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martedì 19 giugno 2018

LEGA E MOVIMENTO 5 STELLE: QUALI IDEE SULL'AGRICOLTURA?



Dopo una lunga gestazione, durata ben ottantotto giorni, fatta di mille peripezie, passi in avanti e passi indietro, nervosismo diplomatico e mercati volubili, è finalmente nato il nuovo governo italiano. Adesso che la fiducia è stata votata sia al Senato che alla Camera, Movimento 5 Stelle e Lega si apprestano a prender la guida della nostra Nazione in uno dei momenti più difficili della sua travagliata storia. Non c'è dubbio, l'Italia ha sicuramente attraversato fasi ben più drammatiche dell'attuale (basti pensare alle due guerre mondiali); eppure mai come adesso ci troviamo di fronte ad un bivio storico. Un svolta che probabilmente determinerà il nostro futuro per molti anni a venire. Qui è in gioco la nostra Sovranità e con essa il fuoco segreto che l'anima: la nostra Identità. Una partita che non si disputa più fra il sangue ed il fango dei campi di battaglia, ma attraverso le delicate leve della diplomazia e le sporche carte della finanza. E forse proprio dall'accordo tra due forze politiche che portano in sé anche i peggiori germi antinazionali – la Lega figlia dell'indipendentismo padano e il M5S con la sua forte componente “girotondista” - potrebbe avere inizio un processo di scardinamento delle logiche socio-economiche oggi imperanti, secondo la nota massima del poeta tedesco Friedrich Hölderlin per cui: “dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”. Ma queste sono mere supposizioni o, se vogliamo, suggestioni generate da chi si trova nella condizione di un naufrago in mezzo alla tempesta, a cui anche il più sparuto pezzo di legno galleggiante sulle acque appare una nave sicura pronta a condurlo in porto. Possiamo vedere il meglio ed il peggio in questa “strana” accoppiata tra Lega e M5S: la speranza o il definitivo tracollo. Ma proprio per questo è necessario lasciar perdere le suggestioni, i voli pindarici e le opinioni, concentrandosi invece su quanto possiamo analizzare sulla carta. Così il nostro Gruppo di Studio ha deciso di sottoporre a confronto i due programmi politici, prestando particolare attenzione sui capitoli riguardanti l'agricoltura, nostro campo d'indagine e di studi.
Partiamo dal famigerato “Contratto per il governo del cambiamento”, in cui sono sintetizzati, punto per punto, le comuni intenzioni dei due gruppi. All'agricoltura è dedicata poco più di una paginetta in cui si fanno le seguenti dichiarazioni in materia:

- maggior protagonismo in sede europea nella discussione dei trattati
- valorizzazione dell'agricoltura non solo quale attività produttiva, ma anche come tutela del paesaggio e degli assetti idrogeologici
- difesa della sovranità alimentare e delle eccellenze made in Italy
- snellimento della burocrazia

Molto più articolato invece il capitolo sull'ambiente – a parer nostro sintomo della predominante visione “ambientalista”, che oramai permea le nostre coscienze, a discapito di quella agraria – dove predominano dichiarazioni a metà strada tra l'utopia e il surrealismo - “..decarbonizzare e defossilizzare produzione e finanza (capiamo la produzione, ma la finanza?)..” oppure “..privilegiare la gestione dei rifiuti a filiera corta, il recupero di materia come il compost per ridurre i fertilizzanti chimici e l'irrigazione (il compost è ricco d'acqua)”. Ma dove al contempo si pone giustamente l'accento sulla necessità di fermare il consumo del suolo e migliorare il nostro sistema d'invasi per le acque, con particolare riferimento al bacino della Pianura Padana. Dunque, come abbiamo dichiarato all'inizio, trattasi di un sunto ridotto all'essenziale che ci ha costretti a verificare separatamente i due programmi proposti da Lega e Cinque Stelle per le elezioni politiche dello scorso marzo, al fine di comprendere meglio la genesi di quanto scritto sul “Contratto”.
Confrontando i due programmi ci è stato fin da subito chiaro da quale sacco provenisse la maggior parte della farina nella composizione del capitolo agricoltura: dal M5S. Infatti il programma della Lega in materia è quanto mai scarso, fermo nel ribadire la necessità di una nuova e più decisa posizione sulle politiche agricole in sede comunitaria, ma che si guarda bene dall'ipotizzare alcun tipo di soluzione tecnica ai problemi dell'agricoltura nazionale. Quello della Lega è un approccio eminentemente politico-diplomatico alle questioni agrarie del Bel Paese¹. Sinceramente ci saremmo aspettati qualcosa in più, in virtù del fatto che una buona parte del bacino elettorale di questo partito affonda le sue radici nel Nord rurale, in regioni come il Veneto e la Lombardia che sono tra le più avanzate e produttive a livello agricolo. Possibile non esser riusciti a far di meglio? Considerando anche che proprio ad un membro di questo partito – Gian Marco Centinaio – è toccato il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Giudicheremo dall'operato, ci mancherebbe, ma siamo per lo meno un po' perplessi riguardo all'insediamento in tale Ministero di un laureato in scienze politiche² con un curriculum professionale che con l'agricoltura ha poco o niente a che fare. Non vorremmo ritrovarci di fronte all'ennesima operazione di puro marketing, dietro al quale si spalanca il vuoto. Ci auguriamo vivamente di esser smentiti dai fatti e alcune recentissime dichiarazioni del neo ministro, lasciano forse intravedere un piccolo spiraglio di luce³.

