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domenica 29 maggio 2016

LA FUCILAZIONE DEI 7 FRATELLI CERVI - Maria Cipriano

Avremmo dovuto pubblicare quest'articolo il 24 maggio, in occasione del centounesimo anniversario dell'intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale. Non a caso l'autrice aveva scelto una foto emblematica d'apporre in testa allo scritto: quella di Antenore Cervi in divisa da soldato dopo la Grande Guerra. Questo perché l'articolo che andiamo a pubblicare tratta della misteriosa morte dei sette fratelli di Gattatico. Vi chiederete cosa c'entri con l'epopea della Grande Guerra un articolo investigativo sull'esecuzione di quelle che possiamo definire delle vere e proprie icone della Resistenza? In effetti nulla. Il nostro semplice intento era quello di rimarcare, una volta di più, come ogni italiano della più disparata provenienza, fede politica, estrazione sociale, prese parte ai tragici e gloriosi eventi che segnarono il '15-'18. E che proprio tra il fango ed il sangue delle trincee, l'Italia diede prova di una coesione mai prima così ampiamente sperimentata.
Purtroppo oggi, tristi figuri anti-nazionali, interessati soltanto a lucrare sulle sofferenze e le morti altrui per garantirsi il potere, imperversano ai vertici del nostro sistema politico. Persone che preferiscono festeggiare i momenti di divisione e di lutto, piuttosto che quelli che ci uniscono, perché hanno tutto l'interesse a tenerci divisi e a ricordarci che siamo bianchi, rossi, neri e mai Italiani, figli di una stessa Terra e di una secolare Storia. Ed è giusto che noi, finché avremo voce, testimoniamo quello che non vogliono farci ricordare. Per questo avevamo scelto il 24 maggio come data di pubblicazione, anche se l'articolo parla di avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale.

Aggiungiamo poco altro riguardo il testo di Maria Cipriano, che è un onesto tentativo di far luce su vicende quanto mai difficili da decifrare per la mancanza di documenti e per la fitta cortina di nebbia che vi è stata costruita attorno. Molte sono le domande esposte dalla nostra collaboratrice, che in questo scritto ha dimostrato grande tatto e pacatezza nell'affrontare un tema così difficile e scottante. A tutti voi i nostri migliori auguri di una buona lettura e di una feconda riflessione.

Sandro Righini


LA FUCILAZIONE DEI 7 FRATELLI CERVI

Antenore Cervi, il fratello che non parlava mai, religiosissimo, dedito solo al lavoro e alla famiglia, qui ritratto orgoglioso nella sua divisa dopo la Grande Guerra


