Cerca nel blog

lunedì 28 ottobre 2013

ANTOLOGIA POUNDIANA - Il Fabbro perfetto

EZRA POUND
L'ULTIMO DEI GRANDI POETI



EZRA POUND (1913-14)
in un disegno di Henri Gaudier-Brzeska

 
Rielaborato da un ciclo di conversazioni di  
Ferruccio Bravi 
registrate dal vivo nella sede del  
Circolo «Giovanni Gentile» 
di Bolzano (13-21 dicembre 1972).

Si definisce « perfetto artefice » della poesia americana; ma in lui c’è ben poco di made in Usa oltre l’atto di nascita – Hayley, Idaho, 1885 – e la lingua che egli ha saputo elevare ad un livello d’espressione scespiriano non comune ai suoi conterranei, ad un virtuosismo degno del cesello dannunziano. Docente universitario di letterature straniere, nel 1907 dovette lasciare la cattedra per le sue idee e certa esuberanza poco in tono con l’utilitarismo banale e venale del suo Paese, materialmente ricco e grande quanto povero e meschino per la prorompente spiritualità del Poeta. L’anno seguente, con pochi soldi e tanti sogni, migrò verso il vecchio mondo e approdò alla « terra promessa » dove il Bello e il Pensiero avevano una radicata tradizione.
In Italia la sua anima irrequieta si placò con l’aprirsi all’Arte dei Grandi, nell’incontro di Dante e del D’Annunzio, estremi cronologici della più elevata poesia e per lui massimi paradigmi: dal primo derivò la potenza dell’immagine e la profondità di pensiero, dal secondo l’estro audace, l’espressione limpida, il gusto della parola.
Versatilità e cultura sono corredo indispensabile del genio e dell’artista. Poeta di vasto sapere e d'ingegno multiforme, Ezra si è librato nei cieli della poesia con ali leggerissime, senza tentazioni dottrinarie, senza paludamenti di erudizione: dai versi suoi, scarni spogli crudi. Come il marmo appena sbozzato, la forma balza immediata alla luce, compiuta nelle linee essenziali. Il suo pensiero trascorre da un ramo all’altro del sapere, dalla letteratura alla musica, dalla filosofia alla sociologia, dalla storia alla politica e, ultima Thule, all’economia.
Come letterato è classico e ad un tempo modernissimo; ma classico innanzi tutto, innamorato com’è dei classici conosciuti alla fonte, nel testo originale, senza la mediazione della critica. I maligni definiscono i critici artisti mancati che si rifanno giudicando le opere dei veri artisti. Comunque il Pound non se ne cura, li lascia trastullare fra alambicchi e bellurie parolaie, non riconosce altra critica se non quella in senso lato ed elevato, la critica letteraria della quale lascia robusti saggi, a cominciare da The spirit of Romance, mirabile divulgazione della letteratura provenzale e italiana dei primi secoli.
La sua missione si svolge, fra turbinose scorribande, attraverso i componimenti giovanili apparsi a Venezia (A lume spento, 1908) e la sua produzione londinese (1910-20) in cui emerge nei movimenti di avanguardia e si impone agli ultimi Imagists. La sua personalità si delinea decisamente nei Cantos, poema di vasto disegno e dimensione dantesca. È rivoluzionario, ma sempre ancorato ai clas-sici che sono un tesoro inestimabile: « Sarebbe un gran brutto giorno – ha lasciato scritto – quello in cui di nuovo gli uomini li buttassero a mare; finiremmo in qualcosa di peggio e di altrettanto brutto della Controriforma: un garbuglio di scarpe di gomma, di cocco, di Y.M.C.A., di Webb. Di lavori di commissioni sulle teorie sociali, tutto un inferno di oscurantismo… ». Nell’Italia degli anni ruggenti questo idiota bric-à-brac democratico rimediava qualche striminzito consenso non solo da frivoli garzoni di barbiere ma perfino da certi intellettuali da salotto paranoici e snob non meno di oggi che alla cultura di casa e al richiamo della Roma classica amplificato dal regime preferivano la voce dell’America. Voce di sirena d'un paese lontano, inteso non tanto come una « babele di clamorosa efficienza, di crudele ottimismo al neon che assordava e abbacinava gli ingenui » ma piuttosto come un « gi-gantesco teatro dove veniva recitato il dramma di tutti ». Così Cesare Pavese, il quale, prima del tiepido approdo al Pci, era un patito di Charlot, Tom Mix, Al Capone e Walt Whitman; e si deliziava di tutto ciò che sapeva d’America accettandone in blocco il grande Libro. Tutto il libro, comprese le pagine infami scritte da Roosevelt e successori (Yalta, Hiroscima, Other losses, Norimberga) e quelle di recente scrittura grondanti sangue d'aggressioni e massacri che gli aspiranti Padroni del Mondo hanno intenzione di perpetuare fino al globale asservimento dell’umanità.
Alla cupidigia usuraia, alla barbarie culturale, all’umanitarismo ipocrita, alla τρυφή democratica, alla schiavitù sotto veste di libertà posticcia, Ezra oppone la composta bellezza del cultura classica. Apostolo prima che artista, la propone ai giovanissimi infondendo loro, attraverso l’opera sua, l’amore per  i Grandi e il culto del Bello.