Il neo ministro Gian Marco Centinaio

Veniamo allora al programma dei 5 Stelle che, come abbiamo detto poc'anzi, ha guidato la stesura delle parti riguardanti l'agricoltura nel “Contratto di governo”, anche se poi non ha espresso il ministro.
Va detto fin da subito che il programma per l'agricoltura del M5S denota un certo coraggio e una singolarità in tutto il panorama politico italiano. Coraggio perché ha provato a spingere l'immaginazione oltre le soluzioni politiche ai problemi dell'agricoltura, prospettando un piano strutturale di interventi da operare nel settore. Singolarità perché è l'unico programma ad aver dedicato un certo numero di pagine all'agricoltura: ben quaranta nella versione più ampia, dodici in quella sintetica buttata giù in concomitanza del periodo elettorale. Nessun altro partito o movimento ha dedicato così tanto spazio alla questione agraria. Siamo consci del minor valore percentuale dell'agricoltura nel contesto economico italiano (2% del PIL) e del basso numero di occupati nel settore (appena il 3,8%), ma se confrontiamo i dati delle altre nazioni europee, ci accorgiamo della loro strettissima somiglianza ai nostri. Inoltre questo 2% di PIL è la base da cui trae linfa il secondo comparto industriale d'Italia, l'agro-alimentare, il quale contribuisce ad un abbondante 12% della produzione nazionale. Senza considerare che, dal nostro punto di vista, il settore primario rientra a pieno diritto in uno di quei settori strategici in cui uno Stato degno di definirsi tale dovrebbe tornare ad investire in maniera forte e programmatica. Dunque l'aver speso una cospicua fetta del proprio programma sull'agricoltura è sicuramente un merito da ascrivere al Movimento di Grillo. Ma vediamo adesso di prendere in considerazione i suoi vari punti per sviscerare la sostanza di queste pagine.
Innanzitutto, a parer nostro, si parte con un'asserzione errata o quanto meno falsata. Affermare che “l'agricoltura è uno dei settori che maggiormente garantiscono un lavoro è la favola bella che ieri c'illuse, che oggi c'illude, o Movimento! Come ha potuto scrivere Ermanno Comegna: Gli imprenditori agricoli con età inferiore a 35 anni, determinati dall'ultima analisi sulle strutture agrarie del 2013, sono il 5,9% del totale nell'Ue (28 paesi membri) ed in Italia sono il 4,5%. Rispetto al 2010, l'incidenza dei giovani è diminuita (erano il 7,5% nella Ue ed il 5,1% in Italia). Pertanto, non si vede alcun risveglio di interesse, anzi il fenomeno dell'invecchiamento della classe degli agricoltori avanza, piuttosto che retrocedere, a dispetto dei tanti sforzi fatti dalle politiche europee e nazionali. Su questo il programma della Lega è stato più chiaro, mettendo ben in evidenza le stime europee sulla drastica diminuzione di occupati nel settore primario. Non bisogna inoltre dimenticare che il fenomeno di giovani che aprono partite IVA in ambito agricolo spesso nasconde un semplice trucchetto per ottenere contributi e finanziamenti a favore dell'azienda paterna o familiare.
A prescindere da questa asserzione di partenza, ci è sembrata invece positiva e condivisibile l'idea di potenziare l'offerta nazionale per il fabbisogno alimentare; ma resta qualche dubbio sui metodi che si vogliono metter in pratica per effettuarla. Anche perché ci sembra che si tenda a fare un po' di confusione tra sovranità alimentare e difesa delle eccellenze agroalimentari italiane. Di certo la nostra sovranità alimentare passa attraverso una produzione di derrate – cereali – degna di soddisfare i bisogni primari della popolazione e non certo attraverso la promozione e la difesa del Culatello di Zibello o del Prosciutto di Cinta Senese, che con i loro 90€/kg non definiremmo proprio alla portata di tutti. Sacrosanta la loro esistenza e la loro tutela, ma il fabbisogno alimentare di un popolo ha come base il pane, non il companatico.
Ad ogni modo, positive per noi sono anche le intenzioni di ridiscutere i trattati di libero scambio, ponendosi l'obbiettivo di fare in modo che l'Unione Europea li riconsideri come misti, sottoponendoli quindi alla ratifica di tutti gli stati membri e all'esame dei rispettivi parlamenti nazionali secondo le loro procedure. Sarebbe un primo passo verso un de-potenziamento delle competenze esclusive dell'Unione in materia di negoziazione e trattati commerciali. Esclusive che troppo spesso ci hanno danneggiato e continuano a farlo (vedi l'importazione di Riso a dazio zero dal sud-est asiatico). Così come giuste sono alcune osservazioni riguardanti la Politica Agricola Comunitaria, sulla quale predominano le regole del WTO (World Trade Organization). Queste regole del commercio internazionale ormai determinano le linee guida della PAC, che di fatto è svuotata dal peso decisionale degli Stati membri, delegato alla Commissione Europea, come già visto unica detentrice della possibilità di contrattazione. Una vera e propria stortura a cui giustamente si dovrà cercare in tutti i modi di porre rimedio. 

La politica agricola comune è realmente al servizio degli Stati membri?