I fatti della Storia, come quelli della Scienza, sono fatti obiettivi, ma quasi mai facilmente verificabili e controllabili. Lo scorrere del tempo, l’assenza o penuria di documenti e testimoni, l’attendibilità dei medesimi, gli interessi di parte, le passioni, la difficoltà d’interpretazione e altro ancora, sono fattori fortemente inquinanti della verità storica, e impongono allo studioso interrogativi e approfondimenti continui. Da qui la necessità della critica storica, branca della storiografia deputata a indagare al di là dei documenti scritti e orali, andando a fondo nelle questioni.
Entrando nel merito della seconda guerra mondiale, nonostante essa sia così vicina a noi nel tempo, le difficoltà aumentano anziché diminuire, al punto che a tutt’oggi molte domande rimangono senza risposta o sussistono più versioni di uno stesso fatto. Il Fascismo in particolare presenta lati oscuri e controversi, mai chiariti. La Resistenza stessa, riguardata fino a poco tempo fa come una vetrina di eroismi e integerrima lotta di popolo, si è vista spogliare delle sue sovrastrutture ideologiche e abbellimenti, mettendo a nudo lacune, errori, e, cosa che pareva impensabile, delitti e colpe di svariati suoi protagonisti.
Guardando soltanto a un singolo episodio di essa, apparentemente incontestabile come la fucilazione dei sette fratelli Cervi, a tutti nota, la critica storica avrebbe di che appuntare le sue attenzioni, a dimostrazione di quanto anche i fatti della Storia più acclarati e scontati, messi al vaglio di essa, presentano falle e punti oscuri.
Per decenni i fratelli Cervi sono stati un’icona intoccabile della Resistenza, eletti a simbolo glorioso della medesima. Per decenni nessuno ha osato proferir parola su questo altare costruito per ordine di Palmiro Togliatti intorno a questa famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, i cui radicati e radicali sentimenti antifascisti hanno costantemente tenuto banco in numerose commemorazioni della Resistenza davanti a stuoli di giovani e meno giovani.
Adesso, però, di fronte all’ultima generazione di italiani che ha cominciato a sentire anche l’altra campana e imparato a misurarsi con la drammatica delusione dei fatti odierni, la storia dei sette fratelli osannati come partigiani comunisti, fucilati dai sempre malvagi fascisti il 28 dicembre del 1943, durante il Natale, senza darne regolare notizia con l'indicazione dei nomi e senza stilare un certificato di morte, quando la guerra civile era ancora agli albori, quando erano stati rimandati a casa per le festività una trentina di antifascisti dallo stesso carcere, in una zona in cui comandava un prefetto fascista noto per la sua moderazione e che non voleva rappresaglie (Enzo Savorgnan), e un federale dal carattere accomodante (Giuseppe Scolari), rende lecito porsi alcune domande. Che furono poi le domande che si posero gli stessi antifascisti, messi di fronte a questo episodio che, non diversamente da altri accaduti nel biennio della cosiddetta Repubblica di Salò, presenta fastidiosi punti interrogativi. E infatti, nonostante il clima del dopoguerra fosse tutto improntato a smania di vendetta, giustizialismo spicciolo ed esaltazione delle gesta dei partigiani, anche gli antifascisti non poterono fare a meno di porsi questa semplice interrogazione: perché i fascisti fucilarono i sette fratelli Cervi senza lasciarne neanche uno vivo, quando essi non agivano espressamente agli ordini del PCI (né della DC, né del PSI, né del Partito d’azione), volevano rimanere autonomi, e, nonostante la conclamata opposizione al regime, si rifiutavano di ammazzare chicchessia, venendo meno alle direttive e all’indottrinamento dei commissari politici?
La “banda Cervi” era una banda “fai da te”, piuttosto libera, dedita al ricovero di prigionieri fuggitivi, sabotaggi e colpi di mano senza spargimento di sangue, una banda a cui in verità soltanto quattro, dei sette fratelli, appartenevano: politicamente ingenua, mista di comunismo, cristianesimo, pacifismo, altruismo, democrazia, fede nell’Unione Sovietica e, perfino, nell’Inghilterra, in un coacervo di ideali in contrasto gli uni con gli altri, buona parte dei quali possono a mente fredda definirsi chimerici. Il padre-patriarca Alcide Cervi, antifascista per lunga tradizione, proveniva dal partito popolare di Don Sturzo, antenato della DC, e tutta la famiglia risentiva delle sue idee, alle quali aveva successivamente sovrapposto l’infatuazione per l’Unione Sovietica, creduta da lui il regno del bene, e altre personali convinzioni su cui non gradiva essere contraddetto, come quella che Cristo fu il primo socialista della Storia. A ciò si erano aggiunte le confuse idee comuniste del figlio Aldo, apprese nel carcere militare di Gaeta dov’era stato detenuto vari mesi per un episodio poco chiaro d'insubordinazione nei confronti di un ufficiale fascista.
Questi fratelli, gran lavoratori, molto legati tra loro ma non tutti uguali, alcuni più di altri desiderosi di emanciparsi e di studiare e a cui la campagna stava stretta, alcuni più di altri anelanti a diventare proprietari e che in Unione Sovietica sarebbero finiti tutti quanti dentro un gulag, dettero al regime Fascista nel corso degli anni quel modesto filo da torcere che, se non corredato da atti rilevanti, non causava conseguenze. Infatti, tranne qualche ammonimento e fugace arresto, le autorità avevano sempre lasciato correre, anche quando il vecchio Cervi infinse una malattia delle sue mucche d’accordo con un veterinario del paese per ingannare le autorità fasciste, e quando furono messi in atto i soliti espedienti per non andare in guerra. Era la classica famiglia contadina di infaticabili lavoratori ed esperti agricoltori, raccolta intorno al padre-patriarca, le cui infervorate idee cattoliche e comuniste mescolate insieme erano corroborate da un irriducibile odio antifascista che non conosceva ammorbidimento, il che peraltro costituiva l'atteggiamento pressoché comune degli oppositori del regime.
