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sabato 25 giugno 2016

LA STORIA NELL'UNIVERSO, L'UNIVERSO NELLA STORIA - Maria Cipriano

La domanda: “siamo soli nell'universo?” è sempre più una domanda da porre ad uno scienziato piuttosto che a visionari e fanatici.
A cominciare dai famosi e controversi canali di Marte scoperti dallo Schiaparelli nel 1877 e che dettero il via a ferventi dispute sull'origine naturale o artificiali di essi, per tutto il XX° secolo fino ai giorni nostri l'attenzione degli scienziati si è sempre più concentrata sulla ricerca di nuovi pianeti, ed in particolare di quei pianeti che, presentando caratteristiche simili alla Terra quali temperatura, gravità, composizione e distanza dalla stella intorno cui orbitano, potrebbero possedere i requisiti per lo sviluppo di forme di vita.
Grazie al continuo miglioramento della strumentazione e delle tecniche indagative ne sono stati scoperti migliaia solo nella nostra galassia. Per questo motivo la scienza ufficiale oggi ha dovuto ricredersi e riconoscere che la vita extraterrestre, se non è una certezza (per ora), di certo è statisticamente molto probabile.
Inevitabilmente però la scienza “ufficiale” che si occupa della ricerca della vita extraterrestre non può non affiancarsi all'ufologia e prendere atto che le migliaia di avvistamenti e fenomeni inspiegabili documentati devono essere presi in seria considerazione, studiati ed approfonditi applicando il metodo scientifico, evitando di dare adito a mistificazioni, favoleggiamenti, fanatismo o trovate commerciali.
Di queste tematiche se ne è parlato il 7 e l' 8 maggio scorso nella Repubblica di San Marino dove ha avuto luogo il “17° simposio mondiale sulla esplorazione dello spazio e la vita nel cosmo” e il “24° simposio mondiale sugli oggetti volanti non identificati e i fenomeni connessi”.
Ce ne dà un breve resoconto la nostra Maria Cipriano, appassionata di astronomia, la quale, oltre gli argomenti tecnico-scientifici trattati nei due simposi, ci parla della relazione esistente tra Storia ed Universo: una relazione sotto certi aspetti ovvia (qual è la Storia più smisuratamente lunga, contorta, articolata e difficile da sbrogliare se non la Storia dell'Universo?, come potrebbe esistere la Storia senza l'Universo?) e sotto altri assolutamente incompatibile (come può l'Universo infinito e dominato da forze spaventose essere anche solo sfiorato da quell'interminabile susseguirsi di piccoli avvicendamenti dai quali noi deriviamo, quasi delle inezie in confronto ad esso, e che gli storici, cercando di incastrarli tra loro in ordine temporale, chiamano Storia?).

Giacomo Carnicelli


LA STORIA NELL'UNIVERSO, L'UNIVERSO NELLA STORIA 


CETI (Contact with Extraterrestrial Think-tank Italy)


Il 7 e l'8 maggio la Repubblica di San Marino, fedele alle sue secolari tradizioni di libertà e libero pensiero, ha ospitato, com'è ormai consuetudine da molti anni, il 17° simposio mondiale sulla esplorazione dello spazio e la vita nel cosmo, e il 24° simposio mondiale sugli oggetti volanti non identificati e i fenomeni connessi.
La Repubblica di San Marino, non a caso: che dette asilo, rifocillò e soccorse Garibaldi e i suoi prodi fuggitivi inseguiti dagli austriaci, sfidando l'ira di Vienna, che per prima eresse un monumento al nostro Eroe tuttora ben in vista in pieno centro della città, che partecipò e aiutò il nostro Risorgimento, e, unica nella penisola, ha elevato un monumento anche alle vittime dei bombardamenti angloamericani, le quali, come si sa, in Italia sono calcolate praticamente zero, come non esistessero. E dire che si tratta di decine di migliaia di nostri connazionali.
Nella sede del Teatro del Turismo, per due intense giornate, all'ombra dei tre mitici castelli del monte Titano, studiosi, scienziati, astronomi, biologi e semplici appassionati e ricercatori italiani e stranieri hanno parlato con passione e competenza di quello che ormai è e sarà sempre di più l'argomento del presente secolo e millennio: la ricerca della vita intelligente extraterrestre, un tema che, affrancato dalla favolistica fantascientifica, è ormai diventato parte integrante della Scienze astronomiche grazie all'impegno pionieristico di personaggi controcorrente i quali, quando ancora era considerato ridicolo parlare degli Alieni, sfidarono l'ostilità dei governi e le diffidenze di una Scienza ufficiale che non ammetteva nemmeno l'esistenza dei pianeti extrasolari. Ora, invece, di questi esopianeti ne sono già stati scoperti migliaia, anche vicino a casa nostra, cioè a poche decine di anni luce. Dobbiamo esser grati perciò a scienziati come Giuseppe Cocconi (che dopo la guerra se ne andò dall'Italia, accolto in America alla Cornell university), Frank Drake, Josef Allen Hynek, Fred Hoyle, Carl Sagan, e al nostro infaticabile ricercatore Roberto Pinotti, i quali fin dagli anni sessanta seppero vedere lontano, anticipando da varie angolazioni quelli che, oggi, sono dati di fatto assodati: e cioè che i pianeti, perlomeno nella nostra galassia, costituiscono la perfetta regola, e dunque la vita aliena, lungi dall'essere una favola, è quasi sicuramente una realtà. Si tratta solo di scoprire ove sia, come sia, e perchè ancora non si sia fatta viva in modo chiaro e univoco presso di noi o perchè ancora noi non siamo riusciti a rilevarla. Ed è proprio su questo punto cruciale che il discorso degli extraterrestri s'intreccia inevitabilmente a quello dell'ufologia, che farà sorridere molti scettici (e anch'io mi annovero fra i discendenti di San Tommaso), ma che pure è necessario affrontare per avere un'idea completa di tutta la questione, la quale, se pur a denti stretti, è stata ammessa anche dalla maggioranza dei governi del pianeta, ciascuno dei quali ha un suo fascicolo riservato sugli avvistamenti, che in certi casi hanno coinvolto interi gruppi di persone in una volta sola, come a Phoenix in Arizona nel 1997. In Italia, molti ricorderanno l'eccezionale ondata di avvistamenti del 1978, che colpì soprattutto l'Adriatico e il mezzogiorno, in particolare Sicilia, Campania e Puglia, coinvolse carabinieri, piloti, pescatori, addetti ai pubblici servizi nei porti e aereoporti (anche chi scrive fu testimone di un avvistamento lungo la linea ferroviaria Pescara-Ancona), e insomma costrinse giornali e televisioni a parlarne e il governo a prenderne pubblicamente atto. Fu in quell'occasione che l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti incaricò ufficialmente l'Aereonautica militare di lavorare a stretto contatto con il Cun (centro ufologico nazionale), un'associazione privata di ricercatori costituitasi nel 1967 e presieduta dal dr. Pinotti che incontrò personalmente in quell'occasione il Presidente del Consiglio.
Come è stato ripetuto anche in questo congresso, l'ufologia non può più essere ignorata o trattata con sussiego, ma va affrontata, analizzata e studiata seriamente. Oramai è stato generalmente ammesso che esiste un problema Ufo a cui non si è riusciti a dare una spiegazione, e rispetto a cui va sempre tenuto presente ciò che raccomandò il grande astronomo statunitense Josef Allen Hynek il quale mise in guardia dagli imbrogli, le speculazioni, le mistificazioni e le discutibili interpretazioni di personaggi che, già ai tempi suoi, favoleggiavano a ruota libera intorno ad esso. Favoleggiare non può essere impedito e la libertà di parola funziona per tutti, ma, per essere credibile, il problema Ufo va trattato e analizzato scientificamente, in modo rigoroso e lontano da sensazionalismi e sedicenti visioni di profeti e mistici, nonché tenendo conto delle critiche lanciate dai più famosi e accreditati anti-ufologi, come James Oberg, ex ingegnere della Nasa, per i quali il fatto che il 5% degli avvistamenti siano inspiegabili non significa nulla. Per questi critici, il fenomeno ufo non esiste, è una bufala (citano quella, clamorosa, dei palloncini bianchi scambiati per flottiglie aliene), un'invenzione di mitomani, uno scherzo di burloni (famoso quello giocato da alcuni studenti messicani a un detestato poliziotto), oppure una trovata delle due superpotenze per distogliere l'opinione pubblica, o ancora un fenomeno meteorologico, psichico, una forma di psicosi collettiva o di autosuggestione. Essi dimenticano però che fu il governo americano a chiedere ad Hynek stabilmente la sua consulenza scientifica sugli Ufo, e lo stesso Hynek, che inizialmente era assai scettico, fece parte di diverse commissioni governative di studio, prendendo sul serio l'argomento quando cominciò a constatare che tra gli “avvistatori” c'erano anche svariati suoi colleghi astronomi, segno che il problema ufo non poteva essere una bufala, ma una realtà, anche se al momento inspiegabile. In quell'occasione gli scrisse: “Troppo spesso è accaduto in passato che materie di grande valore per la Scienza venissero tralasciate perchè il nuovo fenomeno non si adattava alla visione scientifica del tempo.” Certamente è possibile che gli alieni non c'entrino nulla con gli ufo, e lo stesso Hynek, dopo decenni di studi, ipotizzò che il fenomeno presentava in molti casi caratteri somiglianti al “poltergeist”, cioè a quelle rarissime manifestazioni psichiche che danno luogo a fenomeni reali inspiegabili, quali spostamenti di oggetti, visioni, apparizioni, voci, etc. Tuttavia egli morì, nel 1986, senza aver dato una risposta scientificamente certa, e l'argomento può considerarsi ancora sospeso, anche se pochi anni fa, nel 2013, al prestigioso Circolo della stampa di Washington si è tenuta, di fronte a una commissione parlamentare Usa, una conferenza a cui sono stati invitati i massimi esperti mondiali dell'argomento (per l'Italia il dr. Pinotti) che, sotto giuramento, hanno esposto le proprie testimonianze e conoscenze, e alla fine della quale si è arrivati alla conclusione che il fenomeno Ufo esiste, è un fenomeno reale, espressione di una tecnologia molto avanzata di origine non terrestre.