 
Ottima pure l'idea di redigere dei Piani Strategici Nazionali per vari settori del comparto primario, quali: olivicolo, cerealicolo, allevamenti, lattiero caseario, vitivinicolo, ittico, acquacoltura, frutta in guscio, aree forestali e selvicoltura, piano proteico. Senza voler entrare nel merito dei vari piani, ci fa piace evidenziare come questi piani vengano pensati per “consentire la programmazione delle misure volte ad incentivare la produzione: attraverso la razionalizzazione degli impianti esistenti, lo studio di nuovi sistemi colturali e la tutela ambientale. Misure che permettano l'adozione di strategie produttive e commerciali tutelanti nel breve, medio e lungo periodo”. E su questo, niente da eccepire. Sono da diversi anni che il nostro comparto agricolo avrebbe bisogno di un seria programmazione, di una strategia considerante anche il medio e lungo termine, invece di brancolare nel buio del hic et nunc.
Da segnalare tra le proposte positive, anche il potenziamento delle attività di controllo, monitoraggio e studio delle specie invasive che negli ultimi anni hanno visto fare dell'Italia il loro palcoscenico prediletto (seppure il M5S non abbia brillato in zelo ed attenzione quando in Puglia si è presentata in tutta la sua gravità l'emergenza Xylella).
Fin qui tutto bene, verrebbe da dire. Ma veniamo ora alle note “dolenti”.
In primis, ed è dal nostro punto di vista l'handicap più grave, il rifiuto aprioristico verso qualsiasi forma di sperimentazione nel campo delle biotecnologie. Non solo continuare a vietare la coltivazione degli OGM e la loro ricerca in campo aperto, ma anche un NO secco alle nuove frontiere delle biotecnologie agrarie quali “cisgenesi” e “genome editing”. Se possiamo comprendere il rifiuto verso gli OGM “convenzionali”, oramai saldamente nelle mani di alcuni gruppi multinazionali, poco comprendiamo il netto rifiuto verso le nuove tecniche della cisgenesi e del genome editing. Oltre ad essere forme più precise d'intervento genetico, le quali non comportano né l'inserimento di altro materiale genetico nella piante né uno stravolgimento del loro genoma, sono tecniche attualmente molto meno costose di quelle fin qui utilizzate. Potrebbero divenire un notevole volano di sviluppo per i nostri centri di ricerca e per le nostre ditte sementiere, capaci forse di colmare il ventennale distacco che ci separa da tutte quelle nazioni che hanno puntato sulla ricerca in campo genetico. D'altronde dovrebbe importare a noi, visto che ci si dichiara per la Sovranità alimentare, incentivare lo studio e la ricerca in materia di biotecnologie agrarie, facendo in modo che questi metodi, per adesso ancora liberi per la ricerca pubblica, non s'inabissino nel classico ginepraio burocratico. Ma se andremo in Europa a urlare forte il nostro NO, ad erigere paletti, a rendere difficoltoso anche soltanto l'inizio un processo di sperimentazione e ricerca, non faremo altro che servire un assist d'oro alle multinazionali che apparentemente si dice di voler combattere. Cosa importa alla Monsanto di turno se in Italia si vieta la coltivazione dei sui mais geneticamente modificati? Ci sono sterminati e sterminati ettari di paesi in via di sviluppo pronti a seminarli e con i quali fare migliori e più lauti affari. Che poi la questione non dovrebbe nemmeno porsi come uno scontro frontale tra noi e le multinazionali. Basterebbe parlare chiaro e porre alcune semplici regole da far rispettare. Se le si accetta, bene, siete i benvenuti in casa nostra e possiamo procedere di comune accordo; altrimenti fuori e avanti un altro! In questa delicata fase, in cui il nuovo governo sta cercando di muovere i primi passi verso un cambiamento, sarà sicuramente necessaria una forma di stretta collaborazione tra pubblico e privato, come in alcuni casi è anche già successo con effetti positivi. Starà poi a noi fare in modo che non si tratti solo di episodi sporadici, ma di una volontà costante e ben indirizzata.  



Se vogliamo cercare una nuova strada per l'agricoltura italiana, dovremo fare in modo che sappia coniugare il rispetto per la nostra storia con la ricerca e lo sviluppo, mantenendo aperte le porte alla cooperazione e allo scambio di conoscenze con chiunque voglia dare il proprio contributo. Altrimenti è inutile ipotizzare dei Piani Strategici Nazionali, per esempio quello cerealicolo, con l'obbiettivo di “assumere iniziative mirate ad assicurare, all'industria di trasformazione, determinati volumi di prodotto” - dando l'idea di avere una giusta cognizione della necessaria interdipendenza tra agricoltura ed industria – e poi propugnare la “diffusione dell'agricoltura biologica e biodinamica”. Qui siamo di fronte ad una contraddizione in termini, ad un vero e proprio paradosso. Vogliamo produrre di più, per garantire alla nostra industria molitoria grano di qualità ed in abbondanza e poi non solo ci vogliamo privare dell'apporto della genetica, ma ci auguriamo pure che agricoltura biologica e biodinamica si diffondano sempre più sul territorio. Passi per l'agricoltura biologica – che comunque significa una riduzione produttiva – ma sull'agricoltura biodinamica, con tutte le scusanti e le giustificazioni che possiamo trovare, non ci sentiremmo proprio di ascriverla tra le leve trainanti di un Piano Strategico Nazionale. Nessuno vuole asserire che i pilastri del modello agronomico occidentale – chimica, meccanica e genetica - non possano esser criticati, anche aspramente, ma bisogna avere almeno il buon senso di riconoscere che la loro sinergia ha fatto crescere le nostre produzioni agrarie come non mai nella storia dell'umanità, garantendo un'abbondanza alimentare mai raggiunta prima. Dunque è giusto criticare, è d'obbligo rivedere, riconsiderare, ma voler negare, voler recidere quasi di sana pianta la nostra scienza agronomica non ci sembra né un atteggiamento ponderato, né una prospettiva Sovranista per il futuro. 

