tre a uno, più o meno come ai nostri giorni.


CLAUDIA DE' MEDICI E IL MAGISTRATO MERCANTILE

Un'arciduchessa d'Austria d'illustre famiglia toscana, Claudia de' Medici «relicta vedova» d'un Absburgo e reggente la Contea del Tirolo, concedeva fra il 1633 e il 1635 privilegi e franchigie ai mercanti che frequentavano le fiere della nostra città. Per effetto di tali privilegi - che fra l'altro ponevano su un piano di parità i commercianti italiani e tedeschi - sorgeva il Magistrato Mercantile di Bolzano, organismo che per oltre due secoli sarà valido strumento di prosperità economica non soltanto per la città, ma per tutta la provincia tirolese. Il Magistrato Mercantile esercitava ampi poteri giurisdizionali in materia di fiere e di commerci, in specie per la composizione delle controversie tra fieranti ; era retto da due consoli - magistrati di prima e di seconda istanza - assistiti ciascuno da due consiglieri. Consoli e consiglieri - alternativamente italiani e tedeschi - erano eletti dal corpo dei Contrattanti costituito dai più reputati frequentatori delle fiere elencati in una matricola; i candidati alle cariche dovevano pure essere iscritti nella matricola e la loro elezione doveva essere ratificata dal Governo provinciale. Per elezione si nominava pure il personale amministrativo costituito da cancellieri, attuari (coadiuvati da notai in tempi più recenti), bidelli, cursori etc. Il Magistrato Mercantile disponeva anche di una stamperia impiantata nella città da i n tipografo probabilmente veneziano, Carlo Girardi, nel 1659; si tratta della prima tipografia di Bolzano, sorta ben centosettanta anni dopo quella del Manuzio (non soltanto l'arte della stampa, ma tutto in Alto Adige ebbe carattere ritardatario, specialmente nei periodi in cui ristagnavano le attività italiane). Alla complessità delle strutture del Magistrato faceva riscontro l'estrema snellezza dei procedimenti giudiziari, come esigeva lo spirito pratico dei commercianti che anche allora detestavano le lungaggini burocratiche e le sottigliezze dei legulei; a costoro - salvo rare eccezioni - era anzi interdetto l'ingresso nel foro mercantile. Altra categoria di illustri esclusi era quella dei baccani tirolesi dediti al commercio del bestiame, del vino, delle biade e di altre mercanzie villerecce. Esclusione più che giusta: rifiutandosi di accogliere nel suo seno quei tipici «ornamenti» del paesaggio tirolese, il Magistrato era coerente al motto della sua impresa che era, appunto, «Ex merce pulchrior».



LINGUA ESCLUSIVAMENTE ITALIANA FINO AL 1787

Dell'attività svolta dal foro mercantile per oltre duecento anni resta una imponente documentazione costituita da una cinquantina di codici e circa cinquecento fasci di atti giudiziari e contabili in gran parte rilegati in volume. Queste scritture sono redatte esclusivamente in italiano, salvo qualche inserto, fino al 1787; dopo quest'anno - per effetto della politica germanizzatrice di Giuseppe II - la lingua tedesca sostituisce gradualmente la nostra fino a diventare lingua unica d'ufficio nel 1809. Italiano era anche il testo degli originali delle patenti sovrane concesse al Magistrato, dalla «carta claudiana» del 1635 - ispirata dagli ordinamenti mercantili della città di Verona - alle varie riconferme dei successori di Claudia avanti le riforme giuseppine; questi originali purtroppo non si trovano più, essendo stati trafugati da nazisti tirolesi nel corso dell'ultima guerra. Le cariche del Magistrato erano generalmente ricoperte da italiani: fra il 1633 e il 1800 più della metà dei consoli e dei consiglieri, quasi tutti i cancellieri e gli attuari appartenevano alla nostra nazionalità. Fra i cancellieri si ricordano anche tre Rosmini ascendenti del filosofo roveretano. L'entità dell'elemento mercantile italiano emerge con maggiore evidenza dal ruolo o matricola dei contrattanti in cui sono elencati nomi di commercianti d'ogni parte d'Italia: molto elevato e il numero dei roveretani, dei trentini, dei lombardi e dei lucchesi; notevole il concorso dei fiorentini, dei marchigiani, dei romani e degli umbri; calabresi, pugliesi, triestini, dalmati e siciliani sono pure presenti. Più numerosi di tutti sono i veronesi che nel 1638 rappresentano quasi la metà dei contrattanti italiani e nel corso di due secoli di vita mercantile di Bolzano danno al Magistrato ben 71 consoli e 170 consiglieri.