Ci si può stupire che una persona come me, dedita allo studio della Storia (e in particolare della Storia del Risorgimento) che costringe a stare coi piedi per terra e a scandagliare il ginepraio di vicende tutte terrestri, s'interessi a simili argomenti. Ma proprio il secolo di Garibaldi e di Mazzini, in cui si sarebbe portati a credere la gente rifuggisse da simili argomenti e nemmeno li prendesse in considerazione, era invece animato da un vivo interesse verso i mondi extraterrestri, e quasi tutti, gente comune e scienziati, credevano ai marziani, al punto che quando l'astronomo Giovanni Schiaparelli nel 1877, puntando dal celebre osservatorio di Brera il telescopio su Marte, individuò i famosi “canali”, vi fu una generale ammissione che trattavasi di canali artificiali, opera degli abitanti di Marte. Soltanto nel 1894, un altro astronomo italiano, l'abruzzese Vincenzo Cerulli, dall'osservatorio di Teramo dedusse trattarsi di un'illusione ottica, il che peraltro non smorzò affatto l'entusiasmo, la speranza e l'interesse per i marziani, che continuarono a tenere banco nelle speculazioni scientifiche e nella letteratura fantascientifica, e a cui anche il regime fascista dedicò una serie di storie a fumetti, tra cui il famoso “Saturno contro la Terra”, una saga decennale a puntate, tradotta anche negli Stati Uniti.
Ma, a parte tutto questo, perchè uno storico dovrebbe interessarsi all'universo? A parte l'interesse personale che chiunque facilmente può nutrire verso questi temi così affascinanti, che cosa ha a che vedere la Storia con il cosmo? La risposta è semplice, perlomeno apparentemente, dal momento che la Storia indubitamente E' nell'universo. E, paradossalmente, se non ci fosse l'universo, la Storia non ci sarebbe e non ci potrebbe essere, non ci sarebbe nessuno di quei racconti che gli storici mettono pazientemente insieme concatenandoli in una sequenza temporale per cercare di spiegare chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, cosa abbiamo fatto, che cosa abbiamo intenzione di fare, etc. Dunque, se è vero come è vero che la Storia è nell'universo, esiste una sorta di correlazione tra i due: epperò una correlazione strana, inspiegabile, misteriosa, perchè una realtà così smisuratamente grande, paurosa nelle sue forze, incredibile nelle sue distanze che con fatica riusciamo a calcolare con i parsec e gli anni luce, è il presupposto di cose piccole, infinitesime e addirittura inconsistenti se rapportate a questo gigante cosmico che ci sovrasta, rispetto a cui i microcosmi sospesi nello spazio sono pulviscolo, ma nei quali avvengono i fatti che, messi tutti assieme, costituiscono appunto la Storia. La quale, come dice la parola, è vita superiore di piccoli esseri intelligenti organizzati in comunità, in società via via sempre più complesse, che si aggregano, si scontrano, si combattono, si confrontano, interagiscono, cooperano, si alleano, si conquistano, si massacrano, solidarizzano, nascono e muoiono, alzano gli occhi verso il cielo e lo vogliono capire, e insomma danno luogo a tutta quella serie di vicende cronologicamente susseguenti, spesso convulse, faticose e dolorose, che si studiano sotto il nome di Storia, ma in modo del tutto staccato e avulso dallo smisurato contesto cosmico nel quale avvengono, il quale è e resta indifferente e pare non avervi nessun'altra relazione oltre a quella che, se non fosse lì, la Storia non ci sarebbe.
Fatte queste considerazioni, si palesa una madornale contraddizione ed anzi una vera e propria incompatibilità tra l'enormità smisurata del cosmo e la Storia. Può la Storia che tanto ci coinvolge e influenza le nostre vite, nella quale siamo immersi fino al collo e dalla quale siamo spiritualmente plasmati, essere un insensato granello nel gigantesco lavorìo dei corpi celesti? Apparentemente è proprio così: tra la Storia e il Cosmo non esiste alcun vero rapporto, anzi vi è una palese contraddizione, un dislivello assurdo, inspiegabile, insensato, alla luce di che il cosmo con il suo frenetico incessante lavorìo e la Storia con il suo frenetico e incessante susseguirsi di innumerevoli vicissitudini, proprio perchè privi di una reciproca relazione logica, non avrebbero nessun senso, nessuna causale, nessuna finalità, ma resterebbero sospesi nel nulla, dal nulla partoriti e verso il nulla diretti. A meno che non si possa ammettere che, se la Storia è nell'universo, in qualche modo anche l'universo sia nella Storia. Solo in questo modo si stabilirebbe una relazione logica tra i due, solo in questo modo si aprirebbe una finestra razionale sul formidabile enigma dell'esistenza.
Ma perchè l'universo sia nella Storia occorrerebbe che una realtà così smisurata avesse in qualche modo direttamente a che fare con i minuscoli mondi planetari, il che è molto difficile -ma non impossibile- da immaginare. Come semplice appassionata della materia, io ritengo che soltanto l'esistenza di una civiltà galattica potrebbe costituire la prova che l'universo non è insensato, poiché in tal caso esso costituirebbe l'habitat naturale delle civiltà galattiche, e non più il luogo smisuratamente vasto dove annaspano insignificanti pianetini. Conseguentemente, questi ultimi, solo messi in rapporto con la civiltà galattiche acquisterebbero il senso e il nesso mancante con l'universo che li circonda, il quale universo sarebbe nato per le civiltà galattiche, appunto, e solo secondariamente anche per i piccoli mondi planetari come il nostro, i quali, solo nella misura in cui la civiltà galattica sia entrata nella loro Storia e li abbia fatti in qualche modo partecipi di una realtà più grande, non sarebbero più frammenti dispersi e isolati nel cosmo, ma diventerebbero parte di un gigantesco puzzle, i cui tasselli invisibili e il cui filo labirintico sarebbe molto al di sopra di noi e dei nostri livelli planetari, tenuto in mano da esseri lontani e superiori che probabilmente non vivono e non possono vivere sui pianeti della galassia, e la cui individuazione, impossibile a qualsiasi strumento anche tecnologicamente avanzato, sarebbe perseguibile in via razionale solo se si conoscesse in maniera molto più approfondita l'universo, di cui noi, forse, vediamo solo una piccola parte.