Il famigerato corno letame, "attivatore dei processi vitali della terra" secondo le pratiche dell'agricoltura biodinamica

 
Sempre al riguardo, nel programma si delinea un intero capitolo sulla stretta ai pesticidi, dove viene enunciato il sano principio di “regolamentare l'uso della chimica in agricoltura”. Giusto. Chi non sarebbe d'accordo? Il fatto è che l'utilizzo degli agrofarmaci in agricoltura è di per sé già molto, molto regolamentato in Italia. Fatta la legge trovato l'inganno, siamo d'accordo; ma l'attuale Piano di Azione Nazionale (il famigerato PAN), che di nazionale ha ben poco e di confuso molto, ha già imposto una dura stretta per gli agricoltori. Per un'azienda agricola è oggi assai difficile sfuggire alla tracciabilità nell'acquisto dei prodotti, alla registrazione dei trattamenti sul registro di campagna, alla revisione delle botti irroratrici, ai vari controlli degli enti preposti. Però, paradosso dei paradossi, è ancora possibile vendere – con la semplice presentazione di un codice fiscale – molti degli stessi prodotti usati da un professionista ad un comune privato, il quale viene inserito su un registro di carico e scarico, ma non è assolutamente passibile di qualsivoglia controllo, a meno che non vi sia una denuncia nei suoi confronti. Oppure, per fare un altro esempio, si fa un gran parlare oggi del danno che provocano nei confronti delle api diversi insetticidi utilizzati in agricoltura. Ebbene poco si parla di quanti danni facciano alle nostre solerti impollinatrici anche i più comuni insetticidi per uso civile. Per esempio i prodotti per la lotta alle zanzare, di libera vendita perché registrati come presidio medico chirurgico e irrorati su siepi, giardini, aree verdi e residenziali, sono insetticidi scarsamente selettivi: ovvero uccidono tutto ciò con cui arrivano a contatto. Ed il cittadino privato non bada tanto a trattare se ci sono fioriture o meno in giro - cosa che l'agricoltore invece è tenuto a fare - perché quando la zanzara punge, non ci sono biodiversità o impollinazioni che reggano. Quello che vogliamo dire è che si rischia, come troppo spesso accade, di colpevolizzare le aziende agricole, già di per sé tartassate da miriadi di adempimenti, anche assurdi, per poi permettere simili cose. Prima di scaricare colpe ed anatemi sul nostro sistema agricolo, sarebbe meglio fare delle valutazioni più mirate. Dichiarare poisanzioni per la mancata osservanza del PAN” significa o non conoscere l'esistenza di un cospicuo regime sanzionatorio, già presente nel piano, o voler inasprire ulteriormente la consistenza di queste sanzioni. Siamo sicuri di volere questo? Non si rischia così di esasperare ancor di più gli animi? Sarebbe invece necessario fare in modo che si acceleri questa netta separazione tra i prodotti professionali e quelli per uso amatoriale, dando un taglio netto all'enorme confusione generata. Poi riscrivere finalmente, in carattere chiaro e davvero nazionale, il PAN – sottoposto oggi alle mille interpretazioni delle varie ASL locali - e di lì partire con una campagna di incentivazione, offrendo anche servizi di consulenza tecnica e di aiuto creditizio, affinché le aziende possano intraprendere nel miglior modo possibile gli adempimenti richiesti.
Dichiarare poi di voler interrompere le autorizzazioni eccezionali dei prodotti fitosanitari, sembra più una dichiarazione di principio che altro. In base a quale criterio e per quali contesti colturali si fanno simili asserzioni? Non sarebbe buona cosa, prima di minacciare l'uso della mano dura, soppesare e valutare meglio certe dichiarazioni? Esistono contesti colturali in cui al momento non è possibile fare a meno di determinati prodotti se si vuole mantenere un'adeguata produzione. In questi casi sarà necessaria una certa gradualità. Se riteniamo giusto sostituire metodi e prodotti obsoleti, alla lunga dannosi per salute e ambiente, bisognerà però anche dare il giusto tempo per lo studio di nuove soluzioni e fare in modo che le aziende agricole possano metterle in pratica, arrivando via via alla sostituzione di un metodo con un altro senza che si perda di troppo la capacità produttiva.
Dulcis in fundo, ciliegina sulla torta che in parte vi avevamo già anticipato, arriva quando ci si augura che “siano sostenute tutte le forme produttive agricole fondate sull'uso responsabile delle risorse naturali (agricoltura biologica, biodinamica, agro-ecologia)” o quando nel programma più ampio, a pag. 28, si dichiara quanto segue: “il modello contadino a cui intendiamo riferirci è l'azienda di ridotte dimensioni economiche ed estensive che produce con alta intensità di lavoro e bassa capitalizzazione, con vendita diretta e prevalentemente nel territorio limitrofo, che pratica la diversificazione colturale, tecniche agronomiche conservative a basso o nullo impatto ambientale come la permacultura, la riproduzione e la conservazione delle sementi e delle razze autoctone”. E qui forse crolla un po' tutta l'impalcatura, privando di senso i punti positivi che avevamo individuato nel programma. Ovvero questo “modello contadino” a cui si dichiara d'ispirarsi è qualcosa che non esiste! Oppure è talmente microscopico e talmente distante dalla realtà dell'agricoltura italiana che è quanto mai assurdo erigerlo a modello ideale. Questi sono i classici feticci post sessantottini, residui dell'ambientalismo più radicale, che oggi vanno tanto di moda nei salotti buoni delle borghesia agiata e progressista; quella che si esalta di fronte alla decrescita felice e alla riscoperta dei cibi genuini e tipici, prodotti secondo i cicli biologici di Madre Natura. Quanto di più distante da quello che per noi dovrebbe essere un approccio Sovranista al tema dell'agricoltura. Questi sono metodi di coltivazione che possono andar bene in piccole realtà, negli orti domestici o in produzioni di nicchia. Noi dobbiamo invece pensare non solo a come soddisfare il fabbisogno alimentare di oltre 60 milioni di italiani, ma anche alle richieste di un mercato estero sul quale la produzione agricola italiana è ancora sinonimo di garanzia e qualità. Sovranità non significa autarchia nel senso più retrivo del termine, ma libertà nella scelta delle proprie politiche, interne ed esterne, nel quadro delle relazioni internazionali. E per rivendicare questa libertà in campo agricolo dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione. Strumenti diplomatici: l'apertura di nuovi rapporti politico-commerciali con partner strategici, la difesa delle nostre produzioni, l'incentivazione alla formazione e alla ricerca. E strumenti agronomici: chimica, meccanica, genetica ed oggi anche l'elettronica digitale, coordinate da una volontà politica ben programmata e dal nostro Genio, potrebbero ridisegnare un panorama diverso per l'agricoltura italiana.