L'arte della stampa fu introdotta nell'Alto Adige a più di un secolo
dall'invenzione dei caratteri fusi. La prima tipografia atesina era sorta a
Bressanone verso il 1560 per opera di un prete solandro, Donato Fezio;
la città di Bolzano dovette attendere altri cento anni prima di avere
 una propria stamperia. Anche qui l'arte tipografica fu introdotta
 dall'italiano Carlo Girardi nell'anno 1661.


ARTE ITALIANA E MECENATISMO MERCANTILE NEI LA BOLZANO DEL SETTECENTO

L'apporto dei veronesi è determinante non solo nell'ambito della mercatura, ma anche nelle manifestazioni artistiche da esse incoraggiate. Notevoli sono le tracce dell'attività svolta a Bolzano da artisti della città scaligera provenienti da ricche famiglie mercantili, quali i Perotti i Balestra il Pezzi e altri ancora. A un Francesco Perrotti si deve il progetto della sontuosa sede del Magistrato Mercantile, fra via Argentieri e i Portici Italiani, che ospita attualmente la Camera di Commercio. L'opera fu relizata fra il 1708 ed il 1728 dagli architetti civici di Bolzano Giovanni e Giuseppe Delai, originari della Lombardia; nelle sale spaziose dell'edificio si ammirano tuttora opere di artisti veronesi e lombardi, fra le quali tele pregiate di soggetto sacro, profano e allegorico. Risalgono al periodo della massima floridezza del commercio bolzanino parecchie opere d'arte italiana realizzate con il danaro dei nostri mercanti, la cui munificenza era in stridente contrasto con la proverbiale tirchieria della civica amministrazione. Accenniamo alle più importanti: la cappella fatta edificare dai fieranti nella Chiesa dei Domenicani fra il 1640 e il 1685, con altare e dipinti (la pala è del Guercino) – opere tutte di scultori e pittori italiani; l'altare, il secondo, offerto da «mercatores ad nundinas confluentes» alla cappella di S. Antonio nella Chiesa dei Francescani, opera dello scultore ed architetto Giovanni Battista Bianchi, uno dei tanti artisti veronesi che a Bolzano hanno lasciato orma durevole. Il mecenatismo mercantile finanzia pure manifestazioni musicali e teatrali di carattere italiano che s'impongono al gusto del pubblico ormai stucco dei tradizionali Spiele di marca nordica. Opere buffe di Paisiello e Cimarosa, rifacimenti di commedie goldoniane (La Pamela Nubile) e altre ancora spengono del tutto il ricordo dei tetri polpettoni d'ambiente biblico-tirolese, ai quali Aristotele tutto avrebbe rimproverato salvo il rispetto dell'unità di luogo: ché l'azione di codesti Spiele si svolgeva da cima a fondo attorno ad una tavola apparecchiata o nell'Arca di Noè.



DECADENZA DELLE FIERE

Raggiunta la massima floridezza nei primi decenni del settecento, le fiere di Bolzano cominciarono a decadere verso la metà del secolo per varie cause: la concorrenza dei traffici incanalati su nuove strade aperte verso i Grigioni e le Alpi Carniche, il mancato sostegno delle autorità governative e, soprattutto, l'evolversi della situazione marittima nell'Adriatico. In questo mare la potenza veneziana ormai al tramonto perde posizioni su posizioni a vantaggio dell'Austria che inaugura, appunto nell'Adriatico, una propria politica marinara: nel 1719 Trieste e Fiume sono dichiarati porti franchi e nasce la «Compagnia Orientale» che assume l'appalto dei traffici fra l'Adriatico e il Danubio; più tardi, nel 1729, il governo austriaco progetta di manipolare le tariffe doganali in modo da favorire il transito attraverso Trieste e Fiume e far dirottare le merci italiane sulla «via di Villaco» scavalcando a monte la «via del Tirolo». Il Magistrato Mercantile tenta di correre ai ripari inviando ad Innsbruck e a Vienna una commissione con l'incarico di distogliere il governo da tale proposito; vari «botticelli di vin dolce» e altre «regalie a ministri e paroni» rendono più convincenti le argomentazioni dei commissari che riescono a spuntarla con relativa facilità, ottenendo dal governo la proroga delle vecchie tariffe e l'impegno di lasciare in stato di abbandono e quindi intransitabili le vie di comunicazione con Trieste. Ciò non impedisce a Vienna di riprendere, di li a qualche decennio, la sua politica adriatica che fa di Trieste la grande concorrente di Venezia e il primo porto dell'Impero. Speciali riduzioni e franchigie daziarie sono in seguito elargite alla città dal Governo che in pari tempo provvede a riattivare le vie di comunicazione fra il porto e l'Hinterland. Di conseguenza sono compromessi i traffici sulla via del Brennero sempre più disertata; il volume d'affari nelle fiere di Bolzano subisce una progressiva contrazione che diventa allarmante quando, nel 1780, Maria Teresa d'Austria impone alla città onerose tariffe daziarie. Tre anni dopo, entra in scena Giuseppe II con le sue riforme ed è la fine.

