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lunedì 30 settembre 2013

DEMOCRAZIA E LIBERTA'

Alcune riflessioni, estratte da "Oh! La Globalizzazione!", intorno a due parole abusate, divenute la moneta sonante con cui gli odierni demagoghi comprano i consensi delle masse e preparano guerre "giuste"..

La Democrazia


Le comunità si costituirono appena popolata la Terra. Con esse insorsero le controversie, per così dire, ci­vili che furono sbrigativamente risolte con spietata di­scriminazione. Eliminati o banditi gli oppositori, i rimasti che si reputavano buoni e saggi convennero di darsi delle regole e di governare ognuno per tutti, nell'interesse di tutti.
Da allora cominciò il braccio di ferro tra anarchia e tirannide. Dalla copula di questi due mali nacque un ‘bene unico e supremo’ che in età storica i greci chiamarono De­mocrazia, vale a dire ‘governo di popolo’. Questa meraviglia impastata di utopie e paradossi fu riscoperta nell'Età dei Lumi: l'idea d'un popolo che governa, sedusse un intellet­tuale stento e un po' tocco, fallito nel pensiero e nella vita, deludente e deluso in tutto.
« L'idea mi piace disse l'intellettuale è vecchia, ma in linea coi tempi nuovi ». La fece sua, non senza qualche dubbio. Dubitava, tra l'altro, che la società sa­pesse go­vernarsi da sé. E concluse che un popolo di dei, quello sì, potrebbe reggersi democratica­mente 1.
Dopo di lui un cervello fino, disincantato e con qualche autorità in materia, osservò che la Democrazia è un ‘governo di popolo’ che impedisce al popolo di occuparsi delle fac­cende che lo riguardano. Da ultimo, uno statista inglese tra i fumi del tabacco e del whisky sentenziò che, a ragion veduta, la Democrazia è il peggior sistema di governo; ma poi ci mise una pezza asse­rendo che non ne esiste uno migliore...
Il fune­rale di questa creatura mai nata si è celebrato tantissime volte, senza rimpianti, nell'antica Grecia. E si celebra ogni dì nella coscienza dell'italiano. Il quale, angariato, schifato e consa-pevole del disfacimento morale e mate­riale del popolo becco e mazziato, conviene col giudizio dello statista inglese. Però la pezza non ce la mette.
La Storia insegna che esistono regimi assai meno corrotti, meno oppressivi e meno pericolosi della Democrazia, la quale apre le porte della Città a tutti i mali. Manovrata dal Mondialismo, è il sistema più spedito ­– e si può dire, sì, il migliore ­– per appecorire i popoli e consegnarli alla Piovra.
Si dirà che c'è democrazia e democrazia. D'accordo: ma noi conosciamo solo quella che brucia sulla pelle dell'uomo libero, quella che il Renan, senza escluderne una meno in­decente, chia-ma "bassa democrazia". Di essa il mistico bre­tone prefigura la prospettiva finale, ora delineata a tutto campo: mortificazione della parte sana del popolo ed esalta­zione di quella più abietta.
La democrazia che abbiamo la disgrazia di conoscere è negazione del suo stesso nome che dovrebbe significare ‘governo di popolo’ e non regime di furfanti. Al confronto, rimosse le calunnie e la damnatio memoriae, ne guadagna l’immagine del sistema segnato a dito come il maggior nemico di essa: il Fascismo.
Per quanto lo si voglia demonizzare, il Fascismo ha almeno un onesto intento democratico, più concreto che utopistico. Lo ha
nella Dottrina 2 e nella prassi mirante non al profitto, ma al consenso popo­lare. Ne conviene perfino qualche antifascista, come lo scrittore Mario Mis­siroli che esprime questo giudizio finora inconfutato: « Il Fascismo va riguardato come un movimento democratico, l'unico movimento democratico scatu­rito dopo la prima guerra mondiale ».
Le opinioni son tante, ma su tutte emerge l'esternazione beffarda di Demostene che nel lasciare Atene verso l'esilio sostò pensoso davanti alla statua di Pal­lade. Benché assuefatto al sistema e non poco invescato in quella pania, non poté fare a meno di chie­dere: « O dea dell'Acropoli, come puoi compia­certi di be­stie così brutte come le civette e la demo­crazia? » .