«Je peux commencer une chose nouvelle tous les jours, mais finir… » disse una volta, lasciando intendere che l’Artista colto e versatile rischia di dissipare energia senza produrre opera compiuta e rifinita. Il che, non di rado, accade a sommi geni come Leonardo. Da un poeta d'inesausto sapere e illimitate attitudini come il Pound dovremmo aspettarci tante buone intenzioni e scarso frutto, composizioni concettose e fredde appesantite da paludamenti gnomici ed eruditi. Al contrario la sua poesia è agile e fresca, « semplice – direbbe l’Alfieri – per quanto l’uso d’arte il comporti » ma al tempo stesso è prodigiosamente ricca di immagini, effetti e prospettive. La sobrietà fruttifica nei Grandi e inaridisce nei mediocri, si fa intensità nel maestro e vacuità nell’allievo. E il Pound ha la tempra del maestro. Almeno su questo tutti sono d’accordo, perfino i detrattori che non son pochi. Il suo magistero si esplica pienamente nei Cantos (1925-1935 con tarde addizioni) dai quali germoglia un nuovo umanesimo che influenzerà la letteratura contemporanea, in specie di lingua inglese. “Ne hanno mangiato e bene”: persino Hemingway, indirizzato altrove, ne ha mangiato. Lo stesso Eliot, quanto meno, lo ha apprezzato nel dedicare al Pound il capolavoro, The waste land.
Per una diretta intelligenza dell’arte poundiana rimando alle pagine seguenti ( brani in inquadrato e Antologia ). Sono versioni in lingua italiana che rendono fino ad un certo punto; ad accedere alla magica sfera poundiana si deve leggere il testo originale.
Gli squarci lirici che seguono sono d’approccio. Il primo è una evocazione degli Dei ellenici che con timido passo tornano a regnare sul mondo. Vi si ritrovano accenti e sensazioni dell’ode di Keats An a Grecian Urn, un inno alla Fede nella Bellezza, « la sola necessaria alla vita » per il lirico inglese.
Seguono due brani dal LXXVI dei Pisan Cantos: la solenne apparizione del paesaggio fra Serchio ed Arno nel diradarsi della foschia autunnale al di della sua gabbia di ferro nel campo di Migliarino Pisano e la possente interpretazione d’una delle più ignobili pagine della nostra storia, il peggio del nefasto 1945 per il prigioniero e per l’Italia che egli amava come nuova patria 1.

Ritorno

G uarda, ritornano. Oh guarda le trepide
movenze e l’incedere tardo,
il passo turbato e l’incerto
ondeggiare.
Guarda, ritornano, uno per uno,
spauriti, come nel sonno;
come neve che indugi
e mormori al vento
quasi volgendosi indietro.
Questi, gli “Alati-di-terrore”
inviolabili.


Terra di Pisa
La città nascosta
s’innalza, bianco avorio fra le nebbie.
Qua le radici affondano lambendo
l’orlo del fiume. E sugli stagni il sole
di settembre sorride. Limpidezza
che fluttua come fluttuano le vette
dei pioppi lungo il fiume. Solo i pali
del mio recinto immobili si stanno.
Con gli occhi tuoi, fratelli della quiete
e dell’acqua e dei salici e dell’alba,
guardami, Driade

Olocausto


U n uomo, no, non si era mai veduto
nei secoli, due volte crocifisso.

