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mercoledì 4 novembre 2015

IL RISORGIMENTO PERDUTO - Maria Cipriano

Cari lettori e carissimi amici,
quando a marzo pubblicammo l'introduzione al nuovo corso dell'AVSER facemmo appello a tutti “gli italiani di buon cuore” affinché dessero un loro contributo culturale alla comune causa. Se non abbiamo raccolto adesioni al progetto, è colpa nostra. L'esser cani sciolti fuori da ogni associazione o partito e gli impegni di lavoro che ci lasciano poco tempo da dedicare al gruppo di studio, hanno giocato la loro parte. E' giusto recitare un piccolo mea culpa di fronte all'assenza di nuovi collaboratori. Assenza che però si è finalmente interrotta questa estate, quando aprendo la posta elettronica del gruppo abbiamo trovato il messaggio di una valente studiosa del Risorgimento desiderosa di darci manforte: Maria Cipriano. Appurata la nostra affinità ideale, ci siamo detti pronti ad un'immediata collaborazione, ma varie vicissitudini non ci hanno permesso di pubblicare subito l'articolo che ci aveva proposto. Abbiamo dovuto attendere fino ad oggi un suo nuovo scritto. E posso dire, in tutta sincerità, che mai attesa fu più giustificata. Di contro alle imperanti tesi di un Risorgimento sordido, fatto più al tavolino che sul campo di battaglia, voluto da forze “occulte” ed estraneo alla popolazione, Maria Cipriano smonta questi luoghi comuni ricordando i tanti sacrifici, le condanne, il sangue, il dolore con cui fu lastricato il lungo cammino verso la nostra indipendenza Nazionale. Questo è stato il Risorgimento italiano: un ideale partito da lontano che, come un sordo mormorio, ha attraversato i secoli mantenendosi vivo di generazione in generazione fino al momento decisivo. Un lume che non si è spento neanche con la IIIª guerra d'indipendenza, alimentando le speranze e le giuste rivendicazioni delle terre irredente che ancora languivano sotto il tallone straniero. Ed è per questo che lo pubblichiamo oggi, 4 novembre giornata della Vittoria, giacché la prima guerra mondiale fu anche la nostra IVª guerra d'indipendenza, il giusto prosieguo del Risorgimento. Bisogna gridarlo forte in faccia a tutti i denigratori che sputano sulla nostra storia. Oggi più che mai abbiamo bisogno di recuperare una memoria offuscata da anni ed anni di menzogne. Ne va della nostra salvezza.
Concludo con un breve augurio: che la voce della signora Cipriano spezzi gli indugi e sia la prima strofa di un grande canto polifonico di cui l'Avser si faccia promotore per ridestare l'Italia e gli italiani dal grigio tepore in cui gravitano.
Buona lettura a tutti!


Sandro Righini


IL RISORGIMENTO PERDUTO


Francesco Saverio Altamura (1822-1897) La prima bandiera italiana portata a Firenze 1859

A chi conosce il Risorgimento solo per sentito dire o attingendo qua e là in ordine sparso da fonti non fededegne, farà specie sapere che esso non si esaurì in tre guerre d'indipendenza e poco altro, ma fu una lunga e tormentata epopea di morti ammazzati, torturati, perseguitati, bastonati, avvelenati, strangolati, incatenati nelle segrete, incarcerati in celle pullulanti di insetti e topi, segregati per giorni al buio senza mangiare, appesi alle corde, braccati da più polizie, esiliati, ridotti in miseria, al nord, al centro e al sud della penisola, costellata da fortezze e lugubri carceri nei quali quasi sempre i patrioti erano gettati assieme ai delinquenti comuni; né, senza tanto sacrificio e coraggio, il Risorgimento avrebbe potuto men che meno incominciare e figuriamoci concludersi nel 1870, con la presa di Roma, che toglieva al Papato il plurisecolare osso del potere temporale. Proprio perché il coraggio di quelle infinite schiere di persone eroiche noi ce lo sogniamo, è bene accennarne, se pur fuggevolmente, se non altro per rendersi conto che tutti i traguardi richiedono un prezzo, a maggior ragione se sono alti.