Prima del 25 luglio 1943, data dell'estromissione di Mussolini, la famiglia Cervi visse comunque tranquillamente senza scosse, anche se l'inquietudine caratteriale ed esistenziale del figlio Aldo, che era un tutt'uno con quella politica appresa dal padre e rafforzata nel carcere militare, premeva sui fratelli e sul vicinato con continue predicazioni politiche e morali. In occasione del 25 luglio fu lui a organizzare la “pastasciutta antifascista” nella piazza di Campegine per festeggiare la fuoriuscita di Mussolini, mentre nella casa colonica di Gattatico cominciarono a essere ospitati prigionieri fuggitivi di tutte le nazionalità, e, dopo l'8 settembre, fu allestita una piccola base partigiana in montagna che però non brillava per numero di adepti, mentre la Resistenza ufficiale seguiva uno schema ben preciso e precise regole, schema e regole a cui i Cervi si dimostravano refrattari. Fu per questo, probabilmente, che il partito comunista con cui erano in contatto li destinò alla sistematica raccolta di armi in vista di qualche azione militare futura. Per il resto, la manomissione di un traliccio, la distribuzione di scritti e volantini, il disarmo di un gruppo d'ingenui Carabinieri e il balzano tentativo di sequestrare il federale Scolari per “rieducarlo” alla democrazia, anche se dal signor Alcide ingigantiti d'importanza e attribuiti alla conclamata intelligenza e astuzia del figlio Aldo (che nel libro “I miei sette figli” viene nominato quasi 200 volte) di contro alla dabbenaggine dei fascisti presentati sempre come dei cretini, furono episodi di poco conto se confrontati con i brutali assassini a sangue freddo perpetrati quasi tutti i giorni contro i rappresentanti del regime e i loro familiari per mano della nascente organizzazione resistenziale facente capo al CLN. Nessuno dei fratelli Cervi, neanche Aldo e Gelindo, pur infiammati politicamente, avrebbe mai premuto il grilletto a sangue freddo. Proprio la mancata esecuzione del federale Scolari fu anzi probabile motivo di scontro con la Resistenza ufficiale, in particolare con il partito comunista, che da tempo aveva messo alle costole di Aldo una bella comunista dalle maniere gentili e la faccia d'angelo ma dai ferrei sentimenti stalinisti, la quale obbediva a ordini precisi: Lucia Sarzi. Di questo donna silenziosa, perfettamente integrata nella granitica obbedienza della chiesa comunista e di cui forse Aldo ingenuamente s'innamorò, ovviamente non si possiedono confidenze, rivelazioni, interviste postume, nonostante sia vissuta fino al 1968. E dire che di cose ne avrebbe avute da raccontare e da spiegare, perché frequentò assiduamente Aldo, esercitando su di lui un enorme ascendente, magnificandogli la Russia di Stalin come il paradiso in terra dei lavoratori, spingendolo a impegnarsi di più nella lotta antifascista, spronandolo ad ascoltare Radio Mosca, insomma cercando di convincerlo a diventare un vero comunista tra i comunisti: ma, alla fin fine, i fratelli Cervi rimanevano i semplici e schietti ragazzi di campagna che erano, e Aldo stesso, pur imbevuto di utopie ideologiche, non divenne e non volle mai diventare un vero comunista, il che rappresentò per la Sarzi e il partito indubbiamente un insuccesso.
Il problema storico che sorge a proposito dei leggendari fratelli è dunque questo: perché la fucilazione? Perché non risparmiarne neanche uno? E soprattutto: perché nascondere la fucilazione e seppellirli in segreto? Oltretutto senza un certificato di morte, obbligatorio per legge. Quando, un mese dopo, nello stesso luogo vennero fucilati 8 partigiani e un prete, si venne subito a risapere, e anzi c'era l'interesse a farlo risapere affinché fungesse da esempio e deterrente. Perché per i Cervi non si venne a risapere? A quale scopo lasciar venire i parenti a chiedere notizie in carcere e altrove presso le autorità, per rimandarli a casa senza un’adeguata spiegazione, dicendo loro che non facessero tante domande e avrebbero saputo le risposte a guerra finita? Non era il modo di procedere dei fascisti, e perché siano stati impartiti simili ordini bizzarri non è dato sapere, tanto più che la vicenda dei Cervi, dopo l'arresto, era seguita dal Procuratore della repubblica, dunque sembrava presentare un iter processuale regolare.
Purtroppo, colui che più di tutti poteva far luce sulla questione, il Prefetto Enzo Savorgnan, finì fucilato senza processo nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile '45, mentre il federale Scolari morì nel suo letto senza dire una parola sui fatti, cosicché quando qualche antifascista andò in cerca di spiegazioni tra i fascisti superstiti, non trovò che risposte perplesse: i fratelli Cervi non potevano che esser stati fucilati di nascosto dal Prefetto Savorgnan, senza che lui lo sapesse. Ma com’era possibile che il Prefetto ignorasse la fucilazione dei sette fratelli nel Poligono di tiro di Reggio Emilia, che era il luogo ufficiale delle fucilazioni? E ancora: com'è possibile che i sette fratelli fossero stati fucilati il 28 dicembre al Poligono di tiro, situato a un tiro di schioppo dal carcere di San Tommaso ov'erano stati trasferiti dal carcere dei Servi, senza che nessuno lo facesse sapere al padre che, rimasto nello stesso carcere fino al 7 gennaio, non seppe nulla, e anzi stette poi ad aspettarli per molti altri giorni ancora a casa? Com'è possibile che i comunisti e i vari resistenti con cui la famiglia Cervi era in contatto, le cui spie erano infiltrate ovunque, non siano venuti subito a conoscenza che i fratelli Cervi erano stati fucilati all'alba del 28 dicembre dentro la città, quando anche il giornaletto locale “il solco fascista” ne aveva dato notizia lo stesso giorno, pur senza farne i nomi?
Per inciso, bisogna dire che anche l’eccidio dei fratelli Cervi rientra nella complessa e misteriosa vicenda dell’occultamento dei fascicoli riguardanti gli eccidi nazi-fascisti, fascicoli che le autorità antifasciste del dopoguerra a un dato punto “sotterrarono” nell’armadio di Palazzo Cesi a Roma, verosimilmente mentre era Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e ministro di grazia e giustizia Togliatti. Il magistrato che appose il timbro dell’archiviazione provvisoria fu premiato con un’altissima onorificenza della Repubblica, e altri premi probabilmente vennero elargiti a chi prese parte senza protestare alla “congiura del silenzio.”. Il materiale documentario relativo ai crimini dei mortali nemici in camicia nera veniva dunque improvvisamente fatto sparire senza una ragione apparente dagli antifascisti stessi, e quella che doveva essere un’esemplare vendetta iniziata con gran rumore, spiegamento di processi sommari e fucilazioni, vasta partecipazione popolare, titoli sui giornali, schiere di testimoni a carico (solo contro la Legione M Tagliamento ne sfilarono ben 317 davanti al Tribunale Militare di Milano, nel 1952), si concluse nel buio di uno scantinato, chiusa a chiave dentro un armadio, sigillata dal silenzio di estese complicità istituzionali e giudiziarie. Franco Giustolisi, il defunto giornalista dell’Espresso che tanto s’interessò alla vicenda, non giunse a nessuna spiegazione convincente dal punto di vista razionale, a maggior ragione essendo chiaro che non erano i Fascisti ad aver nascosto i documenti, e dunque non poteva accollarsi a loro la colpa dell’insabbiamento dei medesimi. Su questo spinoso argomento, tempo fa ho scritto un articolo dal titolo“Una strage misteriosa: Sant'Anna di Stazzema”.