Maria Cipriano

sabato 11 giugno 2016

Intervista a FERRUCCIO BRAVI

PREMESSA 

Sembra ieri, ma sono passati quasi dieci anni dal mio primo incontro con Ferruccio Bravi. Venni a conoscenza del suo operato tramite un meritevole forum telematico – il fu Saturnia Tellus, portale di discussioni intorno all'universo religioso romano-italico – in cui un utente aprì un'intera pagina per dare risalto ai lavori del professore. Rimasi immediatamente colpito dal fatto che abitasse a Torre del Lago, a non più di 10km da casa mia. Così decisi di contattarlo. Presi il telefono e fissai con lui un appuntamento. Mi trovai di fronte un anziano signore – un “vecchietto terribile” come si è autodefinito - asciutto come un maratoneta, scattante e lucido, con una cultura paurosa, capace di parlare correttamente svariate lingue moderne e con una profonda conoscenza delle antiche lingue pre-italiche ed italiche. Restai a dir poco sbalordito. Era la prima volta che mi trovavo al cospetto di quello che comunemente potremmo definire un Dotto. Citava a memoria i più svariati autori, dai classici fino ai nostri giorni, con la stessa scioltezza con cui tutti noi possiamo ricordare le più sciocche strofe dell'ultima canzonetta di moda. Il tutto condito sempre da un sottile umorismo che non lo ha mai reso cattedratico o borioso. Ma ciò che mi colpì principalmente e che mi rese caro fin dal principio Ferruccio, fu il suo proverbiale disprezzo per il lusso e le comodità. Viveva con poco, in una piccolissima casetta, che era in origine il luogo in cui passava le vacanze estive con l'amata moglie, dedicandosi allo studio e all'esercizio fisico. Perché dovete sapere che nonostante la sua veneranda età non passava giorno che non si dedicasse a salutari marce, intervallate da tratti a corsa, intorno all'isolato. E non solo: corda, bicicletta, ginnastica. <<Chi si ferma è perduto>> era solito dirmi con quella sua esuberanza di spirito che tutt'ora lo contraddistingue. Parsimonioso a tavola e nemico spietato d'ogni vizio di gola, si concedeva qualcosa in più soltanto quando andavo a fargli visita e restavo a pranzo con lui. Uomo integro e fedele ai propri ideali, lontano dalla bassa figura dell'intellettuale da salotto che predica bene, ma razzola male. Pensiero ed azione erano e sono una cosa sola per Ferruccio. Da quel nostro primo incontro ho stretto con lui un rapporto d'amicizia di cui non posso che considerarmi fortunato. È stato il mio magister vitae, da cui ho avuto inoltre l'onore di apprendere i rudimenti di Latino, la lingua dei nostri antichi Padri per cui Ferruccio ha sempre nutrito uno smisurato amore, sperimentandone le grandi doti d'insegnamento. Come mi diceva spesso durante i nostri incontri, il vero maestro, secondo una parabola di Giovanni Gentile, deve fare come l'aquila che insegna ai suoi piccoli il volo un poco alla volta, facendo prima brevi tratti fuori dal nido ed elevandoli via via verso l'azzurro sconfinato del cielo. Una capacità che Ferruccio aveva insita dentro sé, un'innata predisposizione a comunicarti l'amore e la gioia di addentrarti nella conoscenza.
Questo e altro ha significato per me l'amicizia con Ferruccio; ma non voglio dilungarmi oltre. Oggi sono quasi tre anni che manca dall'Italia, trasferitosi definitivamente dal figlio in Venezuela. Con la sua partenza ha lasciato a me il compito di portare avanti il Gruppo di Studio Avser, fondato al principio di questo XXI° secolo. Dopo un così lungo percorso, che lo scorso aprile l'ha portato a tagliare il traguardo del novantatreesimo compleanno, ho ritenuto fosse opportuno tracciare un quadro della storia e degli ideali che hanno mosso il nostro fondatore fino ad oggi. Ed ho pensato di farlo tramite un'intervista. Ma è bene chiarire fin da subito che si tratta di qualcosa di più che di una semplice conversazione. Nelle seguenti venti domande, con relative risposte, è condensato quasi un secolo di storia. L'intera vita di un uomo. Ciò che leggerete vi farà capire quello che maldestramente ho provato a spiegarvi in questa mia introduzione; ovvero sia che ci troviamo di fronte ad un esemplare raro per il nostro tempo, di cui è importante preservare la memoria e la testimonianza. Soprattutto per noi giovani, figli di una società che ci propina i peggiori esempi, educandoci al lassismo ed allo scoramento generalizzato. Ecco il senso ed il Valore di questa intervista a cui tengo tanto. L'esempio vivido e coerente di Ferruccio deve trasmetterci la forza di proseguire lungo un percorso quanto mai periglioso, ma necessario, senza aspettarsi chissà quali ricompense, ma solo per il sacrosanto Dovere di farlo. Fedeli al suo motto più caro: “cerchiamo la Patria: il resto ci sarà donato in sovrappiù”.
Buona lettura a tutti voi!


Sandro Righini



INTERVISTA 
A
FERRUCCIO BRAVI


FERRUCCIO BRAVI

08-04-2016
Festeggiando il novantatreesimo compleanno con la prof. Gloria Rodriguez
collaboratrice nel Gruppo di Studio 'Aurinaucus' di Caracas



1) Classe 1923. Nato a Roma, ma vissuto per tantissimi anni a Bolzano. Due città, due lembi d'Italia così distanti fra loro, a cui appartenevano i tuoi genitori. Ci racconti qualcosa di loro?

Sì, sono nato a Roma, però non posso dire “Civis Romanus sum”: i Romani autentici sono scomparsi dalla Città Eterna fin dal tempo del sacco di Alarico e i loro discendenti sono sparsi altrove in Italia.
Sono di padre ‘romanesco’ a sua volta di ceppo centro-settentrionale: nessuna relazione con i ‘bravi’ manzoniani: il casato esisteva già nel Bresciano qualche secolo prima della dominazione spagnola. Non fu mio antenato nemmeno il ‘frate Bravi’, lo schiericato della ‘Secchia rapita’ condottiero di “uomini pravi” in una delle consuete miserabili contese municipali d’un’Italia che anche allora era uno spezzatino alla mercé dello straniero.
Dò per sicuri solo i recenti antenati marchigiani che, come tanti altri sudditi dello Stato Pontificio, erano attirati da Roma come le formiche dallo zucchero. Non erano nobili di sangue, né d’estrazione bottegaia, ma burocrati e militari. Me ne contento.
Meno incerta e per nulla banale è la mia ascendenza materna: gli Zeno-Doliana ai quali sono risalito sfruconando fra le carte del Principato Vescovile di Bressanone presso l’Archivio di Stato di Bolzano (dove fui reggente e poi direttore dal ’50 al 70 con qualche breve interruzioni per conferimento d’altri incarichi). Cito un certo Pietro Zeno bottegaio di Tesero e Vigo di Fassa nel Trentino che all’alba del Seicento, strusciando i banchi di chiesa e le tonache degli alti prelati di Bressanone avviò il figlio Daniele alla carriera ecclesiastica. Struscia-struscia da semplice prete Daniele diventò canonico e poi, nel 1627 principe vescovo di Bressanone. Morì l’anno dopo, appena 44enne. Al contrario del padre – venale e ignorante – era di specchiata moralità e di vasta cultura. Però scriveva in un italiano da groppi, a scappar via.




LETTERA DI DANIEL ZENN (Daniele Zeno), CANONICO BRISSINESE,
POI PRINCIPE VESCOVO DI BRESSANONE

(da: F.Bravi, Processo al Seicento, Bolzano, CDS, 1973)

in data Trento, 10 marzo 1625, al cancelliere vescovile dottor Giacomo Migazzi. Zeno sostò a Trento diretto a Roma per versare alla Chiesa le annate del vescovo brissinese Ottone Agricola. Fra l'altro, accenna ai rischi di allora nei viaggi verso il meridione d'Italia.  



A dare la misura del livello culturale e della specchiata moralità di Daniele basti il motto che si legge sul suo stemma principesco, un motto che precorre il pensiero di Schopenhauer: «Esse, non habere, nec haberi». Per chi non ha il privilegio di intendere la lingua dei nostri padri antichi traduco, a senso: «Essere, non possedere, né essere posseduti». Un principio saggio e santo: l’avessi appreso e seguito nella mia prima gioventù avrei avuto una vita serena invece che convulsa e contraddittoria. Gli Zeni esistono tuttora nel paese di mia Madre e ce n’è anche uno a N.York che si chiama Daniele. È un guru dell’informatica. L’avessi qui a Caracas! Mi sentirei un po’ meno imbranato nell’uso del giocattolone informatico.
Tra i Doliana della linea maschile degli ascendenti materni cito un certo Iaco, pure del ‘600, che fu curato della chiesa di Tires (Bolzano) e tirapiedi dei nobili Colonna del ramo bolzanino. Non era uno stinco di santo, ma alquanto venale e trasgressivo più o meno come certi servi di Dio contemporanei. Allo stesso ramo apparteneva la mia sposa – Caterina Doliana di Martino e di Vittoria Trettel – che era quel che si dice un’anima bella, avvenente anche nell’aspetto. È scomparsa prematuramente. Fu l’evento più doloroso nella mia lunga esistenza.
Per curiosità cito un’ascendente Doliana, Maria, processata per ‘stregoneria’ e arsa viva per maleficio diabolico avendo somministrato agli infermi certe erbe che riteneva – ed erano – medicinali. Non avvenne nel medio evo ma nel 1690 a Merano. Nessuna meraviglia: Sotto la Santa Austria i roghi medievali si protrassero fino ad età recente. (Ne accenno a pag 10 del mio studio Processo al Seicento, Bolzano, 1973). I santi roghi son tornati di moda: si ripete nell'Islamismo ciò che infamava il Cristianesimo nei secoli bui. È di qualche mese fa la notizia della “Strega di Sirte” decapitata dall’Isis.


2 – Tua madre morì in giovane età e non hai fatto a tempo a conoscerla. Come hai passato gli anni della tua infanzia?