E l'unificazione dell'Italia, anzi la sua ri-unificazione, fu uno dei traguardi più alti e più difficili, se non impossibili, da raggiungere, di tutta la sua Storia, perché troppo forti interessi congiuravano per mantenere la divisione e dunque lo stato di debolezza della penisola che così molto più facilmente poteva essere spolpata dei suoi beni e delle sue risorse. Di conseguenza, la riunificazione, pur rientrando in vario modo nei pensieri degli italiani, restò sempre un miraggio. Diversi tentativi anche risoluti e illustri si annoverano in tal senso, come quello del re di Napoli Ladislao d'Angiò che entrò in Roma accolto dalla popolazione festante, o del Duca di Milano GianGaleazzo Visconti che si fregiò di una corona e di uno scettro regale, rispettivamente nel XV° e nel XIV° secolo, ma non furono coronati da successo. Anche la vasta congiura del toscano Francesco Burlamacchi che, dietro la Toscana, contemplava una Repubblica italiana, finì repressa nel sangue nel XVI° secolo, e il nobile coraggio del medesimo che si fece catturare e resistette alle torture col fuoco per permettere agli altri di salvarsi, è rimasto tramandato negli Annali della Storia d'Italia.
Scriveva il toscano Atto Vannucci nel 1877, in occasione della ristampa del suo libro “I martiri della libertà italiana”: “I frutti della libertà di cui godiamo furono coltivati sul nostro suolo con lunghi e mortali dolori. Non vi fu quasi paese straniero che non fosse pieno dei nostri esiliati. In Italia non vi fu carcere che non fu santificato dai patimenti degli uomini più generosi, non vi è palmo di terreno non bagnato dal sangue dei martiri della libertà. Il martirio fu perpetuo fra noi: i padri lo lasciarono ai figli, i quali accettarono arditamente l'eredità e la tramandarono alle generazioni novelle.”
Contro la riunificazione dell'Italia si levavano ostacoli tali e altrettanti interessi contrari, che se i patrioti del Risorgimento avessero dovuto tenerne conto, avrebbero immediatamente desistito e fatto marcia indietro. Tennero duro, invece. Insistettero. Perseverarono. Anzi si moltiplicarono. Incuranti delle rovine che piovevano loro addosso, incuranti delle fatiche, delle scomuniche, dei patimenti che la lotta per l'Italia assicurava a sè e alle rispettive famiglie.
Silvio Spaventa, uno dei massimi protagonisti meridionali del Risorgimento, scolpiva a tal proposito queste bellissime parole: “Quanta meraviglia di eventi nel periodo storico del Risorgimento italiano e quanti uomini! Grandiosi gli eventi, ma uomini uguali se non maggiori degli stessi eventi. Nei ricordi della loro vita sono raffigurate le vicende della Patria; dalle loro virtù, dal loro carattere e dalle loro individualità emanarono le influenze che decisero i nostri destini. Evocando quei ricordi si rivive, perché si sente il palpito dell'Italia in tutte le vicende della sua formazione e del suo compimento, nella maestà dei suoi dolori e dei suoi gaudi, nelle ansietà e nelle trepidazioni dei giorni avversi, nella serenità e nei conforti dei giorni propizi, nei suoi timori e nelle sue speranze; perché si contempla lo spettacolo di una nazione prostrata che vuol risorgere, e risorge.”
Così scriveva un uomo colto di origini agiate che avrebbe potuto vivere tranquillamente a casa sua in Abruzzo, e invece a 27 anni, dopo aver subito minacce, aggressioni e intimidazioni a causa del suo giornale “il Nazionale”, fu arrestato dalla polizia borbonica, sottoposto a lungo e doloroso processo assieme ad altre 44 persone, condannato a morte, infine confinato nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano, da dove non si lasciò mai sfuggire un lamento, una recriminazione, un cedimento. Prelevato dopo sei anni per essere deportato in America con altri infelici in tristi condizioni, per un audace colpo di mano del figlio di Luigi Settembrini (compagno di cella dello Spaventa) che di nascosto era salito a bordo travestito da marinaio, la nave fu dirottata in Irlanda con la complicità di alcuni ufficiali stranieri, e i prigionieri poterono fuggire; da lì Spaventa, con molti altri, si recò in Inghilterra dove Cavour lo incaricò di mettersi in contatto con altri esuli per sensibilizzare l'opinione pubblica inglese alla causa italiana, e quindi trovò definitivo rifugio nell'accogliente e generosa Torino dove potè riabbracciare l'amato fratello Bertrando, anche lui esiliato.