 
Giustizia, Fratellanza, Libertà:
quanta gente ripete 'ste parole.
Il gallo canta quanto spunta il sole,
il gufo stride nell'oscurità.

Trilussa




N o t e
1 Jean J. Rousseau: « S'il y avait un peuple de dieux il se gouvernerait démocratiquement. Un gouvernement si parfait ne convient pas à des hommes ».
2 [Benito Mussolini, Dottrina del Fascismo, II, § 7 e suo articolo in Enciclopedia Italiana (XIV, 849, ediz. 1932): « Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze ta­lora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi di un solo re che sia tiranno.[...] Il fascismo respinge della democrazia l'assurda menzo­gna convenzionale dell'egualitarismo politico, l'abito dell'irresponsabilità collettiva, il mito della felicità e del progresso indefi­nito. Ma, se la de­mocrazia può essere diversamente intesa, cioè se demo­crazia significa non respingere il popolo ai margini dello stato, il fasci­smo può essere de­finito una 'de-mocrazia organizzata, centralizzata, au­toritaria ». – SV].


La Libertà



La Libertà è un bene prezioso, è pa­rola nobile, ma non sempre detta a proposito. Ecco un sommario menù per tutti i gusti:
« Libertà vo cer­cando ch'è sì cara ». Nobile aspirazione di un poeta con gli attributi, non appigionato al potere.
« Per la Libertà darei la vita, per la Patria la Libertà ». Pa­rola santa, d'un altro poeta che fu conseguente e andò a morire per la libertà della sua patria.
« Aquam liberam gustabunt », 'gusteranno l'acqua della li­bertà'. Petronio Arbitro, da fonte greca. È un concetto da te­ner di conto, perché appaia due cose poco apprezzate dai letterati, i quali di solito elogiano il vino e i sentimenti forti. C'è chi all'aqua libera di Petronio preferisce l'aqua serva di Ovidio per ammorbidire il pane della schiavitù.
« Sempre libera degg'io, folleggiar di gioia in gioia... ». Aggettivo eufemistico: è disdicevole dire "mignotta".
« L'istinto della libertà, opportunamente istigato, li renderà discordi e as­setati di sangue », sta scritto in un libro proibito. È la libertà 'estatica ed assassina' celebrata da un bardo della democrazia, Walt Whitman, e concretata dalle ingerenze umanitarie dello Zio Sam in casa d'altri appena sente odore di petrolio.
« Freiheit ». Era, ma guarda un po', il rutilante sottotitolo del foglio na­zista "Völkischer Beoba­chter ".
«Libertà conculcata dalla bieca dittatura fascista ». Ve la servo come dessert, a sparecchio, con un serafico fervorino di Giuseppe Roncalli, il futuro « papa buono », che in una lettera del 1941 si espresse così:
«In Italia si dice che ora c'è poca libertà. Ma cosa av­viene nei paesi dove trionfa la grande libertà? [...] Certo si ama dir male dell'Italia, ma a torto. Ci sono degli arroganti fra noi; non manca un poco d'esagerazione; ma l'Italia come paese or­ganizzato, rispettoso della religione è ancora quello dove si sta meglio. Il sistema è buono e fa invidia a tutti » 3.
La merce ha un sigillo di garanzia: Papa Giovanni è stato beatificato e non s'è mai visto un Beato che in vita dicesse le bugie. La lettera è verace e merita un commento.
La « poca libertà » è da riferire alla libertà di espres­sione che era limitata non dalle norme, ma da certi zelantoni più fascisti del Duce, gli « arroganti fra di noi ». Tanti di loro alla caduta del Fascismo si 'pentirono' e scesero in strada a manife­stare rumorosamente l'esultanza per la libertà recuperata. Non tutti: i più compromessi, per la paura delle botte, si eclissarono per un po', appena il tempo necessario per ricompat­tarsi, più albagiosi che mai, nei partiti ‘democratici’ 4.
Da allora questi misirizzi, pasciuti e quartati, non han fatto che stuccarci a morte ripetendo in mille toni che in de­mocrazia ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma certo! Be­ninteso, pagandone le conseguenze. Gedanke sind zollfrei­, di­cono i tedeschi, ma i fiorentini dicon meglio, con arguta compiutezza: « I pensieri sono esenti da ga­bella, ma non da mannaia ». A meno che non te li tieni den­tro, solo per te.
Beh, si potrà dire che il Fascismo ci lesinava la li­bertà di espressione; ma non le altre libertà fonda­mentali. Al contrario, ce le garantiva, a cominciare dalla libertà di circolare si­curi di giorno e di notte. Per questo era definito « sistema buono » 5 da « fare invidia a tutti », in una Italia dove allora, sempre a detta del buon Roncalli, si stava meglio che in altri paesi.
Non pochi credono ancora, o fingono di credere, che i rigattieri del mercato delle libertà gestite secondo le regole del bel vivere democratico abbiano un minimo di buona fede, di onestà, di competenza.
Que­sta credulità, ingenua o simu­lata che sia, scaltrisce l'oppressore e lo rende più di­sinvolto nel raggirare e vessare i 'cittadini', degradati a sudditi senza dignità e a complici di una mostruosa autocrazia senza volto. Occulta o manifesta, la Tirannide le inventa tutte. E sa servirle così bene nel piatto che persino certe persone ‘di buonsenso’ le tro­van buone. 