GIUSEPPE II - RESTAURATORE E AFFOSSATORE DEI COMMERCI

Figura sconcertante e piena di contraddizioni, Giuseppe II era figlio del tempo dei lumi: si piccava di essere un sovrano illuminato, ma in pratica fu un maldestro innovatore che, smanioso di conferire una impronta personale alle strutture del suo Impero, travolgeva istituzioni, tradizioni e statuti come un rullo compressore; a parer suo tutto l'universo, da un capo all'altro, doveva essere riformato e fatto tedesco. Le alzate d'ingegno giuseppine avevano suscitato una giustificata apprensione fra i mercanti di Bolzano i quali, già ridotti a mal partito, erano ormai rassegnati a subire dal nuovo padrone la mazzata fatale: però, contro tutte le previsioni, il primo atto di Giuseppe II nei confronti del ceto mercantile fu magnanimo: «con benigno rescritto» stilato nel 1783, egli dette un bel colpo di spugna alla gabella teresiana, suscitando entusiasmi e liriche effusioni. I mercanti benedissero il nume imperiale salutandolo «restauratore della pristina libertà dei commerci» e gli dedicarono un'ode prolissa e zuccherosa, nonché un retorico monumentino in gesso - da ammirarsi ancor oggi nel Palazzo Mercantile - che raffigura il Cesare austriaco nell'atto di porgere il caduceo a un Mercurio, piuttosto malconcio, prostrato ai suoi piedi. Tutto bene, senonché di li a un anno Giuseppe si penti di tanto gesto - si sa, la generosità degli Absburgo è fatta così e impose al Magistrato un nuovo regolamento che sopprimeva di fatto lo statuto claudiano, avocando fra l'altro al Governo la seconda istanza mercantile. Il provvedimento fu una doccia fredda sui mercanti che ne invocarono l'abrogazione, ma a nulla giovarono stavolta le ambascerie, i doni e gli appelli patetici: Cesare fu irremovibile di fronte alla costernazione dei mercanti, per lo meno quanto lo era stato di fronte alla Santità umiliata del pellegrino apostolico di montiana memoria. Per finire, l'Imperatore coronò il suo capolavoro inaugurando a Bolzano quei santi principi di discriminazione etnica che da allora in poi avvelenano i rapporti fra le due nazionalità.




FINE INGLORIOSA DELLE FIERE E DEL MAGISTRATO MERCANTILE

I provvedimenti giuseppini che avevano bloccato del tutto le residue risorse dei commerci di Bolzano sono annullati nel 1792 dal successore Leopoldo II che restaura il vecchio statuto claudiano. Questa resipiscenza non ripara il danno, né scongiura l'imminente sfacelo dei commerci della città: dopo tante vicissitudini, le fiere e il Magistrato hanno perduto la vitalità originaria e il ceto mercantile è sceso di tono soprattutto per l'esodo degl'italiani provocato da ostruzionismi e discriminazioni. Quest'ultima circostanza determina l'ascesa d'una sordida classe commerciale tirolese che fa capo ai Gumer, famiglia non del tutto oscura avendo dato alla città un borgomastro tre volte confermato e un console mercantile, poi consigliere e fabbriciere del Magistrato. Divenuti grassi borghesi e magnati del commercio, i Gumer tralignano e salgono agli onori della cronaca e del pettegolezzo come protagonisti di vicende piccanti che screditano del tutto il ceto mercantile del tempo: nel 1780 un Francesco Domenico de Gumer s'impegola nella massoneria e fonda a Bolzano la prima loggia che ospita il fior fiore dei commercianti; sette anni dopo Francesco e Anton Maria Gumer sono ingolfati di debiti e travolti da un clamoroso fallimento; tornati alla ribalta nel periodo italico, i Gumer con altri mercanti sono implicati nel noto pasticciaccio di Madamigella Menz e nello scandalo del «sussidio inglese». In questo clima di cabale e intrighi il commercio di Bolzano agonizza e, con esso, anche il Magistrato Mercantile che, esautorato e germanizzato fino alle midolla, si riduce ad umbratile istituzione priva di contenuto e di vitalità. I grandi eventi del periodo napoleonico lo travolgono: soppresso, restaurato, rimaneggiato, riprende la sua lenta agonia sotto la Santa Austria; finché, decadute del tutto le fiere e soppressi gli statuti, perde completamente la sua ragion d'essere e il governo austriaco ne decreta la fine, ingloriosa, nel 1850.