Le vicende del Risorgimento sono così ampie e numerose, e richiedono tale studio e tali approfondimenti, che le sparate improvvisate dei denigratori, mai come in questo tempo attivi e agguerriti, sulle quali poggiano i ben noti luoghi comuni in materia, muovono al riso gli esperti, i quali ben sanno quali e quante forze esso smosse, scatenò e continuò a scatenare anche dopo la sua formale conclusione, nel 1870, con la presa di Roma. Anzi: a leggere i documenti del Risorgimento si rimane fatalmente travolti e coinvolti dalle sue cronache e i suoi resoconti, e altresì sbalorditi, impressionati e perfino increduli di fronte al coraggio, al disinteresse, allo sprezzo del pericolo e alla generosità gratuita dei suoi protagonisti. Tutto il Risorgimento strabocca di personaggi come il generale Giacomo Antonini, piemontese, che, ferito gravemente durante una sortita contro gli Austriaci durante la difesa di Vicenza nel 1848, mentre gli amputavano il braccio con mezzi di fortuna, gridava “Viva l'Italia!”. Nessuno li obbligava a volere l'Italia. Nessuna retribuzione o premio era previsto. Solo dolori, fatiche, miseria e facilmente la morte. Eppure fortissimamente la vollero.
Federico Seismit-Doda, uno dei più noti patrioti dalmati, fu testimone in prima persona e partecipe diretto delle eroiche e purtroppo tragiche vicende della guerra d'indipendenza, conclusasi una prima volta nel luglio del 1848 con la sconfitta di Custoza, che pure terminò con la leggendaria carica del Genova Cavalleria contro gli Ulani austriaci che tentavano scompigliare l'ordinato ripiegamento dei piemontesi da Volta mantovana a Goito. In quell'occasione egli scrisse cosa avveniva al riapprossimarsi degli austriaci assetati di vendetta: “Tutti i cittadini fuggirono. Madri con bambini lattanti, vecchi, infermi, ragazzi, un'intera popolazione esulò fuggendo ai massacri, ai saccheggi e alle rapine dei barbari, forti dei loro cannoni. Ottantamila lombardi riparavano in Svizzera quando gli austriaci la mattina del 6 agosto 1848 rimettevano piede a Milano, e fra loro c'ero anch'io.”
Il Risorgimento è dunque tragedia eroica, di fronte alla quale bisogna aver il pudore di tacere, se non si sa cosa dire. Nell'interminabile suo rosario di vite umane spese per l'Italia, moltissime ignote, anche Mazzini condusse un'esistenza grama e raminga, interamente votata alla causa, e Garibaldi non fu da meno, braccato da più polizie e con una taglia salatissima messa sulla sua testa dagli Austriaci che non riuscì a corrompere nessuno, tanta era la devozione che gli Italiani gli portavano, pronti tutti a nasconderlo ovunque. Nè si creda che Cavour sia vissuto tranquillo a Torino: che le cure per l'Unità d'Italia assorbirono completamente le sue forze (e le finanze dello Stato sabaudo), al punto da portarlo alla tomba precocemente, solo tre mesi dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Infine Re Vittorio Emanuele II rischiò più volte il trono, soltanto a dichiarare guerra all'Austria nel 1859, ben consapevole che un passo falso e un calcolo sbagliato avrebbe portato al crollo della sua dinastia e alla perdita di tutti i territori. L'incubo di un'invasione da parte delle potenze europee turbò peraltro i sonni suoi e del Cavour durante tutto il corso del Risorgimento, acuendosi proprio dopo la seconda guerra d'indipendenza, quando la Francia, bramosa di ricavare il maggior utile possibile dalle travagliate vicende italiane che l'avevano dissanguata sui campi di battaglia di Magenta e Solferino, non ritirava il corpo di spedizione dalla Lombardia, minacciando anzi di spostarlo a Bologna e nelle Romagne con continui ricatti. I documenti parlano fin troppo chiaro: tra questi la famosa nota del ministro degli Esteri francese Thouvenel all'ambasciatore di Francia a Torino barone di Talleyrand, del febbraio 1860, nella quale il Cavour poté leggervi le condizioni della Francia, le sue pretese, il suo rifiuto di un'Italia unita, ed anzi