Tirando le somme, cosa possiamo dire? Di certo che si tratta di un programma con spunti interessanti, ma molto confuso, dove vengono a mescolarsi istanze antitetiche tra loro – sovranità alimentare e biodinamico; piani strategici nazionali e no assoluto alla ricerca in campo genetico – e che lascia la sensazione si tratti di una sorta di copia ed incolla non ben riuscito. È vero che ogni iniziativa, in qualsiasi comparto economico nazionale, dovrà prima passare attraverso alcuni necessari cambiamenti a livello generale, senza i quali forse sarà vano ipotizzare l'attuazione di qualsivoglia programma. Per esempio, la sacrosanta lotta al caporalato non potrà mai attuarsi se prima non si troverà una soluzione congrua al problema migratorio e alle varie mafie che sopra vi lucrano. Così come sarà vano prospettare investimenti strutturali per l'agricoltura se resteremo ingabbiati nei vincoli di bilancio e non potremo operare in deficit. Ma è altrettanto vero che dobbiamo preparaci a dare delle risposte, quanto più concrete, a tutte le domande che si porranno di fronte a noi; anche soltanto per ampliare la gamma di possibilità con le quali armare l'arco teso verso il nostro futuro.
In conclusione non possiamo che augurare a questo nuovo governo di riuscire nel difficile compito che lo attende, aggiustando il tiro sul programma agricolo laddove per adesso abbiamo individuato carenze ed incertezze e lasciando perdere alcuni assurdi propositi, dettati più da un'impostazione ideologica che da una valutazione scientifica. La partita è aperta.

Gruppo di Studio AVSER

NOTE
7 - “Dal 2007 ad oggi è stato fatto un grande sforzo d'investimento, con un aumento della capacità produttiva degli zuccherifici di oltre il 40%. Anche Coprob ha lavorato per raggiungere l'obiettivo. Questo percorso ha stimolato tutti, tecnici e bieticoltori, ad adottare le nuove tecnologie per accrescere nel più breve tempo possibile la produttività di zucchero per ettaro.
Ecco tre aspetti su cui Coprob ha lavorato: i Ctb-Club territoriali della bietola, con il compito di stimolare lo sviluppo della produttività delle bietole con l’ausilio di consulenti specializzati, l'accordo con Timac Agro Italia per l’incremento delle performance produttive e qualitative della barbabietola da zucchero e della sua trasformazione industriale, e la partnership con Enel, per la conversione dell'impianto di Finale Emilia (Mo) ed il percorso finalizzato alla produzione di biogas a Ostellato (Fe).” - "Che fine ha fatto la Barbabietola italiana?"

venerdì 18 maggio 2018

Storia ed evoluzione dell'A.N.S.A.C.A.P. Intervista a Paolo Zangarini

È passato un po' di tempo dalla nostra ultima pubblicazione sul sito, ma ripartiamo proprio da dove avevamo concluso: la storia degli agenti dei consorzi agrari (leggi qui). Stavolta lo facciamo però da un'angolatura diversa, attraverso una ricca intervista ad una voce autorevole in materia: Paolo Zangarini, bolognese, da cinquant'anni segretario nazionale dell'A.N.S.A.C.A.P. (Associazione Nazionale Sindacati Agenti dei Consorzi Agrari Provinciali), impegnato su tutti i problemi della categoria e, da sempre, firmatario dell'accordo economico collettivo tra i Consorzi Agrari ed i suoi agenti di commercio. Nell'intervista vengono affrontate in modo più dettagliato e tecnico molte delle problematiche che avevamo toccato nel precedente articolo. Problematiche a cui, purtroppo, ancora non si riesce a dare un'adeguata risposta, mentre gli agenti sono in febbrile attesa del nuovo accordo collettivo.

Paolo Zangarini



1) Dott. Zangarini, come prima domanda di questa nostra intervista sugli agenti dei Consorzi Agrari, vorremmo chiederle di spiegare brevemente ai nostri lettori come sono nati ed in cosa consistono la strutture entro la quale operano gli agenti?

I Consorzi Agrari sono società cooperative, nate, negli ultimi anni del 1800 e nei primi del 1900 con la funzione di gruppi di acquisto a favore degli agricoltori, soci.
Nel 1892 si costituiva a Piacenza la Federconsorzi, una organizzazione a livello nazionale con compiti logistici e di coordinamento per tutte le attività commerciali nel campo agricolo.
Il regime fascista sfruttò la presenza di questa capillare rete commerciale, presente in ogni provincia (94 nel 1939) per supportare la propria politica agraria, arrivando fino all’ammasso obbligatorio del grano.
Dopo la liberazione il mondo consortile si consolidò sulla base di un rapporto piramidale fra Consorzi agrari e Federconsorzi, cooperativa di secondo grado il cui soci erano i consorzi agrari.
Questo stato di cose è andato avanti fino al 17 giugno 1991, quando la Federconsorzi è stata sottoposta a commissariamento e liquidazione, trascinando nel proprio crac finanziario la maggior parte dei consorzi agrari, fortemente indebitati con la stessa Federconsorzi, e, salvo poche eccezioni, posti in liquidazione coatta amministrativo con esercizio provvisorio .
Mentra alcuni Consorzi Agrari non si sono ripresi, altri sono rientrati in bonis ed hanno realizzato accorpamenti, anche alla luce della legge di riforma 28 ottobre 1999 n. 410, in base alla quale i consorzi agrari hanno perso la loro caratteristica pubblicistica per diventare normali società cooperative.
La rete commerciale dei Consorzi Agrari era unica al mondo, essendo presente con un proprio punto vendita in ogni paese d’Italia.
Oltre 3.500 depositi per la distribuzione dei prodotti utili all’agricoltura, macchine, prodotti petroliferi e, sovente, commercio al dettaglio di articoli per il giardinaggio, la cura degli animali e generi alimentari (talvolta olio, vino e pasta prodotti da stabilimenti degli stessi Consorzi Agrari), collegati con magazzini per l’ammasso volontario del grano e di altri cereali, gestiti da agenti, con rappresentanza e con deposito, con una molteplicità di incarichi.
Oltre alla promozione di affari (art. 1742 c.c.), i rappresentanti sono anche incaricati di concludere gli affari promossi, hanno l’incarico di custodire i prodotti affidati in deposito, di effettuare le consegne ai clienti, oltre a gestire l’ammasso dei cereali ed a svolgere l’attività di sub-agente assicurativo.
Il numero delle agenzie si è sensibilmente ridotto, per realizzare economie gestionali, ma quelle rimaste mantengono intatto il modello classico.