E lui che costruire
voluto avrebbe la città fiorita
dalle audaci terrazze scintillanti
presso alle stelle, lui, vinto, sereni
e miti sguardi, non sdegnosi e inquieti
presso a morte volgeva….

…Presente!
Egli sconvolse degli schiavi
il mercato, le sabbie trasformò
in fertili campagne, agli aguzzini
sporchi fece assaggiare la sua frusta.
crocifisso, due volte crocifisso!
Vittima consacrata. crocifisso
Credo quia absurdum. credo nell’Italia
e nella sua impossibile rinascita!




La concisione e la ricchezza dei motivi creano immagini stupende; nel brano che voglio intitolare Olocausto (‘vittima consacrata’ al sacrificio supremo in nome di un principio superiore) meglio non si poteva rendere l’epilogo del dramma italiano e il dissolversi d’una incomparabile civiltà dopo la soppressione fisica dell’Uomo che l’aveva espressa: pochi versi incandescenti che valgono assai più di tutta la produzione apologetica – centinaia di volumi e migliaia di colonne di giornale – apparsa da allora ad oggi. E mai invocazione di italiani degni di tal nome si è levata all’altezza di quel mistico « Credo quia absurdum », di quel sublime atto di Fede che presagisce la resurrezione.
E zra sa comunicare con mirabile efficacia il senso del passato, in specie nell’imitare e rielaborare motivi medievali alternati a immagini e reminiscenze tratte, con sagace eclettismo, dalle lette-rature classiche e orientali ( Personae, 1926). Il Medioevo, di solito rappresentato statico ed opaco, è animato nei suoi versi da sciolta vivacità e singolare vigore espressivo. Ne è tipico esempio Altaforte, un canto guerresco che di slancio esaurisce a fondo le risorse d’una struttura rigorosa, condizionata dalle ostiche regole della sestina provenzale. Della sestina sono ben noti lo schema asperrimo e i rigidi canoni fissati da Arnaldo Daniello che l’ha ideata: sei stanze di sei endecasillabi con ripetizione della parola finale d’ogni verso della prima stanza nelle successive, in modo costante e vario, più una terzina di commiato con successione articolata delle sei parole a chiusura di sei emistichi.
In questa forma di canzone si erano cimentati con un certo successo, fra i nostri, solo i grandi trecentisti. Non è da meno Pound, il fabbro perfetto, nel rifondere e saldare insieme concetti e parole del trovatore Bertrando dal Bornio, espressi nella sua lingua con freschezza d’acqua sorgiva. La sua sestina è un suggestivo monologo al livello di certi squarci scespiriani in cui la voce del personaggio sovrasta e annulla quella dell’ambiente.
Il personaggio è il castellano di Altaforte nel Périgord: Bertrando, il bardo che secondo un’antica biografia provenzale « amava la guerra per la guerra. Cantò di Madonna Battaglia come S. Francesco di Madonna Povertà, o come i rimatori più dolci cantarono delle donne care al loro cuore » 2. Vissuto dal 1140 ca. al 1215, esaltò con passione le lotte cruente e implacabili; « pensava e si affannava a dimostrare con i suoi sirventesi che l’uomo è disonorato nella pace […] sempre volle che fossero in guerra insie- me il padre, il figlio e il fratello l’un contro l’altro » 3. La sua fama di attizzatore di contese influenzò Dante, il quale loda il cantore d’armi per la sua liberalità e lo colloca al posto d’onore fra i poeti del suo tempo, ma non esita a cacciarlo nell’Inferno fra i seminatori di discordia. E per contrappasso lo condannò a incedere decapitato, tenendo per i capelli la testa recisa dal busto, pendula come una lanterna 4.
Così passò Bertrando dal Bornio, destinato dal Divino Poeta alla nona bolgia e di lì tratto, sette secoli dopo, da un poeta moderno che l’ha restituito vivo e più che mai pungente di lingua, caustico nel vituperare i baroni di Provenza, la vigliaccheria, la pace. Le espressioni e le invettive del redivivo sono quelle dei suoi migliori sirventesi, delle più oltracotanti canzoni di sfida, quali A Peregors, pres del muralh e Quan vei pels vergiers desplegar 5. In Altaforte Bertrando rivive e ci parla con l'immediatezza dei suoi canti guerreschi.
Della sestina presento, nell’inquadrato a fronte, una traduzione che nel mio intento è fedele per quanto lo conceda il rigore dello schema e la successione obbligata della parola-rima.
Mi assolve il Pound che definisce il tradurre « impresa ingrata, o almeno soggetta ad essere ingrata o infelice ». Peraltro – si è già accennato – i suoi componimenti mal si acconciano ad esser volti in altra lingua.
Resta qualcosa da dire sul tema. Mi rendo conto, coi tempi che corrono, della scarsa simpatia che Altaforte può incontrare, non dico fra le torpide masse – che non leggono mai e si informano come vogliono i demagoghi e i capezzatori – ma anche fra le classi strigliate, salde al mito della pace ad ogni costo. Il pacifismo di maniera, bolso di vieta retorica e fine a se stesso, è ormai fenomeno patologico, endemico; narcosi d’una società senza carattere e senza valori sull’orlo dell’abisso mondialista, della tirannide planetaria.