addirittura le sue larvate minacce che alludevano a un intervento delle Potenze europee e a un isolamento internazionale del Piemonte, lasciando intendere che l'Europa non avrebbe digerito il nascere di una nuova potenza quale l'Italia rischiava di diventare. In quel documento, la Francia, facendosi interprete dei voti e dei timori delle potenze europee, Austria e Inghilterra compresa, concedeva solo l'annessione dei Ducati di Parma, Modena e Piacenza, escludendo recisamente l'annessione del Granducato di Toscana, dell'Umbria e delle Romagne che dovevano rimanere com'erano, o, tutt'al più, queste ultime, venire governate da un non meglio precisato “vicariato” di Torino. Neanche lontanamente si prendeva in considerazione il Regno delle due Sicilie né a maggior ragione Roma, il Lazio e le Marche, territori che solo l'astuzia del Cavour era riuscito a far credere fossero esclusi dai programmi, quando decine di migliaia di esuli di tutte le regioni fremevano tra Malta e il Piemonte o in altri luoghi all'estero, e altrettanti dentro gli ergastoli e nella clandestinità, attendendo impazienti l'ora della riscossa. Alle grandi capacità di Cavour e di Vittorio Emanuele II si deve dunque se, nel giro di solo pochi mesi, accadde esattamente il contrario di ciò che la Francia aveva ordinato e disposto con la sua nota del febbraio 1860.
Il Cavour capì che doveva anzitutto liberarsi del corpo militare francese e trattare con Napoleone III, e, dopo aver cercato di evitare la cessione di Nizza e della Savoia offrendo altre contropartite, fu costretto a cederle come “merce” di scambio per lasciare a Torino campo libero, come infatti precisamente accadde. Una volta ritirate le truppe, Napoleone III si trovò impossibilitato a reagire quando capì che i programmi di Torino andavano molto al di là del previsto e prevedibile. Inoltre, la cessione di Nizza e della Savoia, perfezionatasi fra il marzo e l'aprile di quello stesso anno, aveva messo di malumore tutta l'Europa, anche l'Austria, creando dissapori con Parigi e una situazione difficile per Napoleone III. Tutti i giornali europei contestarono l'”accaparramento” da parte della Francia dei territori nizzardi e savoiardi che per secoli erano stati parte integrante del Ducato di Savoia, sbugiardando i plebisciti falsi e truccati e le “sceneggiate” messe in piedi da Parigi, mentre più di 10.000 italiani abbandonavano la Contea di Nizza, e quasi altrettanti la Savoia, costernati per quell'annessione. La ragion di Stato aveva sacrificato quegli aviti e bellissimi territori, abitati da popolazioni miti, operose e fedeli, ed è doveroso rivolgere ad esse, ancora oggi, un pensiero deferente e un ricordo permanente, soprattutto di fronte alle volgari prese di posizione anti-Risorgimentali del nostro tempo, o a chi crede addirittura Nizza e la Savoia fossero più francesi che italiane. A testimonianza di quanto fosse vero il contrario, già nel gennaio del 1860, la popolazione savoiarda, messa in allarme da voci circolanti di un passaggio alla Francia, aveva organizzato una imponente manifestazione di molte migliaia di persone nella piccola Ciamberì capitale della Savoia (così allora si chiamava l'odierna Chambery francese), in cui, pur sotto una fitta neve, con alla testa i 24 delegati di tutta la regione (che era vasta il triplo della Valle d'Aosta) ognuno reggente un Tricolore, si presentarono dal governatore, il marchese Orso Serra, per esigere ragguagli e leggergli una dichiarazione in cui si affermava testualmente la volontà dei savoiardi “di continuare a far parte degli stati della casa di Savoia di cui la nostra terra è stata la culla e di cui i nostri padri hanno seguito per otto secoli i gloriosi destini.” Il marchese in buona fede rispose che era impossibile che la Savoia fosse ceduta alla Francia e lesse a sua volta un telegramma di Cavour in cui recisamente questi negava la cessione (essendo allora anche lui convinto di poterla senz'altro evitare).