2) Quando nacque l'associazione sindacale tra agenti dei vari Consorzi Agrari? E chi furono i protagonisti di quell'evento?

Gli agenti dei consorzi agrari capirono la necessità di parlare con una sola voce alla propria unica ditta mandante, la quale esercitava una discriminazione sul piano contrattuale, tentando in ogni modo di realizzare trattative individuali discriminatorie.
Per questo nacquero, in molte province, sindacati degli agenti, con l’intento di creare un dialogo continuativo e trattare in maniera unitaria tutti gli aspetti contrattuali.
Vista la riottosità dei consorzi agrari, nel 1964 gli agenti di tutta Italia organizzarono una manifestazione in Piazza Curtatone a Roma, di fronte al palazzo della Federconsorzi, per evidenziare la necessità di una maggiore considerazione della categoria.
Era presente una folta delegazione, di circa 650 agenti, i quali, rendendosi anche conto della necessità di un coordinamento nazionale, cui concepirono l’A.N.S.A.C.A.P., formalizzata con statuto sottoscritto a Roma il 16 aprile 1965, registrato con rogito rep. 215406 del dott. Romualdo Manoni.
Il nome dell’associazione è l’acronimo di Associazione Nazionale dei Sindacati degli Agenti dei Consorzi Agrari Provinciali.
Una federazione di secondo grado, nata per assistere i sindacati provinciali e coordinarne l’attività, recependo le esigenze della base, per favorirne la soluzione.
Per mantenere viva la propria presenza e favorire un dialogo attivo con la base, A.N.S.A.C.A.P. ha pubblicato per oltre vent’anni un periodico (L’Agente CAP), mensile di otto pagine in formato tabloid, con tiratura di 3.500 copie, destinate ai 3.500 paesi nei quali esisteva una agenzia del consorzio agrario.
Il primo problema della neonata federazione fu quello di trovare un interlocutore e di ottenere il riconoscimento da parte dei consorzi, totalmente refrattari a qualsiasi soluzione di tipo collettivo.
I consorzi, infatti, hanno sempre rifiutato il riconoscimento degli accordi economici collettivi, adducendo motivazioni insulse, ma capaci di creare un muro invalicabile.
A.N.S.A.C.A.P. realizzò allora un “ufficio contratti”, il quale, in possesso di espressa ed incontestabile delega dei singoli agenti, andò presso tutti i consorzi agrari per trattare la formulazione del “contratto individuale”, con il non celato intento di renderli tutti identici, così da gettare le basi di una contrattazione collettiva.
L’azione fu talmente capillare e tenace da fiaccare le pur tenaci resistenze dei consorzi agrari, i quali si rivolsero alla Federconsorzi implorando una soluzione.
La Federconsorzi non aveva, statuariamente, poteri sui rapporti di agenzia dei consorzi agrari, ma aveva al proprio interno l’Associazione Sindacale dei Consorzi Agrari (ASSOCAP), cui erano demandati i rapporti di lavoro dei dipendenti e dei dirigenti dei Consorzi.
Bastò una buona parola del Presidente Fedit (Sen. Truzzi) e la buona volontà del Presidente ASSOCAP (Avv. Codicè) per realizzare una piccola modifica statutaria di ASSOCAP, la quale assunse l’incarico anche della contrattazione collettiva per gli agenti.
A.N.S.A.C.A.P. aveva finalmente trovato il proprio interlocutore.
Va opportunamente precisato, a scanso di equivoci, che ASSOCAP era – ed è – una associazione sindacale con propria personalità giuridica e, pur avendo sede nel palazzo della Federconsorzi, ha sempre avuto totale autonomia, per cui non è stata attratta nel crollo Fedit (salvo dover trovare una nuova sede) ed ha proseguito ininterrottamente la propria attività contrattuale per dirigenti, dipendenti ed agenti dei consorzi agrari.

3) Com'era disciplinato il contratto di agenzia prima della nascita di A.N.S.A.C.A.P?

Per comprendere lo sviluppo dell’incontro-scontro fra A.N.S.A.C.A.P. ed ASSOCAP, è necessario inserirlo nel quadro più ampio del contratto di agenzia.
Le norme collettive degli agenti di commercio hanno avuto uno sviluppo storico articolato, che esaminiamo in larga sintesi.
Dopo quello del 25 maggio 1935, vide la luce l’accordo economico collettivo 30 giugno 1938, cogente ed inderogabile ancora oggi, e presupposto di tutti gli accordi successivi, stipulati fra le organizzazioni sindacali degli agenti e delle ditte mandanti nei settori commercio, industria, artigianato, cooperazione.
Con D.P.R. 29 dicembre 1960 n. 1842 venne reso “erga omnes” l’A.E.C. 13 ottobre 1958 per il settore commercio e con D.P.R. 16 gennaio 1961 n. 145 fu fatta analoga operazione per l’A.E.C. 20 giugno 1956 nel settore industria.
Tutti gli A.E.C. successivi hanno, invece, valore squisitamente privatistico e sono applicabili solo alle parti aderenti alle associazioni stipulanti, o, in ogni caso, ai rapporti in cui sia citata contrattualmente l’applicabilità della discplina collettiva.
Con la direttiva CEE 86/635 del 18 dicembre 1986 e la successiva riscrittura degli articoli 1742-1753 c.c. con i Decreti legislativi 10 settembre 1991 n. 303 e 15 febbraio 1999 n. 65, le norme legislative e quelle collettive trovano molti punti di incontro e si sviluppano su binari paralleli, tant’è che gli A.E.C. sono stati oggetto di profonde modifiche.
I consorzi agrari non hanno mai riconosciuto la validità degli A.E.C., salvo, ovviamente, quello del 30 giugno 1938, dal quale non si potevano sottrarre, ed hanno fondato i rapporti con i loro agenti sui soli contratti individuali, lunghissimi ed articolati, perché “autarchici”.