All’inizio del primo conflitto mondiale mia Madre, Caterina Doliana suddita austriaca e fervente irredentista affiliata alla Lega Nazionale si rifugiò a Roma in un convento di suore e per il buon cuore di mia nonna Luigia degli Ottaviani, italiana patriottica e generosa, fu ospite in famiglia. Purtroppo le dure vicissitudini trascorse la debilitarono da morire giovanissima.
Di conseguenza restai orfano a pochi mesi e per quattro anni fui rimpallato da un parente all’altro di Roma e altre parti di un’Italia dai confini un po’ meno risicati degli attuali.
Sorvolando su altri soggiorni altrove accenno a quello di strapaese, a Forano, il classico Forum Iani nella Sabina. Ne accenno perché fu li che mi rivelai istintivamente razzista: da cittadino strigliato in scarpette di vernice detestavo i coetanei ‘burini’ dagli scarponcini alti e spesso assestavo loro i calci negli stinchi. Gli aggrediti li prendevano senza reagire, non per vigliaccheria ma per obbedienza ai genitori. Diversamente, nerboruti com’erano, mi avrebbero ridotto a spezzatino. Un perché c’era: mio padre Lamberto, bibliotecario della Sanità Pubblica, aveva sveltito la pratica per l’attivazione dell’acquedotto. Appena sulla metà degli anni venti il bestemmiato regime fascista, a differenza dei denigratori che elargiscono al popolo aria fritta, portava acqua a tutti i centri rurali che da secoli la ricevevano solo dalle nuvole. Ditene peste ma non coprite la verità scomoda insieme con le porcherie dell'attuale casta politica che non sa mettere pietra su pietra.

3 – So che passasti anche un breve periodo a Zara, da poco riunitasi alla madre patria dopo lunghe vicissitudini. Cosa ricordi del tuo soggiorno nella Dalmazia italiana?


Si, fra le successive peregrinazioni è giusto ricordare l’approdo a Zara, dove fui accolto dalla mia zietta Anna Philipp che rideva sempre e parlava il bel vernacolo veneto locale. Lo parlava, si sarebbe detto, con la convinzione che anche nel resto del mondo si parlasse dalmata. A tutt’oggi questo dialetto sopravvive per merito della residua collettività italiana appoggiata dalla Lega Nazionale.

ZARA ITALIANA 1927

Un muléto dell'altra sponda, felice,
con le ziette dalmate e al timone del soprèsso de Puntamiga.

Il muléto sono io all'età di quattro anni.

Soprèsso vuol dire 'ferro da stiro'. Così, per la strana forma,
si chiamava il vaporetto che collegava la città al Lido incantevole di Punta Amica.



La zia Anna era sposa novella e spesso mi lasciava solo sulla spiaggia di Puntamiga sotto la canicola per godersi la passeggiata romantica con lo zio Vincenzo. Una volta, più accaldato che mai sul mezzodì, adocchiata una bottiglia di ‘dalmato’ sotto l’ombrellone, mi rinfrescai con qualche generosa sorsata: fu una storica ciucca, l’unica della mia lunga vita, essendo astemio come un beduino secondo la tradizione della mia sobria ascendenza.

4 – E dopo Zara tornasti a Roma?

Esatto. Verso la fine del 1927. Dei successivi ricordi nella città natale, ne rievoco uno di valore pedagogico che rende l’idea di quello strano labirinto che è il cerebro infantile. Alla soglia dei cinque anni fui rinchiuso in un asilo di Monteverde gestito da certe suore incappucciate che ci sostentava con cavoli, rape e altro che, a paragone, il peggior rancio della naja diventa manicaretto. E, come la peggior mafia, ci educava a bocche cucite. Quella prigionia durò pochi mesi, ma abbastanza da rientrare in famiglia muto, enigmatico e anoressico. L’amatriciana e altre prelibatezze della cucina romanesca mi facevano schifo. Mio padre esasperato, dopo averle provate tutte, anche con le cattive, minacciò di riconsegnarmi alle incappucciate. Il terrore fu tale che divenni ‘spaghettaro’. Duecento grammi di pasta a peso crudo più la ‘pummarola ‘ncoppa fu il mio piatto unico preferito in gioventù e lo è anche ora, ovviamente ridotto di metà.
Comunque fra le suorine incappucciate e gli apologeti dell’abbuffata la giusta misura è sulla metà. Se alla soglia della novantatreesima primavera sono ancora lucido e sano, questo lo devo all’osservanza del sacrosanto precetto oraziano: “In medio stat virtus”.

5 – Al di là della parentesi nell'istituto religioso, si può dire tu sia cresciuto sotto l'egida del Fascismo, che in quegli anni tanto si prodigò per la gioventù italiana. Come si svolse la tua educazione negli anni del regime?

Il rapporto con le associazioni giovanili fu per me problematico. Ero condizionato da carenze educative a seguito dei continui mutamenti nella prima infanzia, lontano da mio Padre vedovo e solo: ero disordinato, istintivo, bizzarro. Figurati un soggetto del genere in un ambiente dove si additavano a modello Muzio Scevola, Pietro Micca e Cesare Battisti, dove 'squillava il nome del Ragazzo di Portoria', Giovanni Battista Perasso detto Balilla, come la prestigiosa robusta Fiat che era in cima ai desideri dei padri e ancor oggi suscita emozione e tenerezza in antiquariato. I miei coetanei erano svegli, scattanti, gioiosi di vivere, l'esatto contrario di chi, ora, è giovane solo agli effetti anagrafici.
Dal canto mio, ero delicatino e bamboccio. Mi chiamavano Gelsomino. Madre Natura mi aveva dotato di garretti di lepre e cuore gagliardo; ma ero afflitto da un'animula blandula altalenante fra esitazioni ed ansie.
In palestra ero una frana. Nel salto in alto prendevo una gran rincorsa e mi bloccavo alla traversa. I compagni ridevano, mi sentivo più meschino che mai, peggio di quel vigliaccone di Don Abbondio che diceva: «Uno il coraggio non se lo può dare».
Non è vero. Me lo son dato, il coraggio, e sono uscito dalla schifosa palude. Non da solo, ma con l'aiuto e la guida di un istruttore umano, paterno, seppur manesco e militarmente rigido. Ho vivo nel ricordo il mio benefattore: Volpi si chiamava, già tenente dei bersaglieri nella'15-'18, decorato di medaglia d'argento.


GIOVENTU' ITALIANA DEL LITTORIO

Le muléte zaratine sfilano lungo la Riva Nuova. In Dalmazia vestire la divisa voleva
dire, prima che Fascisti, <<essere meravigliosamente italiani>>.


Nell’Opera Nazionale Balilla era un centurione non proprio evangelico, un fascista di grinta che ci credeva. Di certo non rinnegò. Avrà pagato ben cara la sua coerenza. Che Farinata fosse ghibellino, guelfo, bianco o nero come l'inferno, o partitante di se stesso, nulla toglie o aggiunge alla sua statura. Sta di fatto che l'istruttore Volpi mi cambiò da così a così. Fece di me un moschettiere infaticabile nelle marce, niente male negli esercizi ginnici, scoiattolo alla pertica, alipede nei 100 metri. Restava un solo timore: di non aver abbastanza coraggio all'occasione, per cui diventai spericolato al limite dell'incoscienza. Da un estremo all'altro: "dum vitant stulti vitia in contraria currunt".

6 – Questa smania di dar prova di sé, questo eroismo civile, era un sentimento condiviso anche tra i tuoi coetanei?

A quel tempo si era tutti più o meno affetti da 'balillite' acuta, smaniosi di guadagnarci la Croce al Merito per un atto di valor civile, a rischio della vita «che a rischiarla sai quanto vale». L'impegno morale era al di là delle forze, qualcuno di noi restava indietro, ma poi recuperava. Come fu nel mio caso.
Mi esaltavo alle tavole di Beltrame sulla "Domenica del Corriere" che di tanto in tanto raffiguravano l’atto eroico del piccolo moschettiere, sempre inappuntabile nell'uniforme: fez inclinato a destra, fazzoletto azzurro al collo, camicetta nera, gibernetta alla cintura dei calzoncini grigio-verdi.
Ammiravo estasiato l'intrepido balilla che si slanciava dal ponte con tuffo da olimpionico, avrei dato Dio sa quanto per essere lui e meritare con quel gesto l'agognata Croce d'argento e d'azzurro! Santa impazienza: bisognava attendere l'occasione. E innanzi tutto saper nuotare; ma a nuotare imparai anni dopo.
L'occasione del ‘gesto eroico’, per così dire, mi si presentò nell’inverno del ‘34, ma ci mise la coda il diavolo. Fu a Roma dove undicenne frequentavo la prima classe nel Ginnasio Umberto I. Nell’attraversare il piazzale del Colosseo che ti vedo? Una vecchietta che arranca verso il binario del tram mentre so-praggiunge la 'Circolare'.
Getto la cartella, mi butto a pesce e nella foga inciampo, la vecchietta cade e io ci cado sopra. Brusca frenata. Il tranviere, un fusto atticciato tipo Fabrizi, scende furioso berciando: «A' regazzí, macché sei scémo? Ahó! A mmomenti v'acciaccavo a tutt'e ddue!». Divento un pizzico; mai tanto svergognato in vita mia. Rimetto in piedi la vecchietta mezza morta di paura, raccolgo la cartella e via lesto a casa con una faccia da quattro in latino.
A completare il quadro accenno al dopo. L'Opera Balilla divenne Gioventù Italiana del Littorio e poi fu sciolta dalla defascistizzazione. Svaniti i sogni e i castelli in aria, adesso ci ritroviamo deliziati da una Gioventù Italiana del Mortorio.
Nella "Domenica" del dopoguerra altro clima, altri disegnatori, altra musica. L'ultima tavola che esaltava gli atti d’eroismo civile, che io sappia, apparve sulla fine degli Anni ’40. Protagonista un aitante fratacchione, in saio cordone e sandali, tuffatosi nel fiume per salvare un Nonsochì. A maggior gloria del Signore e della Diccì.