A questo proposito, è d'uopo precisare che l'idioma del ceppo franco-provenzale simile al valdostano in uso in quelle zone non significava che quelle zone non si sentissero italiane, trattandosi di territori il cui gravitare verso l'Italia era dovuto al persistere di reminiscenze Romane, le quali avevano creato un baluardo ideale al prevalere della Francia che, in quanto territorio dei Franchi, era sempre stata considerata estranea e straniera dalle popolazioni di origine provenzale a ridosso del confine occidentale dell'Italia, che si vantavano Romane. Non a caso le rivolte contro i Franchi in quelle terre continuarono fino alle soglie del Medio Evo, e il prevalere della lingua fu un fatto solo contingente. La Savoia e la Contea di Nizza, dopo la caduta di Roma, si volsero spontaneamente alla madre-Italia, e cederle fu come cedere un pezzo di quel cuore Romano che ancora batteva. Ciò nonostante esisteva un partito separatista francese molto attivo, lautamente foraggiato da Parigi e telecomandato dai servizi segreti francesi, il quale senza posa fomentava il distacco di quei territori dall'Italia. Ma, quanto questo distacco fosse artificiale e forzato, lo dimostrano proprio gli eventi che seguirono alla cessione di Nizza e la Savoia. A Nizza ci volle la proclamazione dello stato d'assedio per domare un'insurrezione popolare che reclamava la riunione all'Italia, e in Savoia furono mandati 10.000 armati per sedare un analogo moto popolare di vaste proporzioni che reclamava il ritorno alla madrepatria. Ancora oggi in entrambi questi territori i malumori non sono cessati e sono sorti movimenti politici che chiedono il distacco dalla Francia e guardano con simpatia all'Italia, proponendo un referendum.
Dunque, a coloro che di fronte al Risorgimento sorridono come fosse una favoletta, sarà bene ricordare che la sua tragicità fu smussata solo dal fatto che si trattò di una vicenda epica, dunque intollerante ai pianti e ai lai, ma degna solo di stoica e perpetua ammirazione. Una tragedia che continuò anche dopo la riunificazione, non solo perché essa non fu completa bensì orbata di diversi territori, ma anche perché le potenze europee, anche quelle che apparentemente avevano fatto mostra di appoggiare il Risorgimento, non vedevano certo di buon occhio il nuovo intraprendente Stato ubicato in posizione strategica al centro del Mediterraneo, ansioso di sedersi al tavolo del potere mondiale rivendicando la propria parte, e cercarono in varie maniere di boicottarlo.
L'anima fondamentalmente repubblicana del Risorgimento, carbonara e democratica, divenne -salvo una fronda di irriducibili- monarchica e fedele alla dinastia e ciò fu determinante per la stabilità e la tenuta dello Stato. La maggioranza degli Italiani si rese conto che senza i Savoia, senza i loro ministri, i loro piani, la loro diplomazia, i loro soldi e il loro esercito organizzato e fedele, sarebbe continuato ad accadere ciò che Cavour rimproverava a Mazzini: “Voi mandate a morire stuoli dei nostri giovani per nulla.” Erano i normali contrasti fra due grandi uomini, s'intende, ognuno dei quali fece la sua parte per l'Italia, contrasti anche forti che però non ebbero mai la meglio sul traguardo supremo da raggiungere: l'indipendenza e l'unità della Patria.
Scrisse a questo proposito Mazzini nella sua opera “I doveri dell'uomo”: “Senza Patria, voi non avete nome, né segno né voto né diritti né battesimo di fratelli fra i popoli. Siete i bastardi dell'umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Né v'illudete a compiere, se prima non vi conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale.”
E Cavour scrisse nel suo saggio “Des chemins de fer en Italie” (le ferrovie in Italia): “la storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado d'intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità, il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili nella sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità.”
Parole che oggi suonano risibili nel clima da Risorgimento perduto in cui ci troviamo: un clima fatuo e babelico di smemoratezza e ignoranza, dove al venir meno dell'identità nazionale si accompagna il relativismo culturale e morale e il tradimento delle classi subalterne, in un fatale sgretolarsi dei valori, dei principi e delle conquiste, sociali e politiche, ottenute fin qui a prezzo di tanti immani sacrifici.

Maria Cipriano