Altaforte
Loquitur en Bertrans de Born

Dante mise quest’uomo nell’inferno
perché era seminatore di discordia.
Ecco, giudicate!
Scavando, l’ho tratto fuori nuovamente!
La scena è al suo castello, Altaforte. Papiols è il suo giullare.
Il ‘Leopardo’, la divisa di Riccardo Cuor di Leone.



A ll’inferno! Nel mondo tutto appesta la pace.
Vieni, cane bastardo,Papiols vieni! Alla musica!
Io non vivo che quando cozzar sento le spade.
Ma se vedo stendardi di vaio e d’oro opposti
Nella battaglia e i campi farsi al sangue vermigli
Il mio spirito esulta, ebbro di folle gioia.

Nell’ardor dell’estate provo una immensa gioia
Quando l’ira celeste vince l’abietta pace
Col balenio dei fulmini nel nero ciel vermigli
E ruggiscono i tuoni, per me divina musica,
Ed ululano i venti fra le nuvole opposti
E lacerando l’aria cozzan di Dio le spade.

conceda ancor l’inferno d’udir cozzar le spade,
Eccitati destrieri nitrir pazzi di gioia,
Tinnir petti chiodati l’un contro l’altro opposti.
Meglio un’ora di lotta che un secolo di pace
Di crapule, di vino, di lazzi osceni e musica!
Non c’è vino che valga quanto il sangue vermiglio.

A mo il sole che sorge color sangue vermiglio
Dai raggi che nell’ombra balenan come spade.
Prorompe travolgente dal mio petto una musica
E si colma il mio cuore d’una sublime gioia
Quando così lo vedo sdegnar l’immonda pace
col suo vivo splendore alle tenebre opposto.

L’uom che la guerra fugge, l’armi temendo opposte
E il cozzar delle lame, sangue non ha vermiglio
Marciscan pure i vili nella femminea pace
Lungi da dove i prodi incrociano le spade.
Per la morte di tali baldracche urlo di gioia
E nell’aria diffondo selvaggia la mia musica.

Papiols, vieni, Papiols! Su, diamoci alla musica!
Non c’è suono che valga vibrar di colpi opposti
Non c’è grido che valga urlo guerrier di gioia,
Quando gomiti e lame sangue stillan vermiglio
E si avventa il ‘Leopardo’ contro le nostre spade.
Maledetti in eterno color che gridan ‘Pace’!

Ch' io senta ancor la musica delle sonanti spade!
ch' io veda schiere opposte, vasti campi vermigli!
Al mondo non è gioia finché regna la pace!


Altaforte è sì un inno alla guerra per la guerra, suscita, sì, orrore per la strage, ma butta all’aria gli altarini di chi invoca la pace per la pace, a costo della peggiore ingiustizia, a vantaggio dell’aggressore che, con dorati pretesti – le “ingerenze umanitarie”, le “crociate democratiche per mandato divino”), funesta con stermini, distruzioni, rapine e schiavitù le terre altrui ricche di materie prime.
Altaforte aiuta a capire una verità che i pacifisti fingono di non capire: l’uomo è lupo all’uomo (lo disse Plauto e altri l’hanno ripetuto), l’innata aggressività e il connaturato istinto di sopraffa-zione dell'uomo rendono fittizio e precario il beneficio della pace.
Quando poi questa parola mai con le carte in regola (di qui le invettive dannunziane: femmina da conio / che per ruffian s’avea qualche Bonturo e serpe viscosa inviata alla tristezza degli uomini) vuol dire apatia, accidia e viltà, invocarla è rifiutare la lotta anche nel senso più nobile; è rinnegare le parole stesse del Giusto venuto sulla Terra «non per portare la pace, ma la spada ».