Per quanto riguarda i Cervi, la cosa più curiosa è che tutti quelli catturati assieme a loro, cioè gli stranieri che tenevano nascosti nella casa colonica, nonché un partigiano italiano loro amico che si finse francese, furono liberati o riuscirono tranquillamente a scappare dal carcere di lì a poco, addirittura rientrando nelle unità partigiane. Anche il padre Alcide riuscì a scappare il 7 gennaio, approfittando del bombardamento su Reggio Emilia, e nessun fascista lo andò a riprendere per riportarlo dentro, segno che c’era già l’intenzione di liberarlo. Niente da fare, invece, solo per gli sfortunati fratelli, prelevati la mattina del 28 dicembre e condotti bruscamente alla fucilazione quando tutto dava a credere s’intendesse far loro un processo: i verbali degli interrogatori lo dimostrano. Lo dimostrano le lettere che scrissero a casa, così come lo dimostra il fatto che furono portati via dalla cella che condividevano col padre proprio con l’annuncio del trasferimento a Parma per il processo (è il padre stesso che lo riferisce nel suo libro “i miei sette figli”), anche se un particolare tradì il figlio minore Ettore, il quale prima d'andarsene lasciò il suo maglione bianco di lana nonostante il padre lo rimproverasse perché faceva freddo (il maglione era un indumento prezioso a quei tempi, che i proiettili avrebbero irrimediabilmente rovinato), segno che con tutta probabilità il ragazzo sapeva che sarebbero stati fucilati, il che però suona strano per non dire incredibile: qualcuno aveva avvertito i fratelli, e in particolare il più piccolo, che li avrebbero fucilati? Con il rischio d'innescare una reazione emotiva incontrollabile, tanto più che essi non se l'aspettavano? E come mai allora proprio il figlio minore invece se l'aspettava, ma si congedò dal padre senza una particolare agitazione, con un sorriso, sapendo che tutti e sette sarebbero stati ammazzati di lì a poco? Il padre, ripensando a questo particolare, concluse che i figli, pur sapendo che sarebbero stati fucilati, fecero finta di nulla per non recargli dolore, ma francamente pare un po' strano. Tutta la Resistenza è piena di condannati a morte che sapevano che sarebbero stati fucilati e dunque poterono in qualche modo prepararsi al passo estremo, scrivendo a casa, pregando, confessandosi, meditando, etc. Ai Cervi venne negata anche questa possibilità? E perché mai?
La cosa ancor più strana è che in realtà fu la sera del 27 dicembre che le guardie fasciste si presentarono nella cella del carcere di San Tommaso per prelevare i fratelli, i quali stavano dormendo e furono svegliati e fatti uscire, mentre il padre che voleva andare con loro fu spinto via dicendogli che era vecchio (come se la fucilazione fosse cosa solo di giovani). Poco dopo, però, furono ricondotti dentro la cella dicendo loro: “E' per domattina. Tornate a dormire.” Che cosa avrebbe dovuto svolgersi la sera che venne rimandato alla mattina? La fucilazione? Parrebbe di sì. Ma com'era possibile, in tal caso, dire “tornate a dormire” a dei condannati a morte che avevano poche ore di vita davanti a sé? Il modo di esprimersi della guardia dà quasi l'idea che i fratelli sapessero di cosa si trattava, ma, sapendo che sarebbero stati fucilati da lì a poche ore, come facevano a tornarsene tranquillamente a dormire? Proprio in quel frangente il primogenito Gelindo -così come riferisce il padre nel suo libro- si lasciò scappare una considerazione ironica sul “sonno eterno”, il che lo riconfermò nel fatto che i figli sapessero della fucilazione. In realtà, se Gelindo avesse avuto la certezza assoluta della fucilazione, non credo avrebbe spiccato una battuta, la quale lascia intendere piuttosto che la fucilazione potrebbe essere stata ventilata a lui e ai fratelli durante l'ultimo interrogatorio, al che Gelindo si sarà senz'altro offerto come capro espiatorio, e dunque lui non aveva affatto la certezza che sarebbero stati fucilati ma poteva, tutt'al più, considerarla un'ipotesi. Tra la minaccia della fucilazione e la fucilazione, infatti, ne corre di differenza. E comunque si rimise a dormire, segno che la morte non gli appariva punto vicina.
All'alba del 28 dicembre i Cervi furono dunque nuovamente svegliati e stavolta portati via in tutta fretta, tant'è che il padre fece appena in tempo a salutarli. Ebbene: perché tanta fretta? Forse per evitare che qualcuno se ne accorgesse e potesse trovar da ridire sulla fucilazione? Non pare, dal momento che lo stesso giorno il giornaletto locale “Il solco fascista” a pag.2 riportava chiaramente l'annuncio della medesima: “questa notte si è riunito di urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato la sentenza capitale a carico di otto elementi rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico...etc...la sentenza è stata eseguita all'alba di oggi 28 dicembre.”, il che ha fatto supporre che la fucilazione fu decisa precipitosamente all'ultimo momento e addirittura di notte da un tribunale straordinario di fascisti estremisti del Reggiano per vendicare l’ennesimo omicidio di un loro collega (in questo caso si tratterebbe del segretario comunale di Bagnolo in Piano, ucciso alle ore 18 del giorno prima), e poi, per la vergogna o il timore di dar pubblicità all’atto compiuto, il Fascio di Reggio non l’abbia rivendicata, ma l’abbia anzi tenuta volutamente nascosta, seppellendo segretamente in fretta e furia i cadaveri senza firmare alcun certificato di morte. Ma se si voleva tener tutto segreto, perché mettere l'annuncio sul giornale, seguito da un aspro articolo intitolato “fine della sopportazione”, il quale alludeva proprio ai Cervi? E inoltre: quando i sette fratelli furono svegliati la prima volta, era già stata decisa la sentenza di morte? E nel caso fosse stata già decisa e li avessero svegliati per portarli alla fucilazione (cambiando però idea nel giro di pochi minuti), come faceva il fratello minore a saperlo in modo da lasciare, poi, all'alba, il suo maglione di lana? Gli fu per caso detto in quel momento che sarebbero stati fucilati oppure lo capì da solo e se ne tornò poi incredibilmente a dormire? E ancora: perché vendicarsi contro i fratelli che non c’entravano e non avevano commesso nessuna violenza e aggressione tanto meno di carattere comune? Perché riunirsi con tanta urgenza di notte? E infine: chi erano i fantomatici fascisti estremisti che si sarebbero riuniti nottetempo a decidere questa fucilazione? Nessuno li ha trovati, nessuno li ha identificati, non si è trovata traccia di alcuna riunione notturna. Dopo la guerra finì davanti al plotone d’esecuzione un fascista che aveva preso parte alla cattura notturna dei Cervi la notte del 25 novembre 1943, ma con la fucilazione non c'entrava nulla.