Ecco uno stuzzichino un po' forte e di non facile digestione: il Po­tere deve esercitare « il diritto di trascinare e schiacciare gli individui » in quanto condizione indispen­sabile alla Storia per fare il suo corso. Di questo era con­vinto Be­nedetto Croce prima di pur­garsi della infatuazione marxista, di quella peste di fine mil­lennio da cui nessuno di noi può van­tarsi di non essere stato contagiato o almeno sfio­rato.

L'anestetico d'una libertà aperta a 360 gradi, che nega se
stessa e fabbrica schiavi mansueti 6, consente al tiranno di af­fermarsi, di « trascinare e schiacciare ». L'esercizio di que­sto scellerato diritto è sì indispensabile: non certo alla dina­mica della Storia soggetta a corsi e ricorsi di ben altra natura ma alla imposizione della tirannide suprema, pure senza volto, che è tutt'una con la Piovra mondialistica.

« In questo clima di libertà, nel nome di essa, non v'è più riguardo né rispetto per nessuno. In questa licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la Tirannide».
Platone

N o t e

3 [Dalla recente edizione integrale dell'Epistolario di Papa Roncalli (contenente anche le lettere epurate da Mons. Capovilla, vedi oltre, pg. 158, nota 20). Il brano è ripreso da Umberto Scaroni, Scriveva il futuro Papa buono..., « Nuovo Fronte », XXX, n° 204 (Trieste, ottobre 2000), 2. SV].
4 [Ravveduti, redenti e riciclati, i voltagabbana infierirono sui fascisti coe­renti scampati alle radiose giornate partigiane e stesero il bianchetto sul loro passato. Ricordo un fregno buffo della GIL che mi fece un solenne caz­ziatone perché dicevo 'compagno' invece di 'camerata'. Lo ricordo tutto nero e lustro, dall'impeccabile camicia nera di seta agli stivali di copale eter­namente calzati (un lepido cadetto pisano sussurrava: « Vello là 'un se li leva manco vando s’accoppia co la ganza... »). Bene: lo ri­vidi nel '47 in principe di galles con un distintivo del Pci che pareva un coper­chio da forno. « Heri dicebamus... – gli dissi papale – Ho memo­ria d'elefante: le preciso che nella GIL mi garbava dire 'compagno' perché il termine pia­ceva a Gabriele D'Annunzio. Ma ora che piace a lei non mi garba più ». Inghiottì e, dopo breve concentrazione, con spocchioso distacco farfugliò: « Elefante... la GIL... D'Annunzio... garba... non garba... Oh che di­scorsi mi fa! Ma è matto? ». Re­plicai con una risata, per l'appunto, da matto e andai con Dio. – SV].
[C'è ben di peggio. Apprendo oggi che un antifa­scista di ferro, il quale impartisce in TV lezioni di demo­crazia e di mora­lità, alla domanda de « la Repubblica » se non teme le con­seguenze di « essere schierato a sinistra » ha risposto, intrepido: « Io non temo niente. Ho ottant'anni. Ho avuto a che fare con Hitler e Mussolini, figuriamoci se mi preoccupa Berlusconi ». Per quanto ne sappiamo, nel gennaio '44, questa poco plutarchesca figura ebbe « a che fare » con un assegno nazifascista di lire 3000 (equivalenti a non so quanti milioncini di adesso) elargitogli dal Mini­stro Mezzasoma della RSI tramite il direttore del Resto del Carlino, Gior­gio Pini. Mezzasoma fu poi fucilato dai partigiani, usciti eroica­mente allo scoperto il 25 aprile '45; a Pini, un mese dopo, assassinarono il figlio di­ciassettenne Giovanni del quale fu dispersa la salma. Il beneficiario dell’assegno, in­vece, ha salvato la preziosa ghirba e, da dritto, taglia il traguardo degli ot­tanta dopo aver preso di qua e di là. Come dicono i ve­neti: L’à ciapà la mussa e i trénta schèi, l'asina e i trenta soldi (trenta, come i sicli di Giuda). La morale? è qui, in calce alla pagina. – S. V., 2 giugno 2001].
5 [Di quanto l'Italia debba al « sistema buono » è accenno nella conclu­sione del capitolo Popoletti alla riscossa a pg. 37 e nel capi­tolino La Massa a pg. 103 SV].
6 Verso la metà del '500 i lombardi soggetti alla Spagna-spugna eran di­ventati servi esemplari « di natura quieta, dediti ai piaceri, desiderosi delle comodità ». Il testuale è riferito dall'ambasciatore veneziano Girolamo So­ranzo. In argomento: Francesco Mutinelli, Corrispondenze dei veneti ambasciatori, Venezia 1858, 58.