Note:
1 Versioni da: « La Vetta d’Italia » Bolzano, 14 dicembre 1963-IV/21 ( Ritorno e Due volte crocifisso, a corredo della prima puntata de Il « Fabro Perfetto » di F. B.); ivi, 29 febbraio 1964-V/4 ( in Terra di Pisa di Vittorio Vettori che include anche una robusta pagina da Mamma marcia del Malaparte sui tesori pisani di natura e d’arte sfregiati « dalla stupida ferocia dei vinti e dei vincitori »).
2 Camille Chabaneau, Les biographies des troubadours, Tolosa 1885, passim.
3 Riferimento storico, non del tutto fondato, ai suoi intrighi contro i dinasti inglesi, in specie Enrico II nella cui corte creò un clima da Tebaide.
4 Citazioni dantesche:
« [] Per che è manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le chiamò [] invitando e confortando li uomini a liberalitade di benefici, che sono generatori d'amici. E quanto fa bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà, per avere e per acquistare cose perfette, sì come li cuori de' valenti uomini! [] E cui non è ancora nel cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è an-cora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non sola-mente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire vorreb-bero che ciò fare, amore hanno a la memoria di costoro ». – Conv. IV. xi. 10-14.
« Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bornello rectitudinem; Cynum Pistoriensem amorem, ami-cum eius rectitudinem ». – De Vulg. Eloq., II.II.9.
« Io vidi certo, ed ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome,
pésol con mano a guisa di lanterna;
e quel mirava noi e dicea: "Oh me!".
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due:
com'esser può, Quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa,
per appressarne le parole sue,
che fuoro: "Or vedi la pena molesta
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch' i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli:
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch'io partii così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone.
Così s'osserva in me lo contrapasso" ».
Inf., XXVIII.118-142.
5 Fra le più riconoscibili fonti d’ispirazione di Altaforte, si annotano le seguenti in libera versione italiana:
A Perigors sotto le mura,
sì, e ad un tiro di mazza soltanto,
io verrò armato su Baiart
e se ci trovo l’obeso pittavino
vedrà se la mia spada taglia,
ché della sua testa farò un pastone
di cervello e di piastre di maglia […].
Tutti i giorni risuolo e ricucio i baroni
e li rifondo
e li riscaldo per farli muovere.
Ma non ne vale la pena:
non sono che pappemolli, hanno una tempra scadente,
peggiore del pessimo ferro di S. Leonardo.
Per cui è uno scemo chi se ne affanna.
Tutti i giorni contendo, duello, difendo
e porto avanti e indietro la battaglia;
e si distrugge e si brucia la mia terra,
si mescola il grano con la paglia:
non ho nemico, ardito
o codardo, che non mi attacchi […].
* * *
Mazze e brandi, elmi colorati
e scudi tranciare vedremo
al cominciar della mischia…
e quando sarà entrato nella zuffa,
ogni uomo ardito non pensi ad altro
che a fracassar teste e braccia;
un morto val meglio d’un vivo sopraffatto.
[…] Mi piace veder per i campi
tende e padiglioni rizzati
e provo gran gioia, quando schierati in campo
vedo destrieri e cavalieri in armi […].
Non tanto mi piace mangiare
e bere e giacere,
quanto il sentir gridare ‘Addosso!’ e nitrire
dalle loro testiere i cavalli
e gridare ‘Aiuto! Aiuto!’ e vedere
i caduti trafitti da spezzoni di lancia
e da banderuole che escon dal costato.
[…] Baroni, mettete in pegno
castelli, borghi e città
prima che ci facciano guerra,
e tu, Papiols, fammi il piacere,
corri da ‘Sì-e-no’
e digli che qui c’è troppa pace […].