Una parziale giustificazione alla pena capitale è che la notte della cattura (avvenuta il 25 novembre), i Cervi (non tutti, ripeto) avevano reagito alle intimazioni dei militi fascisti sparando, come riferisce il Podestà Cantarelli nella sua relazione scritta al Capo della provincia, relazione dalla quale emerge la presenza di armi e munizioni nascoste nel fienile, nonché il reato di macellazione clandestina, abbastanza comune a quel tempo. Ma era sufficiente tutto ciò per giustificare la fucilazione di tutti i fratelli in blocco senza l'ombra di un processo? La sparatoria, poi, era stata una scaramuccia di poco conto, senza feriti di alcun genere, e anche papà Cervi riferisce nel suo libro che proprio Aldo depose subito le armi, accollandosi poi tutte le colpe assieme a Gelindo. Non resta che la tesi della rappresaglia per l'uccisione del segretario comunale di Bagnolo in Piano, ma anche questa appare oltremodo esagerata, con il rapporto di 8 a 1 che i fascisti mai applicarono nel corso di tutta la RSI. E poi: nelle carceri di Reggio Emilia c'erano solo i fratelli Cervi su cui sfogare l'ira della rappresaglia? E con tutte le informazioni e i nomi di cui essi erano in possesso, come mai non furono interrogati dalla polizia politica?
Stando a quel che riferisce papà Cervi nel suo libro che è la fonte documentale primaria, a lui fu poi raccontato (ma non dice da chi) che alla fantomatica riunione notturna dei fascisti era presente il federale Scolari il quale aveva già un elenco di nomi da fucilare, ma qualcuno (chi e perché?) intervenne dicendo che per la rappresaglia andavano bene i fratelli Cervi. Come storico rimango scettico, poiché mi pare un racconto di comodo fatto al signor Cervi da qualcuno che, volendo dargli a tutti i costi una spiegazione logica dell'accaduto, se la inventò, prendendo in mezzo il federale, quando proprio la frettolosità e segretezza della vicenda danno invece l'idea che si volesse agire contro o malgrado le autorità fasciste superiori, sbrigando le cose velocemente in modo da non suscitare opposizioni, anche se ciò è contraddetto dal fatto che le autorità fasciste furono comunque avvertite né poteva essere altrimenti, ragion per cui tutta questa segretezza non è comunque giustificabile.
Circa la cattura, poi, c'è da sospettare essa sia avvenuta su denuncia anonima di qualcuno che temeva che l'attivismo antifascista di quella inquieta famiglia, in particolare il via vai notturno di prigionieri stranieri dentro la casa colonica, avrebbe scatenato prima o poi una reazione, magari dei tedeschi, contro il resto del paese, e dunque pensò di mettere le mani avanti. A tal proposito, l’ingenuità e presunzione politica di Aldo e Gelindo –i due fratelli veramente politicizzati- era tale che essi credevano che tutti dovessero pensarla come loro. Per anni, con il suo zelante presenzialismo, Aldo aveva seminato la “sua” personale propaganda fra i contadini del circondario, certo di venir corrisposto da tutti e che tutti fossero antifascisti come lui, ma forse non era così.
In conclusione, spiegare la fucilazione dei Cervi non è facile, al punto che la questione è riemersa ai giorni nostri fra i celebratori che ogni anno commemorano l’evento. Fra gli studiosi di sinistra ha recentemente preso piede la tesi che i sette fratelli furono traditi dai comunisti, i quali sarebbero ricorsi a un loro agente che faceva il doppio gioco -fingendosi fascista mentre era comunista- per disfarsi della loro ingombrante presenza. Ma era davvero ingombrante la loro presenza, oppure essi invece facevano comodo al partito proprio per il loro generoso prodigarsi e la candida ingenuità politica che li spingeva a esporsi e rischiare mettendo a disposizione la propria stessa casa e a repentaglio le vite di tutti i familiari? E siamo sicuri che tutti i fratelli fossero d'accordo con questa esposizione a un così alto rischio? La tesi del tradimento dei comunisti, poi, non spiega sufficientemente l’accaduto, anche perché, pure ammesso che volessero disfarsi dei Cervi, non si capisce il motivo per il quale i Fascisti di Reggio Emilia avrebbero dovuto dar retta a un così drastico suggerimento senza che ne ricorressero gli estremi, esagerando smisuratamente nella rappresaglia, riunendosi frettolosamente di notte, facendo le cose di nascosto (e però eseguendo la fucilazione in un luogo ufficiale, il Poligono di tiro, dove facilmente potevano esserci testimoni), senza contare che dovevano rendere conto ai superiori e al Governo. Ed è infatti anche qui che emerge un altro particolare anomalo dalla pur scarna documentazione a disposizione, da cui risulta che i Fascisti locali avvertirono l'autorità superiore della Repubblica a cose fatte, a esecuzione avvenuta, il che potrebbe anche passare inosservato se non fosse che sul verbale inviato a Brescia dove si erano insediate le istituzioni della Repubblica Sociale, i fascisti di Reggio provvidero a informare i superiori che la fucilazione si era svolta nel Poligono di tiro “lontano da occhi indiscreti”. Perché questa precisazione che pare una rassicurazione? Chi erano gli occhi indiscreti che non dovevano assistere? Forse il medico legale e il prete? Il primo fu quasi sicuramente assente, dal momento che non fu firmato nessun certificato di morte. Ma perché la fucilazione dei Cervi doveva essere circondata da un particolare alone di riservatezza? In risposta, le autorità fasciste di Brescia rimandarono sottolineata in rosso una domanda meravigliata: “sette fratelli”? La quale era superflua, trattandosi di una esecuzione già avvenuta. Se voleva essere una specie di rimprovero o una richiesta di maggiori informazioni, dal momento che i fratelli erano già stati uccisi, risultava del tutto inutile.