 

 

mercoledì 18 settembre 2013

LA SCUOLA DI PALEOGRAFIA



Diffondo questo ricordo personale estratto da Letterine al Barone di Silvestro De Dominis (mio eteronimo) in memoria di sorella Carla, amica indimenticabile recentemente scomparsa: l’italianissima Carla Menapace di Bolzano, segretaria del centro di studi atesini negli anni della mia presidenza.

 F.Bravi



Torre del Lago, 16 giugno 2008


Nobile illustre amico,

La modestia è virtù ad uso e consumo dei cialtroni. Secondo i moralisti il parlare di sé è stupida vanità e il non parlarne è riservatezza che spesso cela superbia agghindata di umiltà. Quale sarà il giusto mezzo? La riflessione non è mia, è d’un fraterno amico che mi dedicò l’ultimo suo libro, una lirica rievocazione del suo passato, edita allo spirare d’una esistenza difficile e dignitosa. Era carico d’anni, quasi cieco, eppure sereno. La sua discrezione era riflessa nella sua scrittura "currenti calamo", scorrevole nel parlare degli altri, ma stenta nel narrare di sé.
L’amico scrittore era Guido Canali che nel dopoguerra diresse l’Archivio di Stato di Bolzano. Era prudente studioso, esperto nella lettura dei codici medievali, oculato nell’indagine storica, narratore fine e sensibile*. Lo conobbi nel ’50 quando, gli subentrai come reggente. Ci demmo il cambio: io venivo da Roma, lui ci tornava per assumere un prestigioso incarico.
Proprio ieri, dal mio mare cartaceo, è emerso un polveroso scatolone zeppo di lettere e materiale vario risalente agli anni vissuti in quell’Istituto. Fra l’altro un quadernaccio ingiallito contenente gli appunti didattici dell’ultimo Corso di paleografia che tenni colà nell’anno accademico 1968-69. Tu, Barone mio, conosci per filo e per segno la mia vita di archivario trascorsa fra polvere sospiri e sudori nel decrepito Castel Mareccio fra il Talvera e il parco dove cavalcava il castellano, Conte von Toggenburg, famoso più per le favolose ricchezze che per il suo ascendente, il cavaliere di San Gallo che nella celebre ballata dello Schiller si fa eremita per una delusione d’amore. In quella sede trascorsi anni di vita intensa altalenante fra eventi lieti e difficoltà, soprattutto in cattedra.
Rivangando nel pensiero mi vien l’uzzolo di raccontarla, sia pure un po’ esitante come l’amico Guido nel parlare di se stesso, dicendo di sé appena quel tanto, senza alzarsi l’altarino, quanto basta ad inserirsi da spettatore nell’ambiente e nei panni altrui. Al di là dell’umana legittima ambizione, osservava il ferreo dovere – lui, specchio del tempo vissuto – di restare in ombra per non togliere luce agli altri. Nel rispetto di questi sentimenti rievoco i ricordi legati al vecchio quaderno imponendomi i limiti del Canali narratore.
Tra gli appunti è compiegato un biglietto augurale
firmato da tre maturi allievi della Scuola di Paleografia, a me assai affezionati. I discenti erano in tutto nove: una piccola squadra di varia condizione ed età. Nella mia mente sfilano nitidi e vivi; li passo in rivista, al modo di Omero nella rassegna degli achei “rutilanti di cimieri scarlatti di polito rame”. Eccoli qua:
Ermete L. e Claudio N., presidi di liceo. Il primo gioviale e loquace, l’altro contegnoso e riservato, col tanfigno da socialista salottiero sotto il naso. Infatti parcheggiava in area rossa. Ambedue maturi d’età e d’intelletto, interessati alla materia, ma esigenti e uggiosi nel porre quesiti pignoli e imbarazzanti.
Due ecclesiastici di lingua tedesca: il rubicondo Monsignor Nepomuk e un parroco di montagna segaligno e ritto come un palo. Del secondo mi sfugge il nome, ricordo solo che, bontà sua, si appagava di vaghe risposte a domande di teutonica pedanteria; anzi esclamava spesso «ich gratuliiiiiire» perché, pur straziando il tedesco, ero preciso nella terminologia specifica.
Due laici di lingua tedesca: un Kasseroler del contado, erudito genealogista in rigoroso assetto di bacàn de l’Écchen**, minuscolo e paffuto come un angelo trombettiere e Hans P., badiotto serioso e compito, fiero della parentela con la Medaglia d’Oro Giovanni Ruazzi volontario in AOI. Nondimeno era tedescante fra il mesto ricordo del Carléto, ultimo degli Asburgo in trono, e una vaga inquietante nostalgia del Baffino.