4) Quando si passò da queste forme contrattuali individuali alla stipula di un vero e proprio accordo economico collettivo fra Consorzi ed agenti?

Nel 1985. A distanza di vent’anni dalla propria nascita, grazie alle intense lotte promosse con tenacia, finalmente A.N.S.A.C.A.P. si sedette al tavolo delle trattative di fronte ad ASSOCAP per realizzare il primo accordo economico collettivo (va detto, per precisione, che ASSOCAP lo volle chiamare Accordo Collettivo, evitando di mettere la parola “economico”, a scanso di equivoci) sottoscritto in date del 30 giugno 1986.
I rinnovi successivi portano la data del 21 dicembre 1993, dell’8 maggio 2001, del 3 aprile 2009, e del 23 gennaio 2014.
Quest’ultimo è scaduto il 31 dicembre 2017, ma non è stato possibile rinnovarlo per molti motivi organizzativi di ASSOCAP, per cui sono iniziate le trattative solo nel marzo del 2018 e si conta di poterle concludere entro l’anno.
L’A.E.C. è strutturalmente costruito sulla falsariga di quelli esistenti nei settori commercio ed industria, dai quali si distingue perché si sofferma con attenzione sulle caratteristiche proprie di questa categoria, ignorate negli accordi “normali”: il rapporto di rappresentanza, la gestione del deposito, l’attività continuativa di incasso, l’incarico di facchinaggio e di trasporto,
Su questi punti ci sono sempre state e ci sono incomprensioni lessicali e sostanziali, che si intende superare con il rinnovo in corso.

Firma dell'accordo economico collettivo del 3 aprile 2009


5) Quali sono tutt'oggi i compiti e le prerogative di A.N.S.A.C.A.P.? E com'è strutturata territorialmente l'associazione?

A.N.S.A.C.A.P. è, come già rilevato, una federazione di secondo grado, i cui soci non sono gli agenti, ma i sindacati provinciali (oggi quasi tutti interprovinciali, quando non regionali), i quali partecipano all’annuale assemblea, l’ultima delle quali si è svolta il 18 febbraio 2018.
Il principale compito dell’associazione è l’aggiornamento della disciplina collettiva.
Per poter essere un valido interlocutore nella contrattazione collettiva è necessario conoscere il più possibile le problematiche locali, anche personali, per cui l’attività svolta dall’associazione è finalizzata alla raccolta di informazioni, sia attraverso le annuali assemblee, sia attraverso un dialogo con i singoli agenti, tenuto oggi con i mezzi forniti dalla tecnologia, cioè con messaggi e-mail, informazioni inviate tramite il sito Web e con le molte occasioni di incontri personali, per fornire assistenza e consulenza contrattuale.
Infatti A.N.S.A.C.A.P. risponde a tutti i quesiti dei singoli agenti, fornisce suggerimenti e consulenze contrattuali, sviluppa conteggi per indennità di fine rapporto, si pone come supporto per fornire la propria esperienza ai legali nominati dagli agenti, quando è necessario adire le vie legali.
L’assistenza ai singoli agenti non dovrebbe essere un compito di A.N.S.A.C.A.P., ma è una attività preziosa per raccogliere ogni esperienza ed arricchire la propria cultura e le proprie informazioni, utilissime nel confronto con la controparte contrattuale.
Nell’assemblea del 18 febbraio si sarebbe dovuto illustrare ed analizzare il nuovo A.E.C., invece ci si è dovuti limitare a spiegare le motivazioni del rinvio delle trattative e rianalizzare la piattaforma in discussione, per raccogliere preziosi suggerimenti

6) Come giudica l'attuale situazione dei Consorzi Agrari italiani, coinvolti in numerosi accorpamenti e fusioni?