Contornata com'è da varie stranezze, la fucilazione dei 7 fratelli Cervi, assieme a quella dell’ex milite fascista Quarto Camurri che venne fucilato con essi, rimane dunque avvolta, se non nel mistero, perlomeno in un grosso punto interrogativo. Anche la testimonianza di Don Stefano -cappellano del carcere di probabili idee fasciste con il quale i Cervi durante la detenzione mostrarono di non andare punto d'accordo- il quale riferì di aver assistito alla fucilazione, lascia perplessi, se non altro per il poco tatto e la scarsa sensibilità che dimostrò nel riferire ai genitori che i fratelli erano morti come dei cinici, senza confessarsi. Era tutto quello che aveva da dire sulla fucilazione di sette baldi uomini nel fiore degli anni, alcuni dei quali lasciavano figli piccoli? Si può piuttosto sospettare che Don Stefano non assisté proprio a nulla, ma, conoscendo il cristianesimo-comunista di quell'ostinata famiglia che interpretava il Vangelo a modo suo, abbia parlato in tal modo quasi per un dispetto. Del resto, un parente dei Cervi, cui di sfuggita accenna papà Alcide nel libro, gli avrebbe detto in faccia: “Ben vi sta.”. Non tutti, dunque, condividevano la linea “pasionaria” della famiglia, anzi la criticavano fortemente.
Circa Quarto Camurri, figura sfocata che rimane sullo sfondo, egli era un milite fascista passato dalla parte opposta, il che non presenta granché di strano, giacché di questi passaggi ne avvenivano con una certa frequenza. Ma, a parte il fatto che i passaggi avvenivano anche in senso contrario (anche se mai lo si racconta), ciò che risulta strano è il tempo e il modo in cui Quarto Camurri avrebbe compiuto il “salto” dal fascismo all’antifascismo: arruolatosi con entusiasmo a ottobre nella Repubblica Sociale, a novembre ha già cambiato idea, anzi l’ha completamente ribaltata. Da solo (ma solitamente questi passaggi avvenivano in gruppo per prudenza) aspetta i Cervi fuori dalla loro piccola base partigiana di montagna (e chi aveva dato l'indirizzo a lui che era un fascista?), anziché approcciare i canali ufficiali della Resistenza, dopo aver buttato l'otturatore della sua arma nel canale per convincerli di non essere un doppiogiochista. Nutriva il Camurri una particolare simpatia per i Cervi? Voleva aggregarsi proprio a loro? Pare di sì, dal momento che egli diventò il loro compagno ideale, docile a tutte le direttive, con loro fino alla fine. C’è da notare che il Camurri aveva la stessa età del fratello più piccolo, Ettore, il quale, di tutti, è la figura più difficile da mettere a fuoco, in quanto, oltre forse a non sprizzare gioia nel fare il contadino (quando invece per il padre l'argomento era fuori discussione), si era dimostrato capace di sottrarsi al condizionamento politico familiare nell'aver voluto, unico fra tutti i fratelli, partire per la “guerra fascista”, il che doveva essere tutt’altro che facile in una casa come la sua. In tempo di pace, si sa, il regime offriva ai giovani molte opportunità, anche di viaggiare coi suoi vari raduni e le sue mille iniziative, esercitava sui ragazzi una grande attrattiva senza badare alle classi sociali e facendoli sentire uguali davanti allo Stato, e sarebbe strano che Ettore, il più giovane e dunque il più esposto all'influsso fascista, fosse rimasto del tutto immune da quest'attrattiva, pur circondato a casa da un ambiente politicamente ostile. E se per caso il Camurri fosse stato un suo compagno d'armi? O comunque un amico che, per non dispiacere i suoi, non poteva appalesare per diversità politiche e sociali? La famiglia Camurri, del resto, si manterrà sostanzialmente distaccata dalla girandola mediatico-politica che coinvolgerà i Cervi nel dopoguerra, non facendosi praticamente mai vedere.
Nel cimitero di Villa Ospizio (allora una frazione di Reggio Emilia), a suo tempo servito da sepoltura a centinaia di soldati della Grande Guerra lì ricoverati e deceduti per malattia, furono seppelliti i cadaveri dei Cervi e di Quarto Camurri, i cui resti, non si sa fino a che punto identificabili, furono recuperati separatamente solo a guerra finita.
Papà Cervi (come riferisce lui stesso nel libro), scappato dal carcere il 7 gennaio approfittando del bombardamento sulla città, tornò a casa dove trovò le nuore, i nipotini e la moglie, cui chiese dov'erano i figli. “Se non lo sai tu. Noi non sappiamo niente.” gli rispose questa. Passò così un mese e mezzo (!), durante il quale papà Cervi li aspettava, anzi quasi sentiva che erano vivi, come lui stesso riferisce. Dopodiché un giorno la moglie gli svelò invece che erano stati tutti fucilati. A questo punto egli nel suo libro spiega che in casa tutti sapevano la terribile verità fin dall'inizio, ma gliel'avevano tenuta nascosta tutto quel tempo per non dargli un così grande dolore e farlo rimettere dall'ulcera. Ma possibile che proprio lui fosse tenuto all'oscuro della morte dei figli? E poteva una madre soffocare per un mese e mezzo una notizia così tremenda? E le nuore cui erano stati ammazzati i mariti potevano far finta di nulla? Secondo me la signora Genoveffa e le nuore il 7 gennaio davvero non sapevano niente, e lo vennero a sapere anche loro dopo, poco prima di svelarlo a lui. Non solo: ma papà Cervi si contraddice, giacché, dopo aver detto di aver avuto la conferma che i figli erano stati portati a Parma per il processo dall'avvocato Mariani (suo compagno di cella) e dal capoguardia Pedrini del carcere di San Tommaso con cui si era instaurata un'amichevole confidenza (ma chi ci dice che il gentile e assecondante capoguardia Pedrini non obbedisse a precise disposizioni dei Fascisti per acquietare il buon vecchio Cervi?), riferisce che la notizia della fucilazione l'avrebbe data proprio il capoguardia Pedrini a suo nipote, e che anche i compagni di carcere sapevano, ma gli avevano nascosto la verità. Non sembra molto credibile che tutti gli nascondessero tutto, e comunque non è affatto chiaro come, quando e da chi i Cervi appresero la tragica notizia; ma certamente il signor Alcide per lungo tempo non seppe nulla, al punto che aveva pensato anche che i figli fossero stati deportati in Polonia.
Altri particolari che sarebbe di vitale importanza conoscere per uno storico, non sono stati resi noti, e la versione più completa rimane quella del libro, scritto sotto l'attenta supervisione del partito comunista, e omissivo in vari punti. Conoscendo il caratterino del signor Cervi che, come dice lui stesso, se avesse saputo che gli fucilavano i figli “avrebbe urlato in faccia ai fascisti come sempre faceva, e allora forse non sarebbero morti”, i comunisti potrebbero aver messo le mani avanti onde evitare la sorpresa di qualche rivelazione scomoda o inopportuna, cosicché il libro risulta essere la classica versione ufficiale senza spigoli.