Due italiani schietti: Stefani Raimondo e Menapace Carla. Raimondo era economo dell’Istituto, maresciallo d’artiglieria in congedo, un po’ sordicchiolo. Esperiva le brighe burocratiche con scrupolo e senso del dovere. Sorella Carla– così la chiamavo – era un’insegnante della Val di Non vecchia amica di famiglia. Tutta sale e pepe come ogni anaune di buon sangue, intelligente e spigliata, di battuta arguta spesso pungente. Mi chiamava ‘Capo’. Una volta, notando segni di affaticamento negli allievi, dissi: «Facciamo una pausa: non vorrei stancarvi». E lei, con uno zinzolino di malizia: «Ma che pausa e pausa! A me il Capo non stanca mai...».
Dulcis in fundo, la crême de la crême, un immigrato di fresco dal profondo Sud. Lo presento con le precise parole con cui si presentò a me, previa spagnolesca riverenza: «Io sono il Dottor Salvatore F., alias Sįculus da Catanįa dove mi laureai in legge con 110 e lode. Di due blasoni mi fregio: il sole ţrípodo della Ţrinacrįa che diede i natali a me e allo svastica įndiano e l’arma dei miei maggiori iberici di Alįcante. Onoratįssįmo di frequentare il Suo corso!»
L’eponimo Siculus ("Ssécolosso", nell’ortoepia catanese) se lo era autoconferito e, per recondita trafila, l’aveva insinuato perfino nell’elenco della Telve; ma i colleghi lo chiamavano "Saccommodasse". C’era un perché e lo dico. Fu alla prima lezione. All’ingresso Hans il badiotto gli aveva dato la precedenza con riguardoso inchino e lui, maestro di buone maniere, gli aprì una porta interna, in penombra, che credeva desse nell’aula «Prego: cottesia chiama gentelezza. S’accommodasse!». E lo sospinse nel vano che non era l’aula, ma il bugigattolo della spazzatura.
Era assiduo nella presenza, ma assente nell’ascolto. Nel suo intelletto ingombro di femmine lascive e riflessioni futili, non c’era posto per le ostiche e stantie nozioni paleografiche. Disturbava spesso con osservazioni peregrine. Una volta fu sul più bello della lezione. Presentavo la minuscola mozarabica di Spagna esaltandone l’eleganza con estasiato compiacimento e lui, di brutto, mi interrompe: «Professòre, oggi è giòrno lavorativo . . .». E io, stizzito: «Beh? Certo che è giorno lavorativo . . .». E lui, col dito puntato verso la mia cintura: «Infatti. Noto che tįene aperta la bottega...».
Il prestigio del docente non crollò. Il corso filò liscio tutto l’anno, con discreto profitto ad eccezione di Don Salvatore. A giugno calammo giulivi a Bologna per gli esami. I miei allievi se la cavarono senza infamia, tutti meno lui promosso per il rotto della cuffia, con la spintarella. Ti dirò come.
Sapendolo impreparato l’avevo soccorso alla disperata con una estrema infarinatura nel vestibolo dell’albergo, ma lui, l’incosciente, si distraeva al va e vieni d’una formosa cameriera e a ogni passaggio mormorava un salace apprezzamento. Il meno osceno era: «Miiízzeca, zetèlla appetetósa è!».
Digiuno di femmine e nozioni si presentò impavido all’esame. Fu l’apocalisse. La commissione, unanime, era interdetta: bocciarlo rincresceva, diplomarlo era uno sfregio agli altri allievi e alla cattedra. In extremis il presidente mi sussurrò «Provi a fargli una domandina facile facile». «Ci proverò».
Ce la misi tutta. La domandina aveva la risposta implicita: «Mi dica, dottore: da dove proviene la beneventana di Zara?». E lui, pronto: «Dall’affabbeto cirílleco!». Risposta raggelante. E dire che avevo calcato il tono sul beneventana’, ma quel balordo pretenzioso, di quelli che sanno una parola più del libro, giustificò la topica col dire che nella Dalmazia – slava, per concezione conformistica che occulta il passato – l’alfabeto non poteva essere se non quello di San Cirillo.
In sede di scrutinio il presidente si rivolse a me allargando le braccia: «Dica Lei cosa fare». «Sono perplesso anch’io confessai. D’accordo, il diploma non lo merita, però tiene ad averlo. Non per utilità professionale: vuole arricchire la sua collezione di attestati, brevetti, onorificenze e patacche da esibire ad amici e concubine. È un allegro scapolo, un po’ rompiglioso, ma non fa male a nessuno. Suvvìa, diamogli ‘sto diploma: lo facciamo felice senza far danno ad altri. Contento lui, contenti noi che ci togliamo di torno il flagello. Diversamente il prossimo anno sarà qui di bel nuovo a seccarvi l’anima . . .». «È un ricatto?» fece il commissario più anziano in tono più scherzevole che irritato. «Lo si chiami come si vuole, ma non vedo altra via».
Ebbi ascolto e fu promosso. «Sic nos servavit Apollo».
La vita trascorsa, per quanto disseminata di spine e delusioni, a rivisitarla col pensiero si trasfigura comunque in un’aura di festevole primavera. Condividi, Barone?