E’ notorio il decadimento complessivo del mondo consortile, dopo la liquidazione della Federconsorzi.
La maggior parte dei Consorzi sono stati assoggettati a liquidazione coatta amministrativa, per lo più con esercizio provvisorio. Alcuni hanno definitivamente cessato l’attività, altri hanno avuto la forza di rimettersi in bonis, altri ancora hanno cercato la soluzione per sopravvivere realizzando fusioni ed accorpamenti.
Da una presenza consortile diffusa in ogni provincia, oggi la geografia è profondamente modificata attraverso un processo di accorpamenti ancora in corso.
La rete di vendita ha subìto, a sua volta, una ristrutturazione sostanziale, anch’essa non definitiva.
La capillarità della presenza dei consorzi era giustificata dalla necessità di essere il più possibile vicini al cliente. Il miglioramento della rete viaria e dei mezzi di trasporto ha reso superflua e molto costosa una rete così diffusa.
La chiusura di magazzini, oltre ad un risparmio gestionale, ha rappresentato spesso la soluzione migliore per trovare liquidità, vendendo gli immobili, quasi sempre collocati in zone strategiche.
Il mondo consortile vive da anni un continuo divenire ed è ben lontano dal raggiungere una stabilità.
Le fusioni, talvolta, sono l’unico strumento per fare sopravvivere aziende ormai decotte e senza speranza, accorpandole ad altre un po’ più sane per realizzare una diminuzione dei costi ripetitivi e per eliminare strutture inutilmente duplicate.
Non sempre, per vari motivi, questa politica di contenimento dei costi si realizza, ed allora la struttura malata contagia quella sana, creando un male ancora maggiore di quello che si intendeva sanare.
Non va dimenticato che i consorzi agrari sono amministrati da dirigenti eletti dagli agricoltori, soci, a loro volta associati a qualche associazione agricola. Il c.d.a. così eletto risulta quindi essere l’espressione dell’associazione cui la maggioranza dei consiglieri aderisce.
Quasi tutti i consorzi sono sotto l’influenza determinante di Coldiretti, mentre ben pochi rientrano nell’alveo dell’Unione Agricoltori.
Le politiche di fusione e di accorpamenti sono spesso decise dai vertici di queste associazioni, le quali, troppo spesso, si limitano a valutazioni “politiche” e non approfondiscono appieno le esigenze di mercato, le diversità dei territori e le loro vocazioni culturali, e, soprattutto, la profonde problematiche economiche.
I consorzi agrari sono cooperative e, come tali, non accolgono capitale di rischio, ma si limitano alle modestissime quote sociali previste per tali figure societarie, quindi sono sottocapitalizzati e non in grado di far fronte alle ingenti problematiche debitorie nelle quali si dibattono.
In taluni casi la fusione ha consentito di realizzare economie di scala rilevanti e la nuova creatura, se pure non naviga in acque ottimali, migliora le risorse complessive.
In altri casi il rimedio è risultato peggio del male.

7) Per gli agenti, nelle attuali condizioni in cui versano i Consorzi Agrari, sta cambiando qualcosa o i problemi di sempre continuano a persistere?

Gli agenti, con rappresentanza e con deposito, sia pure ridotti nel numero, rimangono sempre il supporto vitale dell’attività consortile per una serie rilevante di motivi.
Prima di tutto gli agenti con deposito sono le uniche figure, in questo mondo, che investono capitali propri e rischiano per scelte fatte da altri.
Le attrezzature per la movimentazione delle merci, sia all’interno che all’esterno del deposito sono, infatti, di proprietà degli agenti, i quali, se il consorzio chiude, per la cattiva gestione di altri, sono costretti a svendere il proprio capitale.
Quando l’agente si avvale dell’opera di personale dipendente, in caso di chiusura del consorzio, deve liquidare tutte le indennità spettanti contrattualmente, ma non ha alcuna garanzia di riscuotere le proprie, perché il consorzio in liquidazione coatta non ha, solitamente, la possibilità di far fronte ai propri debiti, spesso nemmeno a quelli privilegiati.
Il secondo motivo è il rapporto normalmente esistente con la clientela: l’agente, per ormai antica tradizione, non è solamente il venditore, ma è anche il consulente e l’amico per l’agricoltore, il quale rimane legato al consorzio solo perché gli viene portato in casa dall’agente, di cui ha fiducia e, per lui, a volte, sopporta anche di pagare i prezzi elevati del listino consortile.
Inoltre l’agente con deposito, oltre a gestire la merce, promuovere le vendite e fa le consegne ai clienti, svolge per il consorzio moltissimi altri compiti di natura amministrativa. Emette le bolle di consegna e, quasi sempre, le fatture, riscuote sia per le vendite a contanti, sia per i crediti scaduti, emette le cambiali agrarie, svolge le attività di promozione delle politiche organizzative del consorzio, il tutto senza una remunerazione specifica.
Per non parlare dell’attività di raccolta e di conservazione dei cereali, di importanza primaria nell’attività consortile, affidata ai rappresentanti con deposito.

Un'assemblea A.N.S.A.C.A.P.


8) A quanto pare sono ancora molti i punti critici da risolvere per gli agenti dei Consorzi Agrari e ci auguriamo tutti che vengano trovate quanto prima soluzioni congrue al loro superamento.
Per concludere, vorremmo chiederle come vede l'attuale situazione dell’agricoltura italiana che è, in sostanza, il settore in cui operano gli agenti?

Sull’andamento dell’economia in genere, e dell’economia agricola in particolare può essere detto tutto ed il contrario di tutto: da anni l’Italia arranca con fatica per superare una crisi epocale e, periodicamente, i “guru” della politica buttano sul tavolo numeri per dare speranze di ripresa, o fare le cassandre per togliere le speranze.
L’economia agricola, oltre ai problemi caratteristici di qualsiasi altro comparto economico, soffre per l’andamento climatico: la siccità si alterna con le alluvioni, il grande caldo ed il grande freddo distruggono i raccolti.
Eppure in agricoltura si assume ancora e le cronache ci riferiscono di molti giovani che scelgono di abbandonare la città per la campagna, naturalmente per culture a professionalità elevata. L’agroalimentare italiano ha fatto registrare numeri di tutto rispetto e le esportazioni (malgrado l’Europa…) hanno dato non poco respiro alla nostra asfittica bilancia dei pagamenti. Si dovrebbe fare moltissimo di più per valorizzare, in Italia ed all’estero, le nostre eccellenze agroalimentari locali.
In Francia ed in Germania l’attività di selezione e valorizzazione del prodotto agroalimentare viene svolta da organizzazioni statali.
In Italia è lasciato tutto alle iniziative, anche originali, dei singoli: basti pensare all’esperienza di F.I.CO. a Bologna, nata sotto i migliori auspici e capace di grandissime potenzialità per il futuro nella diffusione della cultura del cibo e della produzione agroalimentare.
Non c’è mai stato un intervento pubblico, come in altre nazioni europee.... ma forse è meglio così.

Bologna, 19 aprile 2018
Paolo Zangarini