Resta l'ultimo particolare di tutta la vicenda: la mancata consegna da parte dell'autorità fascista dei cadaveri, i cui resti furono recuperati a guerra finita, omaggiati da solenni funerali, come sempre avveniva a quei tempi per i partigiani morti. La mancata consegna fu spiegata col fatto che il bombardamento del 7 gennaio aveva colpito anche il cimitero, in particolare proprio il punto dov'erano sepolti i Cervi, scoperchiando le bare e disperdendo i resti. In effetti una bomba era caduta sul cimitero di Villa Ospizio, anche se, da una fotografia militare scattata dopo il bombardamento, è visibile un cadavere supino, emerso integro dalla fossa, nel quale la Polizia scientifica attuale, con una serie di sofisticati esami presentati qualche anno fa a una pubblica conferenza, avrebbe identificato Gelindo Cervi, il più anziano dei fratelli. Dunque, se almeno Gelindo era integro e riconoscibile, perché non consegnare almeno il suo cadavere alla famiglia?
E veniamo ai nostri giorni. La casa colonica di Gattatico da anni è stata trasformata in un Museo tirato a lucido, visitato in media ogni anno da 15.000 persone, e corredato da un'interessante biblioteca donata a suo tempo dal deputato e studioso comunista Emilio Sereni, ma la cui visita sarebbe più interessante se l’antifascismo non mettesse ripetutamente in mostra la martellante visione di “quelli che hanno scelto la parte giusta”, respingendo qualunque altra interpretazione, osservazione, o, peggio, domanda. Più che da storici e osservatori, Casa Cervi è percorsa da schiere di fans, vagamente somiglianti ai pellegrini di Medjiugorie, in linea con la demonizzazione del Fascismo e la santificazione dell'antifascismo messa in atto da Togliatti fin da quando egli compì la sua prima visita al signor Alcide Cervi, il che ha imposto anche agli eredi un ruolo ben preciso di continuatori di questa linea. Del resto, proprio questa “canonizzazione” dei fratelli martiri allestita a suo tempo dal PCI con l’aiuto dello scrittore Italo Calvino e del giornalista dell’Unità Renato Niccolai che ebbe con papà Cervi molte conversazioni, la stesura del libro “i miei sette figli” cui si dette la massima pubblicità fino a farlo diventare un best-seller, corredata dalla concessione di sette medaglie d’argento e una d’oro, e dal solenne ricevimento di papà Cervi al Quirinale nel 1954, dà l’idea di una speciale premura da parte delle istituzioni verso il signor Cervi in particolare, proprio mentre i parenti delle vittime degli altri eccidi nazi-fascisti venivano “dimenticati” in fondo all’armadio di Palazzo Cesi assieme ai loro cari, e senza una lira di risarcimento. Una premura che si spiega forse con il timore che l’inquieto personaggio, abituato a dir le cose in faccia e alzare la voce, lasciato a sé era una “mina vagante” che, in giro fra i parenti delle vittime di altri eccidi nazifascisti alle cui commemorazioni spesso presenziava, rischiava di lasciarsi sfuggire qualche parola di troppo che poteva innescare ciò che l’autorità costituita voleva evitare per non creare polemiche e complicazioni: l’approfondimento delle questioni, il rivangare dentro di esse, facendo insorgere domande, dubbi, ragionamenti, sospetti, nonché la spinosa questione dei risarcimenti. Da qui il gran daffare che si dette Togliatti in persona, il quale emanò precise direttive, recandosi lui stesso in visita alla casa colonica per “appropriarsi” dell’intera vicenda, facendo diventare i sette fratelli la sacra icona della Resistenza comunista.
In ogni modo, quale che sia la verità assoluta, la famiglia Cervi, proprio per le sue contraddizioni ed emotività, per le sue prese di posizione e la sua ingenua irruenza, le sue virtù e i suoi difetti, la sua fiducia in quel comunismo da favola cui tanti italiani e perfino chi scrive aveva creduto, è tipicamente italiana, e in tal modo va riguardata, come un simbolo di questa italianità che volente o nolente è parte di tutti noi, e in cui ci riconosciamo. La simpatia verso questa famiglia viene dunque istintiva, nonostante le diversità ideologiche che uno possa nutrire, perché in essa c'è un po' di tutti noi. La visita a casa Cervi è perciò un percorso obbligato della nostra Storia, che ci invita a riflettere non per demonizzare e idealizzare, non per criminalizzare gli uni ed esaltare gli altri, non per erigere steccati ma piuttosto per abbatterli, prendendo obiettiva coscienza che nella Storia è insita una logica che esige un ragionamento rigoroso che raramente i partecipi diretti delle vicende sono in grado di fare. A questo compito assolvono gli storici che, lontano dalle passioni, come da una terrazza sovrastante, osservano gli eventi, e, molto più correttamente, li riferiscono. Il compito dello storico è perciò prezioso e insostituibile proprio perché dove riportare i fatti nella loro realistica cornice e spiegarli alle generazioni future nella maniera più obiettiva possibile.
Dopo settant’anni, perciò, avendo arrecato all'Italia molti più danni che vantaggi la divisione tra fascisti-antifascisti, sarebbe ora che gli Italiani maturassero una visione equilibrata degli eventi, abbandonando l’irrazionalità che li pervade, e facessero lucidamente i conti con il passato. Ammettere che anche gli anglo-americani e gli altri stranieri ( jugoslavi, francesi, etc.) furono invasori e non liberatori, e causarono lutti, danni e devastazioni, senza dire che comandavano a bacchetta il Regno del Sud tanto quanto i tedeschi comandavano la Repubblica del Nord, non sarebbe difficile, ma è che non lo si vuole ammettere, perché ciò significherebbe un cambio di registro,di mentalità, di contenuti scolastici ed extrascolastici, nonché di propositi, di spirito e di comportamento, e insomma un vero e proprio venir meno dei fondamenti sui quali questa repubblica si regge. Nessuno di coloro che comodamente vi ci si sono installati ha interesse a un tale sommovimento: meglio continuare a perpetuare all’infinito il dogma della divisione tra “fascisti e antifascisti”. Ma tutto ciò ormai stride con la Storia, e anche con il buon senso, la logica, e, soprattutto, con la tragica realtà dei fatti odierni nei quali proprio l'antifascismo ha messo in mostra il proprio sonoro fallimento e il venir meno dei suoi tanto sbandierati ideali.
Sarebbero i 7 fratelli Cervi, e molti altri come loro, morti sognando un mondo di giustizia e libertà, contenti di vedere ciò che vedono, oggi? E a chi darebbero la colpa del clamorosamente fallito traguardo: ai fascisti, forse?