7 – Hai citato la Gioventù Italiana del Littorio. Cosa ti hanno lasciato gli anni passati sotto la GIL?

Cosa mi hanno lasciato gli anni della G.I.L.? Presto detto: un’acuta nostalgia che, al confronto con la realtà attuale, suscita indignazione.
Con buona pace della retorica corrente posso affermare che la gioventù degli “anni ruggenti” era l'esatto contrario di quella di oggi che in massima parte è giovane solo agli effetti anagrafici. Non sta a me condannare, né giustificare il modello standard contemporaneo del ragazzo che si droga per evadere da un'esistenza demotivata e si stordisce nel fracasso delle discoteche per sentirsi vivo.


8 – Passiamo oltre. Allo scoppio della guerra non avevi ancora compiuto diciott'anni. Quale fu la tua istintiva reazione di fronte a quel drammatico evento?

All’entrata dell’Italia in guerra, il 10 giugno del ’40, ero diciassettenne, assunto in prova come dattilografo presso l’Archivio di Stato di Roma.
Esordiente e ignorantello qual ero mi trovavo a disagio fra colleghi maturi d’età e di grande cultura, quasi tutti antifascisti, al solito borghesi marci e disfattisti. All’annuncio dell’intervento si fregarono le mani. Non per zelo patriottico ma per infame prospettiva di disfattismo. Uno di loro esternò sadicamente la sua euforia: “L’Italia ne uscirà fracassata. Questa sarà proprio la volta buona per toglierci il Capoccione dai santissimi!”
Fu profeta. Come altri farabutti che – a dirla col Giusti – ‘colsero i frutti del mal di tutti’.
Fuori di questa miserabile cerchia c’erano tre dipendenti di mezza età: due erano reduci e mutilati della Grande Guerra, il terzo un aitante gioviale toscano per il quale vale la pena di allargare il discorso essendo una figura emblematica a cavallo del Venticinque Luglio che nella storia è la cartina al tornasole dell’opportunismo politico.
Era un ‘fascista immarcescibile’ distaccato altrove ‘per speciali compiti’, ma di fatto trascorreva le ore lavorative nei caffè di via Veneto. Appariva all’Archivio solo il 27 del mese, in elegante orbace, a riscuotere lo stipendio e, subito dopo, tela! con rigoroso saluto romano.
Quando, l’anno dopo, conseguii la maturità mi dette una manata sulla spalla: «Bravo ragazzo! Adesso, la è ora 'he tu faccia 'r tu' dovere. La Patria 'hiama».
Gli feci intendere che, stando al dettame del duce, «il proprio dovere si fa anche montando la guardia al fusto di benzina». Per intanto il mio dovere lo assolvevo pigiando i tasti della 'Olivetti M40' al posto d’un collega quarantenne che compiva il suo in Africa.
Aggiunsi che da un pezzo sarei partito volontario; ma ci voleva la firma del babbo e il babbo non voleva...
E lui: «'odesto 'un gli è un intoppo. Io ‘onosco la via più spiccia: gli è ir trampolino! Lascia fare a me». Il 'trampolino' era una spiccia trafila burocratica: da Giovane fascista al GUF, di qui alla Milizia universitaria dove si imboscavano i figli di papà, e infine ad altra specialità della Milizia dove si rischiava di brutto.
Nel novembre 1941 fui arruolato nella Milmart (Milizia Marittima di Artiglieria Contraerei). Ero uno sbarbatello fra veterani della’15-18. Fu l’unica specializzazione nel mio lungo servizio, quasi tutto assolto da fante affardellato.
Non logorerò la memoria né uggirò il lettore narrando le mie peripezie militari che non ebbero nulla di eroico e straordinario, ma neanche di vergognoso. Aggiungo solo che verso la fine del ’45 tornai nei panni borghesi, deluso e ammaccato, al vecchio posto di lavoro più o meno restato com’era.
E al primo 27 del mese chi ti rivedo? Lui, il toscanaccio, pure in borghese. Pacche sulle spalle ed effusioni varie.
Dice: «Ti trovo bene! Icché mi 'onti di nòvo? O ccome ti senti, ora ch’è tutto 'ambiatho?». Dico: «Non me ne parlare: è uno sfascio, un casino in tutte le accezioni, dalle ‘segnorine’ che puttaneggiano, ai partiti. Gli americani? Te li raccomando: pinzi di vino già di mattina, volgari e arroganti, spadroneggiano e insudiciano tutto. E li chiamano ‘liberatori’... Alla larga!».
«O icché pretendi? – ribatté lui, visibilmente contrariato – Ài mai visto varchiduno 'he ti dà un'inezia per niente? ‘Un sono mi’a tutti ‘ome me. Tò: ò arrischiatha la pelle, io! E pe' la 'àusa giusta... Leggi và». E mi spiana sotto il naso una specie di bollettino parrocchiale additando due nomi in un lungo elenco. Era un periodico dei lavoratori dello spettacolo aderenti alla ‘resistenza’. I nomi erano il suo e della procace consorte, artista di ‘varieté’, nota in ambiente per aver sprimacciato i letti d’un baldo manipolo di gerarchi.
La banda era cambiata, ma la musica era la stessa: ogni fine mese mi toccava rivedere quel fascista immarcescibile pentito che, alius et idem, continuava a scroccare lo stipendio per meriti resistenziali e di alcova.
Finché, come piacque a Dio, mi trasferii a Bolzano e non lo rividi più. Aggiungo un cenno all’«epurazione» che colpì duramente due miei zii fascistissimi fino all’ultimo. Anch’io fui sottoposto a giudizio, ma fui scagionato dal commissario epuratore che aveva la coda di paglia. Sapeva che io sapevo: da zelante fascista si era convertito per tempo all'antifascismo.

9 – Non ci sono proprio episodi che vorresti ricordare della tua esperienza militare?

Ribadisco che non ho voluto dilungarmi sulle mie vicende belliche dalle quali non conseguii meriti, ma nemmeno demeriti.
Se scorro il mio striminzito foglio matricolare mi sento piccolo piccolo a confronto del mio eroico amico, la M.O. Emilio Bianchi, 

recentemente scomparso alla bella età di 103 anni. Bianchi fu uno dei sei ‘siluri umani’ che nel porto di Alessandria infersero un colpo mortale alla marina britannica: in coppia col sottotenente di vascello Durand de la Penne squarciò la corazzata Valiant che restò immobilizzata nel porto per tutta la durata della guerra.
Unica opportunità di vantarmi è l’aver convinto l’eroe del mare a descrivere le sue avventure in un diario edito dal ‘Centro di Studi Atesini di Bolzano’.
Ho motivo d'orgoglio anche per l'aver corredato di note e parerghi la sua narrazione e di aver composto graficamente il testo, pronto per la stampa.
Per il resto confesso che nei confronti dell’autore mi sentivo una mosca cocchiera. Beh, sulla carta potevamo competere; ma sul mare…
Figuratevi me, pigro nuotatore che in mare mi tengo appena a galla e se scendo un metro sotto il pelo dell’acqua bisogna chiamare la “Misericordia”.
Con che coraggio appaiarmi a un eroe dell’abisso?

10 - Dopo l'esperienza bellica hai ripreso a studiare e ti sei laureato all'università di Napoli. Raccontaci qualcosa sul tuo percorso di studi.