DUE PAROLE SULLE FIERE ATTUALI


Dopo circa centocinquanta anni le fiere di Bolzano sono tornate in vita. Le ha riesumate la democrazia di questo dopoguerra: democrazia apportatrice di «novità» e di vanità. Naturalmente la Fiera d'oggi è tutta un'altra cosa: spostata ai margini della città, è stata ambientata in una magnifica gabbia di cemento su cui si legge «Fiera-Messe» in identica evidenza, come esigono i sani principi bilinguistici. All'apertura non più campane, non più tamburi. C'è il discorso del Sindaco, lungo lungo, che non finisce mai: un discorso in chiave di patriottismo europeo di «volemose bene», spoglio ed involuto secondo i canoni della retorica antiretorica del tempo nostro. Accanto al Sindaco c'è un vestigio del buon tempo antico, il magister nundinarunm, che pero non è più italiano come allora: è un tedesco della intramontabile dinastia dei Walther. Duro e compassato, fa finta di non voler far finta e inganna il tempo spiando la noia compatta delle autorità, da Sua Eccellenza in poi, rassegnate a subire fino in fondo la versione tedesca del discorso. Qualcuno ridacchia rivangando l'ultima barzelletta su un tal Ministro - li a due passi in carne e pancia - che impone le tasse e non le paga... Dopo di che, applausi, mollicce strette di mano, fugace visita ai padiglioni e finalmente l'exeunt gioioso verso il banchetto ufficiale che conclude « l'austera cerimonia». Quanto alla fiera propriamente detta non c'è molto da dire. Le novità sono quelle dell'anno avanti: dai rappresentanti d' oltralpe - sempre impalati sullo Stand come sulla torretta d'un Panzer - pronti a «épater le bourgeois» sui progressi della tecnica tedesca, allo spaccio gratuito del brodetto sintetico in tazza. Nulla sopravvive del dinamismo delle vecchie manifestazioni fieristiche. La fiera d' oggi pare governata dal sonno oltre che dai formalismi: appena aperta entra in fase di stanca e riesce a vivacchiare si e no una decina di giorni. E gli affari? Affaronissimi. Basta aprire un giornale d'osservanza per apprendere che «quest'anno il volume d'affari in Fiera ha superato tutti i records precedenti». Ogni anno scrivono cosi, a consolazione del contribuente e a maggior gloria del «miracolo economico».




Conclusione

Al termine della nostra fatica, modesta ma non lieve, ci auguriamo che il paziente lettore apprezzi, se non altro, l'attendibilità della documentazione che ne è serio fondamento, ad onta della olimpica strafottenza nostra affiorante qua e là in queste pagine. Nell'esposizione e nel commento riteniamo di essere stati abbastanza obiettivi. Obiettivi, certamente, ma niente affatto spassionati e senza riguardi per nessuno: né per i conformisti, né per i patiti del «giusto mezzo», né per quei barbassori del campo avverso che la pretendono a depositari della verità rivelata (intendiamo quegli studiosi tedeschi, oculati e metodici, cui nulla sfugge – salvo quello che non fa comodo a loro). I documenti sono quello che sono: parlano italiano. Anche noi, coerentemente, abbiamo parlato italiano; se questo scandalizza le vestali del bilinguismo e gli ammalati di europeite, pazienza. Non è davvero affar nostro il compiacere agl'idolatri dell'autonomia che plutarcheggiano di «pacifica convivenza» in questa terra che, grazie appunto all'autonomia, è tornata ad essere da un quindicennio in qua la terra di cani e gatti. Leggano, codesti signori, i documenti qui pubblicati e – se sono in buona fede – convengano con noi nell'ammettere che la «pacifica convivenza», oggi utopia, fu in altri tempi realtà; che essa non fu mai intitolata a leggi restrittive e discriminatorie – come quelle di Sigismondo, di Giuseppe imperatore e, oggi, dei legiferatori clerico-nazisti – ma al libero espandersi delle attività italiane in questa nostra marca di confine. Affermiamo questo con perentoria impertinenza, ma a ragion veduta e senza malanimo. Dopodiché, statevi bene, amici lettori. Arrivederci e grazie.




L' AUTORE