Maria Cipriano

domenica 1 maggio 2016

Un nuovo libro sulle origini del M.S.I in Sardegna

Su gentile concessione dell'amico e collaboratore Luca Cancelliere, presentiamo ai nostri lettori la recensione di un recente libro sulle origini del M.S.I in Sardegna.

G.d.S.A



Angelo Abis - Giuseppe Serra, “Neofascisti”
(Pietro Macchione Editore, Varese 2016)

Neofascisti”, uscito per i tipi di Pietro Macchione Editore (Varese, 2016), ci riporta in un particolare ambiente politico e umano della Sardegna del periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ’50 dello scorso secolo, quello dei “vinti”. Reduci delle forze armate del Regno d’Italia e della Repubblica Sociale Italiana, ex dirigenti politici e intellettuali fascisti, ma anche conservatori, monarchici, “fusionisti” e “qualunquisti” sono i protagonisti di questo pregevole studio scritto da due ricercatori che hanno già dato ottima prova di sé negli anni precedenti.
Sull’opera e la persona dell’amico Angelo Abis, Dirigente A.S.L. in quiescenza, chi scrive si è già soffermato in un articolo (Il fascismo sardo nei libri di Angelo Abis”) comparso sul numero 75 della benemerita rivista cagliaritana “Excalibur” nel gennaio 2014 e sul sito www.ereticamente.net. In questa sede, sarà sufficiente rammentare che lo studioso cagliaritano sulla fase finale della storia del fascismo sardo ha già prodotto due studi che costituiscono altrettante pietre miliari della ricerca storiografica in un ambito ancor poco indagato: “L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò” (Doramarkus, Sassari 2009) e “Il fascismo clandestino e l’epurazione in Sardegna 1943-1946” (Giorgio Ariu Editore, Cagliari 2013).
Il professor Giuseppe Serra, docente presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Giuseppe Manno” di Alghero, ha già fornito un notevole contributo all’approfondimento della storia politica del secondo dopoguerra in Sardegna con il pregevole studio “Le origini della destra in Sardegna: il partito dell’uomo qualunque (1945-1956)” (Doramarkus, Sassari 2010).
L’introduzione è stata curata da Giuseppe Parlato, professore ordinario presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma, presidente della Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice” e autore, per quanto concerne l’argomento della presente recensione, di “Fascisti senza Mussolini: le origini del neofascismo in italia (1943-1948)” (Il Mulino, Bologna 2006).
Nel primo capitolo si descrivono le vicende del clandestinismo fascista negli anni che vanno dalla caduta del regime alla fondazione del “Movimento Sociale Italiano” (Roma, 26 dicembre 1946), nonché le vicende di due formazioni politiche che più di altre ospitarono i reduci fascisti in quegli anni: il “Partito Fusionista Italiano” (da cui provennero tra gli altri Antonio Podda, Giovanni Bianchina, Arturo Marigo) e del più noto “Fronte dell’Uomo Qualunque” (di cui fu animatore a Nuoro Mario Mereu). Un ruolo molto importante ebbe anche il “Movimento Sardo Indipendente dei Reduci”, guidato dal futuro dirigente missino Mario Pazzaglia, che fu anche dirigente fusionista. A riguardo del “Partito Fusionista Italiano” (cui Guido Jetti ha dedicato “La Destra prima della Fiamma. La parabola del Partito Fusionista Italiano”, uscito a Roma nel 2011 per la “Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice”), giova rammentare che questa effimera formazione, guidata dal giornalista Pietro Marengo, parve a un certo punto assurgere a catalizzatore di tutte le forze nazionali e di destra della politica italiana, in particolare nell’Italia centro-meridionale e segnatamente in Sardegna dove ebbe ampia diffusione.
Nel secondo capitolo si ripercorre la costituzione, a seguito della fondazione del Movimento Sociale Italiano, della costituzione del partito nell’Isola e della sua diffusione su tutto il territorio regionale. Quasi ovunque, le sezioni del M.S.I. presero origine dalle vecchie sezioni del “Partito Fusionista Italiano” (divenuto poi “Partito Nazionale Sociale Fusionista”), il cui responsabile regionale Antonio Podda era transitato nel M.S.I. con molti altri dirigenti. In provincia di Sassari, già a poche settimane dalla fondazione del Partito (26 dicembre 1946), fu aperta la prima sezione nel comune di Bono, mentre la Federazione fu inaugurata, sotto la guida di Salvatore Mastino, nel dicembre 1947. A Cagliari la Federazione fu costituita nel maggio 1947, con Mario D’Atri quale Commissario Straordinario. A Nuoro la nascita della Federazione avvenne nel dicembre 1947 sotto la guida di Franco Aloysio. Contemporaneamente e con una certa rapidità, il Partito apriva sezioni in tutte le altre principali città (Carbonia, Iglesias, Oristano, Alghero, Olbia) e in moltissimi comuni dell’Isola.
Il terzo capitolo è dedicato alla stampa periodica neofascista in Sardegna nei primi anni del secondo dopoguerra. In particolare vengono esaminate due riviste sassaresi. “Il Quarantotto” fu il primo periodico neofascista della Sardegna repubblicana, uscito fino al 1948 sotto la direzione dell’ex militare e prigioniero non collaborazionista Nino Bianchina e caratterizzato da una linea social-rivoluzionaria di “sinistra nazionale”. “Il Risveglio”, diretto dai due giovani sassaresi Piero Fresco ed Eugenio Criscuoli, caratterizzato invece da una linea più nostalgica e nazional-conservatrice, chiuse la sua esperienza nel 1949.
Il quarto capitolo è dedicato alla partecipazione del M.S.I. alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, cui gli elettori sardi parteciparono massicciamente con una percentuale di votanti del 90,07%, pronunciandosi in maniera in equivocamente maggioritaria a favore della Democrazia Cristiana. In queste elezioni, il M.S.I. riuscì ad affermare la sua presenza con una percentuale di voti alla Camera dei Deputati sul totale regionale, modesta ma significativa, del 2,77% (provincia di Sassari, 3,91%; città di Sassari, 7,96%; provincia di Nuoro, 2,8%; città di Nuoro, 8,8%; provincia di Cagliari, 2,11%; città di Cagliari, 4,20%), con picchi nei comuni di Alghero (8,01%), Ozieri (8,38%), Benetutti (11,51%), Bitti (12,46%). Nel capitolo si accenna anche ai primi congressi provinciali di Sassari, Nuoro e Cagliari (nei quali furono eletti come Segretari Provinciali rispettivamente Salvatore Brigaglia, Bruno Bagedda e Arturo Marigo), in vista del Congresso Nazionale di Napoli del 27-29 giugno 1948, durante il quale fu eletto Segretario del Partito Giorgio Almirante, destinato a durare in carica fino all’anno successivo quando fu sostituito da Augusto De Marsanich.
Il quinto capitolo è dedicato alle elezioni regionali dell’8 maggio 1949, durante le quali il M.S.I. e ancor più il concorrente più diretto, il Partito Nazionale Monarchico (P.N.M.), conseguirono un successo lusinghiero e insperato. I risultati furono i seguenti: Sardegna, P.N.M. 11,6%, M.S.I. 6,1%; provincia di Sassari, P.N.M. 15,8%, M.S.I. 8,6%; città di Sassari, P.N.M. 26,5%, M.S.I. 10,9%; provincia di Nuoro, P.N.M. 9,18%, M.S.I. 6,57%; città di Nuoro, P.N.M. 9,5%, M.S.I. 17,2%; provincia di Cagliari, P.N.M. 10,17%, M.S.I. 4,51%; città di Cagliari, P.N.M. 18%, M.S.I. 9,3%. La linea politica durante queste elezioni fu spiccatamente anti-regionalista, coerentemente con l’assunto ideologico nazionalista e unitario del Partito, contrario non all’autonomia amministrativa di per sé, ma all’esistenza dell’Ente Regione quale ente politico e legislativo ritenuto pericoloso per l’unità nazionale. Il M.S.I. aveva anche presentato un disegno di legge costituzionale per l’abrogazione della Costituzione recentemente promulgata.
Il capitolo tratta anche del secondo Congresso Provinciale del M.S.I. sassarese, svoltosi a Sassari l’8 gennaio 1949, in cui venne eletto come Segretario Provinciale Gavino Pinna; del viaggio del noto Stanis Ruinas (alias Giovanni Antonio De Rosas, ex fascista poi assurto a massimo rappresentante della c.d. “sinistra nazionale” filo-comunista, nonché direttore del “Pensiero Nazionale”) in Sardegna nel luglio-settembre 1949 e dei movimenti giovanili del partito (F.U.A.N., “Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori”, “Giovane Italia”) nel M.S.I. sardo.
Il sesto capitolo, infine, è composto da una galleria di cenni biografici sui personaggi che hanno segnato la storia del M.S.I. in Sardegna: Giovanni Maria Angioy, Bruno Bagedda, Giovanni Bianchina, Enrico Endrich, Arturo Marigo, Mario Mereu, Mario Pazzaglia, Gavino Pinna. Molti di questi personaggi, come è noto, continuarono ad avere un ruolo significativo nel M.S.I. sardo nei decenni successivi.


Luca Cancelliere