Prima dell’esperienza di guerra non avevo ancora iniziato gli studi universitari: ebbi appena il tempo di iscrivermi, a Napoli.
Fu la prima volta che vidi la città e ne conservo un brutto ricordo. Non per i napoletani che giudico schietti e «tutto còre» ma per l’orrore di un’incursione dei pirati dell’aria a stelle e strisce nella notte precedente il mio arrivo.
Orrore, sì, alla vista d’un quartiere popolare devastato nella notte dalle “fortezze volanti” americane: nel pensiero mi affiorano vive come allora le urla disperate della povera gente che aveva perduto consorti, figli e casa. Quei mostri mastica-ciunghe avrebbero, sì, meritato la forca e la macabra botola di Norimberga. L’obiettivo era il porto ma, ad evitare la contraerei molto efficiente, quei maledetti avevano scaricato le bombe, al solito, sulla popolazione inerme, come poi a Roma il 19 luglio del ‘43.
Chiamateli ‘liberatori’, se vi piace. Io li chiamo criminali e vigliacchi (Vietnam docet).
Ho perdonato a tutti ma a loro mai. Al contrario, i popolani di Napoli qualche anno dopo, al rimpatrio dell’occupante, cantavano: «Chi à ddate à ddate à ddate / chi à avute à avute à avute / scurdàmmece ‘o passate / simme ‘e Napule, paisà». Io quel passato non lo cancellai dalla memoria; ancor oggi nutro una avversione annibalica verso i ‘liberatori’.
Pochi giorni dopo l’iscrizione all’università ero partito volontario. Al ritorno, verso la fine del ’45, riattivai l’iscrizione. Frequentai assai di rado: studiavo a casa e davo qualche capatina a Napoli nell’imminenza degli esami. Di volta in volta constatavo il progressivo mutamento ideologico di docenti affetti dal virus marxista e anche di non pochi studenti sedotti dall’esca demagogica e dalla prospettiva della laurea facile per merito politico.
Ricordo, all’inizio, uno studente agit-prop del PC: dal portico del cortile esaltava il Barbone di Treviri e il “Migliore” (Palmiro Togliatti). Fu subissato di fischi, risate e pernacchi da una discreta folla di studenti.
Pánta rhèi’, dice Eraclito: tutto scorre; sta di fatto che quando mi laureai – avanti negli anni: nel 1952 – il clima politico era del tutto ribaltato: i Rossi occupavano un buon numero di cattedre e oltre metà dei banchi; e a chi dissentiva niente fischi e pernacchi ma «palliatoni» a pugni, calci e sprangate.
Comunque me la cavai: fui esaminato da una commissione di docenti anziani e tornai a casa laureato con un bel 105. Avevo avuto successo per una tesi, in lingua tedesca, su Oswald von Wolkenstein, nobile tirolese del ‘400’, discreto poeta, musico e giramondo, ma anche furfante. Per me fu un po’ giocare in casa, avendo colto l’opportunità di documentare la biografia con alcune scritture inedite dell’Archivio di Stato di Bolzano dove, da Roma, mi ero trasferito nel ’50. Vi ero entrato da modesto mezze-maniche della carriera e-secutiva, ma poi vi conseguii gli incarichi di reggente, direttore e docente di paleografia.

11 – A Bolzano, se non sbaglio, facesti la conoscenza di Carlo Battisti. Cosa ricordi del grande linguista?

Si, fu proprio all'Archivio di Stato che incontrai il prof. Carlo Battisti: un omino spiritato della Val di Non, un cervellone così, glottologo principe, versatile al sommo. Era noto al grosso pubblico per la pellicola “Umberto D.” di De Sica, storia d’un pensionato povero e romantico. Fu l’unica sua esperienza cinematografica e vi recitò da primo attore. Una pellicola da far commuovere i sassi, la più verace della pretenziosa cinematografia verista del dopoguerra.
Il prof. Battisti frequentava l’Archivio di Stato per documentare la germanizzazione forzata della toponomastica atesina (ad es. la forma italiana Sarentino attestata nel 1263 poi mutata in Sarnthein e l’idronimo Rienza apocopato in Rienz. – Altri esempi reperibili in mie pubblicazioni sulla toponimia atesina).
Il Maestro apprezzò la mia tesi e volle pubblicarla tradotta in italiano nell «Archivio per l’Alto Adige» (annata 1955), col titolo “Mito e realtà in Osvaldo di Wolkenstein, poeta atesino del ‘400.”
Da allora in poi restammo sempre in contatto per collaborazione e amicizia.



12 Subito dopo la guerra in Alto Adige iniziarono le tensioni tra i due principali gruppi linguistici che abitavano sul territorio. Che clima si respirava in quegli anni a Bolzano?

Appena trasferito a Bolzano constatai gli effetti devastanti dell’autonomia degasperiana che ghettizzava il gruppo linguistico italiano a vantaggio dei cittadini allogeni. Fra gli orrori: la riesumazione del ‘maso chiuso’,
Questo residuo di barbarie settecentesca, soppresso dal regime fascista, stabilisce che nelle famiglie rurali il primogenito eredita tutto e i fratelli minori, previo tenue formale indennizzo, sono ridotti alla condizione di servi agricoli. Questa e altre discriminazioni, a danno soprattutto dei cittadini di lingua italiana, furono concertate da una intesa della sinistra ‘progressista’ con i clericali.
La situazione linguistica era caotica: in massima parte gli atesini di lingua italiana ignoravano il tedesco, e quelli definiti di lingua tedesca parlavano tirolese. I più conoscevano l’italiano ma, istigati dal partito clericale sud-tirolese (SVP), non lo parlavano. Per me fu uno strazio comunicare con loro fin quando escogitai un trucchetto: chiedevo di brusco “Sprechen Sie deutsch?” e questo bastava a confondere l’interpellato che farfugliava in un italiano trentineggiante. Per gli austriaci e i germanici, poi, comunicare era una impresa titanica: nessuno li capiva tranne qualche cittadino colto o bilingue.
All’Archivio di Stato un visitatore di Colonia si congratulò con me che ero stato l’unico bolzanino da cui era riuscito a farsi capire. Esultò: “Priiima! Ein neapolitaner der so gut meine Sprache spricht!”. Napoletano? Precisai che non lo ero essendo romano di nascita.
Andò in brodo di giuggiole, disse che eravamo compatrioti essendo i cittadini di Colonia, in gran parte, diretti discendenti dei Romani antichi. Mi diventò amico e mi inserì nell’albo della sua prestigiosa associazione la quale, per l’appunto, incentivava gli studi sulla Romanità.

13 – Immagino che questa situazione ti portò istintivamente a reagire in difesa dell'italianità di quelle terre per cui, nella guerra del '15-18, tanti compatrioti donarono la vita. Quali furono le tue prime attività culturali nel capoluogo alto-atesino?

A Bolzano intensificai la mia attività di studioso soprattutto a favore della negata italianità. Collaborai all’«Alto Adige», unico quotidiano sensibile alla difesa della nostra identità nazionale. Il direttore militava nel PRI che due anni dopo gli impose le dimissioni. Anche a me fu chiusa la porta in faccia: per i miei sentimenti italiani avevo la fama di fascista.
Per l’esattezza, dopo la mia estromissione, sul quotidiano atesino apparve inopinatamente in terza pagina, sotto altro nome, un ampio estratto del mio studio L’Archivio Storico di Vadena pubblicato nel 1962 in “Archivio per l’Alto Adige” di Carlo Battisti. Era il profilo storico introduttivo, debitamente epurato dell’ultima sezione che documentava l’ostinata resistenza dei vadenesi di lingua italiana alla germanizzazione selvaggia da parte dei tedescanti. Il testo castrato era a firma del plagiario, un compiacente collaboratore pirata del quotidiano conformista.
Me la cavavo senza infamia anche da vignettista avendo già collaborato, a Roma, alla pagina umoristica di “Tribuna Illustrata” e alle “Favole di Cineavventura di Fantera. A Bolzano disegnai anche per il settimanale in lingua tedesca «Der Standpunkt». Era un organo di stampa indipendente non ostile all’italianità, e per questa ‘colpa’ fu costretto a cessare le pubblicazioni.
Mi ritrovai così del tutto ghettizzato. La mia attività in difesa della nostra cultura proseguì nel Movimento Sociale Italiano, unica formazione politica che, almeno a Bolzano, nulla concedeva alla sovversione dei valori civili.

14 – Eri iscritto al MSI?

No. E' giusto che apra una breve parentesi sulla mia posizione ideologica. Nell’immediato dopoguerra militai nell’Uomo Qualunque che almeno in pri-mo tempo promuoveva la riconciliazione degli italiani. Fondatore e presidente era Guglielmo Giannini, uomo di spettacolo tuttavia di ben altro dna rispetto all'attuale Beppe Grillo. Dopo un paio d’anni l’U.Q. tralignò e io “feci parte per me stesso”.
Poco più tardi nacque il M.S.I. partito di raccolta dei perseguitati politici e degli elettori delusi da marxisti e clericali. Al M.S.I. non fui mai iscritto avendo giurato, dopo la delusione qualunquistica, di rifiutare qualsiasi tessera di partito; comunque, già a Roma, avevo collaborato attivamente nella federazione di corso Vittorio Emanuele dove mi era stata affidata la redazione del giornale murale. Seguii fedelmente Almirante nei comizi laziali del ’48 e mi guadagnai la sua stima. 
Due anni dopo lo incontrai di nuovo a Bolzano nella grande piazza della Vittoria straripante di folla: mi riconobbe e mi restò sempre amico. Approvava e incoraggiava la mia attività nel Centro di Studi Atesini di cui fu estimatore e socio onorario.