 * G. Canali, Tre quarti di secolo: avventure nel tempo di un uomo qualunque (luoghi e personaggi d'Italia, in particolare di Roma, di Zara, dell'Alto Adige), Roma (Eiles) 1991. 

** Così, nel dialetto di mia Madre, a significare: ‘villico della Val d’Ega / Eggental’.




"Chi ancora non lo conosce si chiede: “Ma chi sarà mai ‘sto Barone che nell’annuario araldico non è manco nominato?”. Infatti: il Barone de Fabriciis esiste solo nella mia fantasia. È la mia bella copia, è colui che vorrei essere e non sono, o non son più: giovane, bello, aitante, tutto fosforo, olimpicamente sereno. Il Barone è il paziente muto interlocutore in grembo al quale riverso delusioni e dubbi; nessuno mi può comprendere, confortare, consigliare meglio di lui che è connaturato in me.
Le mie effimere Letterine sono una confessione resa in tono minore, ben al di sotto della saggezza, dello stoicismo, dei pregi letterari che rendono immortali i Colloqui con me stesso d’un tal Marco Aurelio Antonino, filosofo nato a Roma come me, di professione imperatore. A ogni modo, con qualche granello di pepe, le mie pistolate mi alleggeriscono l’animo e svagano gli amici lontani che le ricevono ‘per conoscenza’."