Telegramma di Giorgio Almirante

in apprezzamento della mia <<INCHIESTA SUI NOMI DI LUOGO ATESINI>>

15 – Quando e come nacque il periodico “La Vetta d'Italia”?

C'è da fare un piccolo preambolo. Nella sede bolzanina del MSI ripresi alla buona la mia attività pubblicistica fondando il “Di-di-ti” (nome d’un insetticida di allora) stampato – per modo di dire – da un duplicatore ad alcool: la matrice era dattiloscritta e corredata di disegni a colori da me incisi, per cui mi accoccarono il soprannome di ‘Graffiacarte’. Anche l’impressione era alla buona: bisognava girare la manovella con moto uniforme ed estrema cautela per ottenere, senza incidenti, un centinaio di copie. Poche, sofferte e striminzite, però andavano a ruba.
Tanto lavoro e scarso frutto, fino a quando, un anno dopo il federale di Bolzano – l’avvocato Andrea Mitolo già valoroso ufficiale degli Alpini e ardente patriota – finanziò di sua tasca il periodico “La Vetta d’Italia” di cui fui collaboratore assiduo dalla fondazione (anno 1957) fin verso la fine del secolo scorso: oltre che saggi di storia atesina vi pubblicavo sotto pseudonimo (Asmodeo e Totila) vignette e satire non so quanto apprezzabili per umorismo, ma di sicuro lesive nei riguardi dei politicanti vili e servili. Tant’è che fui incriminato per reati di stampa ben tre volte, più o meno pretestuosamente. Basti dire che fui imputato per “vilipendio alla religione di Stato” (reato poi depenalizzato) per un trafiletto in cui si deplorava che i cattolici avevano calato la cortina del silenzio sui martiri della rivolta di Budapest. Avevo bollato la complicità della Chiesa con un modesto “per tacer dei pulpiti”. Tanto bastò per essere incriminato da una toga rossa che scorreva la ‘Vetta’ da cima a fondo setacciando pure le virgole.
Costui era il procuratore della repubblica Corrias, già segretario del presidente Saragat. Comunque la trappola giudiziaria non scattò, il processo finì in barzelletta e io ne uscii illeso.
È d’obbligo un ulteriore accenno alle mie vignette satiriche le quali, erano apprezzate assai più dei miei sudatissimi articoli sull’italianità dell’Alto Adige appesantiti da un nutrito corredo di documenti necessario ma uggioso per il lettore: artistica-mente i miei disegni non erano capolavori ma cavavano la pelle ai negatori della italianità atesina. Il mio nome in calce agli articoli era alquanto ignorato in ambiente, ma non lo pseudonimo ‘Totila’ (poi ‘Sval’, dall’eteronimo Silvano Valenti tuttora noto ai miei lettori) apposto in calce alle vignette.


UN MONDO PULITO

Vignetta estratta da: Vivere con il Latino




16 – Che ricordi hai dell'avvocato Mitolo, della vostra amicizia e delle sue battaglie politiche in quegli anni difficili?

Andrea Mitolo (*Randazzo 16 aprile 1914 + Bolzano il 21 agosto 1991) spese un’intera vita per la difesa della Patria e dell’italianità dell’Alto Adige: ufficiale pluridecorato degli Alpini, combattente in Balcania e nella R.S.I,. scampato alle stragi partigiane, federale del MSI alto-atesino accanitamente avversato da rossi, clericali e austriacanti della SVP, fondatore e direttore de “La Vetta d’Italia” unico foglio altoatesino che abbia difeso l’italianità della nostra provincia di confine.
Dell’avv. Mitolo devo elogiare il suo altruismo, anche nei miei confronti. In-coraggiava e apprezzava la mia collaborazione alla “Vetta” e la premiò donandomi una Olivetti ultimo modello da poter dattilografare spedito i miei articoli/testi senza eccessiva fatica. Da valente avvocato assisteva i perseguitati politici e, per quanto mi riguarda, mi dette assistenza in tre pretestuosi processi. Non era obbligato a farlo con me che non ero iscritto al Movimento Sociale, essendo solo un simpatizzante solidale nella sua costante intransigenza nella difesa dei valori nazionali, unica nell’ambiente altoatesino.
Fu socio del mio Centro di Studi Atesini che sostenne e incoraggiò nelle difficoltà. Con la sua scomparsa troncai ogni rapporto con l’area missina che fu invasa da ‘convertiti’ ritardatari non immuni dagli scontati mali della partitocrazia. Invasero anche le colonne della “Vetta” in cui non ci fu spazio per la mia collaborazione. A dare una idea del livello morale del nuovo clima della “destra nazionale” accenno ad una giovane avvenente coinquilina che, prima di approdare all’ambiente missino, ad ogni quattro novembre sghignazzava quando imbandieravo le finestre. Era d’estrazione clericale e di padre democristiano. «E questo fia suggel ch’ogn’uomo sganni…»

17 – Oltre all’avv. Mitolo anche altre personalità di rilievo aderirono al Centro di Studi atesini. Puoi fornirci un elenco?

Oltre ai già citati (Mitolo, Battisti, Almirante) elenco in ordine alfabetico i più insigni aderenti o simpatizzanti del CSA:

Guido Canali: direttore dell’Archivio di Stato di Bolzano (già funzionario all’A.di S. di Zara e infine economo all’A.di S. di Roma: autore di varie pubblicazioni storico-archivistiche e romantico narratore.

Giorgio Del Vecchio: docente e poi rettore dell’Università di Roma. Nel 1921 aderì al fascismo che mai rinnegò. Ebreo, non ebbe vita facile in clima di ‘leggi razziali’ di cui certi colleghi, per amor di carriera, esigevano l’applicazione indiscriminata. Rappresentò il neo-kantismo italiano, avversò il positivismo e difese l’italianità dell’Alto Adige.

Roberto Fondi: Docente dell'Università di Siena e membro dell’ “Accademia dei Rozzi” dove, mi invitò a presentare in anteprima il mio studio «Il Sacro dei Mediterranei».

Aurelio Garobbio (pseud. Bodincus): Irredentista ticinese, esule a Milano, alpinista, narratore, autore di numerose pubblicazioni prevalentemente sulla popolaristica alpina. Socio di antica data del Centro di Studi Atesini che nel 1989 pubblicò e diffuse i suoi pregevoli studi Gabriele d’Annunzio e i “Giovani Ticinesi”e Begli esempi! Begli esempi! In margine ai ‘bimillenari ladini’.

Augusto Marinoni: professore e articolista di “Volontà” periodico dei prigionieri di guerra non collaboratori, autore del nostro studio "Lingue ed etnie - La torre di Babele" , (Bolzano 1992) che in chiara sintesi tratta delle "microculture" d'Italia e dei particolarismi che promuovono a lingua i dialetti.

Rinaldo Orengo: ingegnere ligure di ascendenza nizzarda, profugo A.O.I. autore di varie pubblicazioni, in prevalenza di letteratura italiana fra le quali L'Aedo: Gabriele D'Annunzio visto da G. D'Annunzio edita dal Centro (Bolzano, 1985).
Achille Ragazzoni: farmacista ligure di Collalbo (Bz) storiografo e strenuo difensore dell’italianità di Nizza in numerose pubblicazioni di rilevante valore storico fra le quali, edite dal Centro: P. Fortunato Calvi, l'eroe del Cadore, con appendice poetica e un saggio su Zoldo nel 1848 (Bolzano, 1983), “Un garibaldino dimenticato: Camillo Zancani da Egna” (Bolzano,1988).

Nicolò Rasmo (socio onorario): professore, letterato di vasta cultura, direttore del Museo Cittadino di Bolzano autore di importanti studi di storia dell’arte atesina.

Riccardo Maria degli Uberti: discendente del Farinata dantesco, prode combattente 1943-45, letterato autore del saggio Ezra Pound, da Rapallo a Castel Fontana pubblicato dal Centro nel 1985.

Fra le personalità contattate nella mia lunga permanenza in Alto Adige cito anche la prof. Livia Battisti figlia del Martire trentino con la quale ebbi un polemico scambio epistolare in merito alla falsificazione di uno ‘storico marxista’ che aveva espunto da una lettera dell’Eroe - alla consorte Ernesta, nell’estate del ’15 dal fronte del Tonale – una esplicita dichiarazione sul-l’italianità del confine al Brennero. La Livia, affetta essa stessa di marxismo, aveva maldestramente difeso il falsario che fra l’altro insinuava che il testo fosse stato manomesso non da chi aveva soppresso la frase, ma da chi l’aveva fedelmente riportata.


Livia Battisti a Ferruccio Bravi da Trento, 4-I-1967

Estratto da: AA.VV., L'Italia al Brennero - 1918-1988, ediz. de "La Vetta d'Italia"
Quaderni della Clessidera, n.8, Bolzano (Presel) III ediz., 1988. 


Ben altra statura aveva la Ernesta Bittanti, vedova del Martire che anteponeva l’Italia alla passione politica.
Ricordo che, una decina d’anni prima della mia breve disputa con la figlia Livia, mi aveva inviato poche righe per ringraziarmi di averla divertita con certi epigrammi vignettati che avevo diffuso a Trento in occasione della prematura erezione dello sconcio suppositorio ivi innalzato al ‘trentino pre-stato all’Italia’.
Aveva apprezzato la vignetta in cui Dante, “l’eterno esule”, scendeva crucciato con una valigetta ventiquattrore dal piedistallo del suo Monumento brontolando un’invettiva contro i trentini: «Se preferite a me il democristiano / faccio fagotto e me ne vo’ a Bolzano ». In particolare le era piaciuta la ‘sfumatura lirica’ d’una mia quartina su ‘el ròcol del pôr Cesar’ (il Sacrario trentino del Martire)

Quando imbruna, sul Doss Trento
scende un angelo dal cielo
e, pietoso, stende un velo
sopra l’altro monumento”.



18 - Il Centro di Studi Atesini per tanti anni è stato un faro di luce nella buia notte della cultura italiana. Puoi raccontarci come nacque e riassumere brevemente la sua lunga e preziosa storia?

Il Centro di Studi Atesini è nato nel 1982 dalla ristrutturazione del Centro di documentazione storica per l’Alto Adige da me fondato nel 1977. Fin dalle origini il Centro fu affetto di micragna cronica, scotto dovuto da chi è determinato ad essere libero. Sotto il sistema autodefinito ‘democratico’ danaro e libertà son diavolo e acqua santa.
L'istituto operò a lungo con scarse risorse e nell’isolamento culturale. Ad abbattere la cortina del silenzio giovò il sostegno d’un illustre amico, il dott. Agostino Podestà, Prefetto di Bolzano nei difficili anni delle “opzioni”, scampato a nazisti e partigiani che gli davano la caccia perché di fervidi sentimenti italiani. Fra l’altro, negli anni ’30, aveva pubblicato tre splendidi volumi che documentano l’italianità linguistica nel vecchio Tirolo cisalpino. Fu lui, con il concorso di un facoltoso parente (l’industriale Pernigotti), a finanziare una vetrinetta per esporre i nostri studi sull’italianità alto-atesina silenziati dalla stampa locale.
La vetrinetta fu piantata a Bolzano, al margine del verde di Piazza della Vittoria: salda su due massicci paletti d’acciaio cementati in profondità; e opportunamente corazzata nella facile previsione di vandalismi da parte dei soliti ignoti che avevano già ripetutamente fracassato la bacheca d’un periodico monarchico in odore d’italianità. Fu danneggiata seriamente solo due volte; ma fu un veicolo di propaganda quanto mai efficace. Non poche pubblicazioni del Centro – a rigore, di bassa tiratura – furono esaurite in breve, la cerchia dei Soci superò la quota di 150, le nostre conferenze erano frequentate.
Nel 2002, in vista degli ottant’anni, passai il ‘testimone’ del Centro a due giovani che stimavo degni della successione. In soldoni consegnai un robusto attivo di cassa (una cinquantina di milioni di vecchie care lirette) e una cospicua scorta di pubblicazioni da distribuire alle principali biblioteche.
Da parte mia non tirai del tutto i remi in barca: continuai l’attivita nel gruppo di studio “Auser” – ora provvidenzialmente diretto da te, Sandro – e infine nel solo gruppo-fantasma “Aurinaucus” fondato nel mio buen retiro venezolano.

19 – Tra le pubblicazione del CSA, mi piace ricordare quella che fu per me la prima lettura di un tuo testo: “Il Sacro dei Mediterranei”. Un lavoro a mio modesto parere importante, non solo perché fra i pochi che affrontano il misterioso mondo degli antichi Reti, ma perché getta lo sguardo sul loro primordiale universo religioso e ci pone di fronte a quelle essenziali domande, che nonostante millenni e millenni, sono ancora infisse nel cuore d'ogni Uomo. Ti domando ora, al di là della triste parentesi infantile nell'istituto religioso, qual'è stato il tuo rapporto con il Sacro durante la tua lunga vita?

Premetto che «Il Sacro dei Mediterranei» è esaurito e che è imminente la diffusione in rete di una seconda edizione riveduta, integrata da nuovi elementi e da un tuo testo in Appendice.
Quanto al mio rapporto con il Sacro nel corso della mia lunga esistenza il discorso si fa lungo e tortuoso. A dirla breve: sono nato in una famiglia di tradizione cattolica, cresciuto al tempo di una Chiesa apostolica e romana che non dava scandalo, ero credente e praticante. Questo perché nell’anteguerra le tre autorità cardinali – Chiesa, Stato, Famiglia – non davano scandalo e parlavano lo stesso linguaggio. Restai cattolico anche dopo lo sfascio del ’45, malgrado il voltafaccia del Vaticano che turibolava l’ “Uomo della Provvidenza” finito, ben disse Pound, “due volte crocifisso” (dalla Chiesa e dai mercenari rossi al soldo dell’invasore oltre che dei grossi capitalisti). Benché recalcitrante rimasi cattolico anche negli anni precedenti il sacrilego ribaltone del Vaticano II; non per amor di Dio – un dio ridotto a contraddittorio pretesto di simonia e voltafaccia – ma per affetto alla mia adorata sposa, praticante e coerente, che seguiva anche un tredicesimo comandamento: subire un torto piuttosto che farlo ad altri. Ricordo lo sgomento suo nel tornare dopo il sermone di un disinvolto pretacchiolo in ‘clergyman’ sulla coscienza individuale: a sentirlo, ognuno di noi è giudice incontrastato delle proprie azioni. “E allora – mi disse sgomenta – allora con i miei scrupoli, con i miei sensi di colpa sono destinata alla dannazione eterna!”. Fu il colpo decisivo che aprì la mente alla riflessione. Capii che le tre ‘religioni’ del deserto – incoerenti, assurde e perfino sterminatrici sono uno specchietto per le sciocche allodole che vuotano la borsa per arricchire la sacra bottega. E il mio Dio – possente, sapiente e clemente in assoluto – sono andato a cercarmelo nella Natura e l’ho trovato. Come il nostro nobile antenato latino che nel silenzio della selva mormorava “Deus inest’.

20 – Siamo in conclusione Ferruccio. Nel ringraziarti per averci regalato questa lunga e ricca intervista, in cui abbiamo attraversato quasi un secolo di storia, vorrei chiederti di dedicare un ultimo pensiero al futuro della nostra Patria. Cosa ti senti di dire alla nostra gioventù?

Sul futuro della nostra Patria? Considerata spassionatamente lo stato attuale dell’Italia – peggio di così è impensabile – è lecito coltivare una speranza di riscatto. Le disavventure del nostro popolo dalla catastrofe del ’45 a oggi sono paragonabili alle esperienze di Pinocchio, il burattino che ascolta il gatto e la volpe invece che la saggia fata dai capelli turchini di fugace e vana apparizione: la testa di legno si trova a suo agio nel paese dei balocchi dove muta in testa d’asino venduta dal gestore che canta “la notte gli altri dormono, ma io non dormo mai”. Tutt’uno con l’imperversante demagogo marpione. Infine: il naufragio e il ravvedimento. L’Italia sprofonda ma è da sperare un ravvedimento del popolo ingannato.
Quanto al sermone da rivolgere alla nostra gioventù mi trovo a disagio essendo bacucco ultranovantenne. L’anziano è misoneista e morbosamente condizionato dal clima della sua gioventù. Può acclimatarsi ai tempi nuovi solo se coerente con il clima del tempo anteriore, come già il mio nonno paterno, prode ufficiale di cavalleria, il quale aderì con entusiasmo al Fascismo che considerava logico epilogo del Risorgimento. Ora, al contrario, il regime fascista è in netta antitesi con ciò che si definisce ‘sistema democratico’, di fatto dispotico, inetto e corrotto. .
La gioventù è smarrita, demotivata, abbandonata a se stessa da genitori irresponsabili, educatori e insegnanti immaturi o degenerati; la disoccupazione giovanile va oltre il 50%. Vittima della noia, vegeta e si stordisce con droghe e musica parossistica. Ciò malgrado è sorta spontanea una crescente minoranza di giovani italiani che ha fede nei grandi valori e ricerca nel passato ciò che si nega o si vieta, ma dà un senso all’esistenza. Come si diceva dei baldi ragazzi degli anni ‘30 sono la primavera della vita, la speranza della Patria, la certezza del domani.
Tutto scorre e ho fede nel nostro riscatto. Chi vive a lungo vede le cose e il contrario delle cose: sono vissuto giovane negli anni ruggenti, maturo e anziano in quelli depressi e forse farò in tempo ad assistere alla Redenzione.



Immagini di Ferruccio Bravi 




  2009                             1976                             1948